Gli uomini muoiono di fame ma si ammazzano per amore. Inizia così, con questa frase altisonante, uno dei migliori film sul ritorno dell'Argentina alla democrazia. Si tratta di "Buenos Aires viceversa" di Alejandro Agresti, un autore che non si limita a sprecare il suo talento con la Disney, ma lo butta a mani basse in ogni cosa che fa. Butta via i pomeriggi a Hollywood con Keanu Reeves, Sandra Bullocks e Al Pacino e rimane un reo, un ragazzo di barrio, innocente come animale e canaglia come cristiano. Guardare per credere le sue interviste su YouTube, il suo lunfardo vissuto pericolosamente, l’ironia della strada, la filosofia maturata sui millenari panni da bigliardo. Il suo tango preferito? Mi perro pekinés nell’unica versione esistente, quella di Troilo e Rivero, e basterebbe già questo a farmelo considerare un fratello di setta. Una setta da due, per ora. Nel 1996 il suo talento Alejandro Agresti lo ha scialacquato anche in un libro, “La sonrisa no basta”, Il sorriso non basta, una specie di Decamerone che sembra sceneggiato da Roberto Arlt. Sono storie di barrio intrecciate tra loro, dove tutto è visivo, concreto, ottico, cinematografico. Il narratore è un tal Toscano, metà atorrante metà onesto lavoratore, come tutti nella Buenos Aires di allora e di sempre. Il libro l’avevo in gran parte tradotto e pubblicato a puntate sulla Tangueros Review. Cosa c’entrava con il tango? Niente e tutto. Niente perché i personaggi del libro il tango non lo nominano neanche tanto ha impregnato le loro vite. Nel Corano non serve mettere i cammelli, dice Borges. E tutto, perché queste sono le stesse storie che si raccontavano ogni notte che Dio toglieva dalla terra nelle milonghe di Buenos Aires, parola per parola. Storie però che non trovate su YouTube. Ho dunque pensato di ricavarne una serie di racconti radiofonici dal titolo “Milonghe per l’estate”, da ascoltare, se volete, sotto l’ombrellone di Radio Tango Macao. Il primo racconto, in quattro puntate, è un novelón balcanico, un amore tra i Carpazi, contrastato e colpevole. Il protagonista è Don Héctor, un romanticone disposto a tutto. E come vuole il copione di ogni tango che si rispetti, la sua storia d’amore nasce da un addio. Gli uomini morranno anche di fame, ma a volte sono disposti a vivere soltanto per amore.
A forza di balle, ci guadagnammo la gloria. Non potete nemmeno immaginare il
casino che abbiamo fatto raccontando gli aneddoti più inverosimili. La Bibi girava
con una borsa piena di paccottiglia che aveva comperato in centro chissà quando
e distribuiva regali, ricordini e souvenir, faceva la modesta, si lamentava di come la
grana ci era scivolata via nel viaggiare attraverso diciassette paesi. Per fortuna
eravamo stati abbastanza furbi da non includere nel nostro itinerario di fantasia la
Germania e i paesi del così detto Patto di Varsavia. Perché? Perché era da un
pezzo che don Héctor e Cardoso stavano minacciando di spingersi fino a là con le
rispettive signore per una specie di seconda luna di miele.
Don Hector era uno di quei tipi che, se uno gli vuole bene, li scusa chiamandoli
comunisti romantici. Non passava giorno che non rompesse i coglioni con i russi
che erano arrivati su Venere e che non era vero che gli fosse esplosa l’astronave,
che erano già arrivati su Marte e avevano anche scattato delle foto a colori, che
non aveva senso che gli Americani arrivassero sulla luna visto che i sovietici già
portavano giù le pietre a buon mercato. Io non saprei. Ci mostrava dei libri in
spagnolo stampati dai russi, ce li faceva perfino annusare per la qualità della carta,
perché non so con che cazzo la facciano laggiù.
Con Cardoso erano amici da anni, quasi fratelli, si potrebbe dire. Ogni tanto si
accaloravano perché il dentista non è che odiasse i rossi: lui anche i rosa pallidi li
avrebbe volentieri passati col trapano senza anestesia sul nervo infettato. Un
giorno che erano un po’ nervosi per problemi personali, vennero quasi alle mani
discutendo di Fidel. Li separammo, ma non si parlarono per diversi mesi. Era un
peccato. Quando uno entrava, l’altro se la filava dall’altra porta del bar oppure
cambiava di tavolino. I loro gesti non erano di rancore, tenevano il broncio come i
bambini, facevano gli addolorati. Una sera, don Antonio non ne può più della
situazione e fa da paciere. Comincia da lontano con le battute, una dietro l’altra
finché non riesce a farli sorridere. Riusciamo a convincere i due amici ad
abbracciarsi e ordiniamo subito a Palacios una bottiglia di spumante che,
naturalmente, dobbiamo aspettare per tre quarti d’ora perché bisogna andare a
comprarla e darle l’invernado rapido, l’ibernazione rapida. Cardoso e don Hector
promettono di non discutere mai più di politica, anzi di andare un giorno insieme a
visitare i territori oggetto del dibattito e di indagare imparzialmente, ognuno con i
suoi occhi, la verità della cotoletta.
