Siamo alla terza puntata del novellone balcanico di Alejandro Agresti. Don Héctor è tornato a Buenos Aires, ma il cuore lo ha lasciato in Romania a tenergli il posto, come un cappello sulla sedia. Una volta a casa rompe definitivamente con il torroncino fedifrago, si iscrive al corso serale di rumeno estremo alla scuola Ionesco Pitman, va in palestra tutti i giorni e si taglia persino le basette. Solo i baffi tiene, leggermente brizzolati, un nastrino d’argento. Con i soldi realizzati da un terreno venduto sottoprezzo a Lomas de Zamora, si compre un biglietto Lufthansa e un’avveniristica valigia con le rotelle. Arriva finalmente il gran giorno. Mentre il remis lo aspetta alla porta, Héctor prova un’ultima volta gli occhioni di brace allo specchio. Parla a sé stesso in una lingua per lui nuova. Dice:

Io non sono mai stato solo, perché io è così cool.
Baby, hai una possibilità, giocatela con me.
Non sono mai stato furbo, perché non ho avuto il bisogno mai.
Baby, hai una possibilità, giocatela con me.
Salta sulla mia Jaguar, salta nel mio boudoir.
Mi metto il pigiama, andiamo alle Bahamas.
Baby hai una possibilità, giocatela con me.