La donna di don Hector, magari non sta bene dirlo, ma era una un po’ così. Aveva
un’aria da mignottone. Io non ero l’unico a dirlo, tutti avevano questa impressione.
L’atteggiamento, le smorfie, i vestiti, il modo di camminare: ugualmente nessuno di
noi si azzardava anche solo a chiedere a don Hector dove diavolo l’avesse
pescata. Non ne avevamo il coraggio, prima di tutto perché se uno di noi avesse
aperto bocca, tutti gli altri sarebbero scoppiati a ridere, e poi perché sulla faccenda
non c’era alcun dubbio. Nessuno siam perfetti, e ciascuno abbiamo i suoi difetti.
Quando ogni tanto la signora passava per il bar, ci sbaciucchiava tutti in una
maniera tale che poi dovevamo asciugarci la saliva col polsino. Più che salutarci ci
sputava addosso. Emanava una specie di odore da bruciato che faceva spavento,
come se si depilasse col saldatore. Don Hector poi aveva anche la mania di
pavoneggiarsela, le dava i pizzicotti sul sedere perché noi vedessimo che femmina
aveva per le mani. La chiamava sfacciatamente la mia insalatina o il mio
torroncino. La verità è che la loro presenza insieme ci metteva in imbarazzo e chi
poteva, guardava l’orologio e se la svignava.
Quando la Bibi ed io tornammo dall’Europa, ci dissero che a giorni sarebbero
partiti per il gran viaggio. Andammo tutti all’aeroporto. Fummo proprio noi ad
accompagnare Cardoso e Marta con la Citroën. Mentre andavamo a Ezeiza, ci
facevano mille domande sul viaggio in aereo. Noi non ne avevamo la più pallida
idea, ma anche questa volta la mia signora ci salvò in corner con la sua parlantina:
l’aereo è come un autobus più lungo in cui però non si possono aprire i finestrini.
All’aeroporto ci troviamo tutti insieme. Don Hector e l’insalatina non si parlano. La
situazione è più che antipatica. Hanno una discussione sulle valigie e don Hector
quasi la sputtana davanti a tutti. Noi cerchiamo di minimizzare l’accaduto e di
calmare le acque, ma lo stesso ci sentiamo inondare di vergogna.
Partono. Salgono per la scala mobile e noi ce ne andiamo fuori a vedere l’aereo
che decolla. Nei minuti successivi succede qualcosa d’incredibile a cui non
partecipo direttamente ma di cui sono poi messo al corrente.
Hector e il suo torroncino iniziano a prendersi a schiaffi all’interno della cabina. Le
hostess e gli ufficiali di bordo cercano di calmare gli sposini di seconda mano.
Arrivano a dire che non si decollerà finché non si sono riappacificati. La signora,
con sorpresa e disperazione di Cardoso e di Marta, risponde senza peli sulla lingua
al personale viaggiante.
- Non preoccupatevi per me, partite pure che io scendo.
- Ma... ma va là, scendi pure, mentecatta di merda, voglio proprio vedere se mi
faccio rovinare le vacanze da te - replica con inquietante serenità suo marito.
Anche Marta interviene cercando disperatamente di farla ritornare in sé.
- Però Gladys, cosa stai facendo? Sei matta?
- Matta sarà tua nonna, guarda come ti sei vestita per viaggiare in aereo.
- E lasciala, lasciala che scenda, Marta, non vedi che è un cesso d’una maleducata
- difende così Romeo la sua Giulietta di torrone.
Finisce che la tipa smonta per davvero, si chiudono i portelli e l’apparecchio
comincia a rullare facendosi più vicino di qualche metro al Vecchio Continente.
Noi intanto siamo lì a sorridere come degli scemi, coprendoci con la mano il sole
dagli occhi per vedere l’affare che prende quota, quando un’aroma di depilazione
istantanea ci rivela che alle nostre spalle c’è una che invece dovrebbe essere
lassù.
- Qualcuno mi dà un passaggio a Buenos Aires?
Nella radio della macchina che ci riporta in città si capta la Colifata. E’ un vals
quello che ascoltiamo in un silenzio che si taglia coi forbicioni, un vals igualito a un
tango, uguale sputato a un tango. E la voce sembra proprio quella di Don Héctor:
Mi han fregato i suoi occhi, tanto per cominciare
ho abboccato come un fesso a un esca così dolce.
Poi è venuta la parlantina ed è finita in niente:
andiamo a vivere nel bosco che in città mi sento morire.
Proprio come il tango. Ho fatto la sciocchezza
di cantare le lodi a una rosa che invece era un pomodoro.
E nonostante tutto continuo a vederla.
Il fiele che oggi distillo non mi serve a niente.
Mi rimane la speranza che il giorno arriverà
e la vedrò color seppia come una fotografia dimenticata
Foto di Josef Koudelka