Don Héctor scende a Monaco e punta subito sul paesino rumeno. Rifà lo stesso percorso di qualche mese prima. Noleggia lo stesso camper. Guida parlando da solo. Ci mette otto giorni a raggiungere l’esotico punto geografico in cui era cominciato il suo amore. Man mano che si avvicina al locale, sente le gambe farsi molli e i passi corti come quelli di un papero. Dalla porta fuoriescono gli echi di un canto gregoriano, lo stesso disco che salta. Entra, si siede a un tavolo. I suoi occhi si piantano nella tovaglia, le mani smuovono briciole che non ci sono. Ha paura di guardarsi attorno. Aspetta che il cuore calmi tutto quel flamenco e che lei gli si butti tra le braccia. Si è profumato persino gli inguini. I chili che ha perso lo fanno sembrare più agile, ma anche un po’ artificiale. Una voce che non è quella di lei gli chiede cosa desideri mangiare. Don Héctor, che adesso capisce e sa parlare la lingua, ordina una cotoletta, ma ben cotta per favore. La cameriera si allontana ordinando a squarciagola dei calamaretti in salsa ottobre. Lui non si scompone, i calamaretti non gli dispiacciono. Alza prima un occhio, poi l’altro. Dice ad alta voce che Eubeba sarà in turno di riposo. Gli gira la testa, cerca di controllarsi ma i comandi non rispondono, la testa gli gira sempre di più. Ha paura, come dargli torto, di chiedere un’aspirina in quella nuova lingua. Si alza e va dalla cassiera. Descrive Eubeba, scoprendo che è davvero quello il suo nome.
Sembra che non lavori più lì, che l’abbiano licenziata perché disturbava i forestieri. Insiste a lungo finché gli dicono di malavoglia dove si trova adesso. E’ andata in Bulgaria, a Sofia, o, come si dice in rumeno, a Baasofia. Torna al suo tavolo con un bigliettino e l’indirizzo scritto in una calligrafia indecifrabile. Lo stringe in pugno. Con un groppo in gola inghiotte i calamaretti senza quasi masticarli.
Osserva il luogo con nostalgia tranquilla, è certo che l’amore alla fine trionferà.
Monta sul ferry-boat. Attraversa la frontiera. Si sciroppa in un solo colpo i duecento undici chilometri di sterrato che lo separano dalla capitale bulgara.
Lì tutto è scritto in cirillico. Ventun gradi sotto zero. Strade deserte coperte di neve. Sceglie un hotel non troppo economico. Il portiere gli dà due lampadine. Una per la camera e una per il bagno. Sono entrambe numerate con lo smalto, rispettivamente la ventotto e la settantuno. Se le fulmina o le rompe, costano di più della camera.
Si prende il suo tempo. Fa una doccia d’acqua beige. Ci mette un po’ a trovare il pulsante d’accensione del televisore marca Vostok. Avvolto nell’asciugamano, compone lentamente il numero di Eubeba. Quando dall’altro lato rispondono, si produce questa conversazione. Al rumeno corretto della signorina si alternano i portentosi strafalcioni di don Héctor.
- Buona sera.
- Sì, vodrei hablare con signorrina Eubeba Marinescu.
- Sì, sono io.
- Ti recuerdi di muà?
- No, non so. Chi è lei?
- Songo l’omone mezzo brissolato tua mano bagiare, muà nel Carisma restaurant.
- Tu...
- Sorpresa, sorpresa. Qui muà per te retorno.
Dall’altro lato mettono giù.
Crolla la pressione di don Héctor. Una ventosa gli lavora il petto. Se non si muove, sviene.
Comincia a camminare intorno al letto, respirando profondamente. I pensieri si accavallano uno sull’altro. Non sa cosa fare. Deve esserci un equivoco, il destino non può essere tanto crudele. L’amore che abitava nel suo cuore è caduto in un orrendo precipizio. Devo chiamarla? Forse parlo un rumeno peggiore di quel che credevo. Che si sia sposata? Si mette il cappotto e scappa fuori da quella stanza che comincia a puzzare di fiori morti.
Cammina per strade sconosciute e ostili che sembrano ridergli in faccia. Non riesce a calmarsi. In ogni vetrina, lampione, cartello stradale, lo strano alfabeto gli tira addosso l’assurdità di quell’amore impossibile. Tutto riguarda lei. Ma non ce l’ha con lei. Forse Eubeba ha bisogno di aiuto. Sta a vedere che c’è sotto la politica. Le stradine vuote, coperte di bianco, contrastano con il cielo purpureo dell’improvvisa notte invernale.
Torna all’hotel.
Qui l’abulica impiegata della ricezione gli offre una rivista di geroglifici insieme a un foglietto con un messaggio in cirillico. Non si capiscono. Lui cerca di sapere se è stata lei a chiamarlo. A Sofia non ci sono molti hotel. Li avrà passati uno a uno? Ma poi, di chi avrà chiesto? Dell’omone brissolato sorpresa sorpresa? Chi altri poteva lasciargli un messaggio? In Argentina nessuno sapeva dove sarebbe andato a parare. Risolutamente, supplica la collezionista di lampadine di dargli un aiutino. Sfodera un bigliettone. La mossa convince subito la tipa. Con le mani, disegna nell’aria la silhouette di una donna.
Bene, deve essere lei. Si mette in trincea in camera sua ad aspettare. Alla tele non si capisce un cazzo. Ci sono tre canali, ne sceglie uno con il balletto. Ci saranno un duecento ballerine in scena. Don Héctor scoppia a piangere come un vitello.
La sofferenza fa rumore, dentro di lui. All’una di notte, squilla il telefono.
- Pronto.
- Sono Eubeba.
- Sì, essere muà, qué successo? Appendi.
- Scusami, mi hai colto di sorpresa.
- Capiscio.
- Pensavo che fosse uno scherzo.
- Mi picolina scioca...
- Di dove sei?
- Io suono argentayn.
- E’ lontano...
- Ja.
- Sei venuto per me?
- Per qui altra... zucherino de muà...
- Non capisco bene, dove hai imparato a parlare in rumeno?
- Pitman, scola do parla
- Cosa hai detto? Ti senti bene?
- Alora migliore que dopo
- Ho un’amica che parla spagnolo, forse ci può aiutare
- Parla no problems. Lingua univers...
- Non capisco. Ti chiamo domani
- Dormi trancuila. Sogni l’angioleti...
S’addormenta rasserenato. Un incubo non tarda a scuoterlo. Si sveglia di colpo gridando nell’oscurità. Smanaccia il cuscino che chiama amore della mia vita.
Alla mattina, lo sveglia un colpo alla porta. Va ad aprire avvolto nella coperta che lo fa sembrare la Madonna di Lujan in formato gigante. E’ Eubeba con un enorme mazzo di fiori. Lei è sorpresa, stenta a riconoscerlo. Lui rimane, grazie a Dio, senza parole. Sorride mentre si schiaccia i ciuffi brizzolati. Lei guarda a destra e a sinistra nel corridoio e mormora in tono disperato:
- Dovevo vederti. Devi aiutarmi.
Don Héctor si scosta e la fa passare. Va in bagno, accende la luce, scoppia la lampadina. Eubeba sente l’esplosione e bussa allarmata alla porta.
- Apri, apri, cos’hai fatto?
- Pum pum lampadina.
Eubeba fa un gesto di sollievo e sorride. Sola nella camera, dà un’occhiata in giro alle cose del suo pretendente. Scopre sul comodino la fotografia con lei che bacia la mano a lui. Don Héctor esce un po’ più pettinato di prima. La vede di spalle, con le mani incrociate dietro la schiena, mentre fissa quel rettangolino di cartone con la sua immagine. Non si muove. Si porta un dito alla bocca e se lo succhia. Timido come sempre, il principe ha paura di distrarre la donzella in scarpine bianche e borsetta idem, un pendant ormai passato di moda. Lei sembra svegliarsi, il suo corpo vibra leggermente, si accorge di don Héctor.
- Questo eri tu?
Don Héctor non capisce, crede che ciò sia dovuto al forte accento del dialetto regionale draculiano.
- Mi buoi ripetere la questione?
- No, no, niente.
Lei sorride e si risolleva con un certo brio, come un attrice pronta ad entrare in scena.
- Adesso sì che sei bello, come ti sei pettinato bene.
Don Héctor abbassa gli occhi al tappeto, come se avesse perso qualcosa.
- Qui cosa ti gusta di muà, Eubeba?
Lei si avvicina e abbraccia il nostro lungo compagno nascondendo il faccino, ora rigato di lacrime, nel petto peloso che spunta dall’accappatoio aperto.
- Basta parole, tesoro mio. Finalmente siamo insieme.
- Venga sedere porchino qua lettino.
Più che sedersi, si sdraiano, si abbracciano, fanno l’amore. Trema il letto e anche il comodino. Si rovescia la foto che dall’altro lato porta scritto due numeri di telefono dell’ambasciata rumena a Buenos Aires e una nota che dice semplicemente: “Questa foto appartiene al signor Héctor Lasota, domiciliato in, telefono eccetera. In caso di smarrimento, siete pregati di restituirla al legittimo proprietario. Verrete ricompensati. Non ha valore commerciale, ma solo affettivo. Grazie anticipate e che Dio vi benedica.

Foto di Josef Koudelka