Non c’è dubbio sul fatto che l’esperienza più entusiasmante per chi esercita la professione di compositore, anche part time, sia quella di ascoltare la propria musica eseguita da una orchestra sinfonica. Anche i musicisti di tango che avevano e hanno le conoscenze per realizzare partiture con una scrittura così complessa, non sfuggono a questa chimera e quando qualche occasione si è presentata loro, non si sono tirati indietro cimentandosi su questo fronte pericolosamente sdruccioloso. Fernando Fedel, seppure non abbia la patente T di tanguero de ley, è uno di questi fortunati intrepidi che si sono avvalsi di orchestre importanti come la Sinfonica del Teatro Colon, come in un disco dove è ospite il magico violino di Antonio Agri come solista. Ho chiamato in causa Fedel nell’ultima puntata dedicata a Daniel Binelli per diversi motivi. In primis perché entrambe sono stati allievi della classe di composizione del maestro Pedro Aguilar; dopo di che, perché entrambe hanno sviluppato la loro musica anche in ambito sinfonico; quindi perché hanno collaborato in diverse occasioni; infine per la comune devozione verso Piazzolla, che, diciamolo chiaramente, non è stata indirizzata all’imitazione ma piuttosto alla condivisione di una bandiera….e a questo proposito, dopo l’esperienza del Sexteto de Nuevo Tango commentata nello scorsa puntata, mi sento di decorare Binelli con la medaglia virtuale di piazzolliano nell’anima. Per quel che riguarda le imprese comuni, nel 1991 i due hanno registrato un microsolco intitolato Memoria y Tango. Come plus valore, la nota di copertina è scritta dal geniale regista Pino Solanas che in questo lavoro riconosce “la natura mas ritmica y lirica del tango”, nel solco del “camino abierto por el genio de Piazzolla con su meravillosa musica da camara de la ciudad de Buenos Aires”. E Pino centra perfettamente il punto, aggiungendosi inconsapevolmente a quello che nel 1984 Astor Piazzolla in persona aveva detto a Fedel durante un loro incontro a Madrid: “tu musica tiene olor a Buenos Aires”. Tesaurizzando questo riconoscimento supremo e immateriale, Gustavo Fedel imprime una svolta decisa al suo cammino artistico. Era partito da una militanza rock, culminata figurando come tastierista del gruppo Generacion Cero; stava attraversando la formazione come compositore presso la classe del gettonatissimo Pedro Aguilar; era arrivato passo dopo passo come un imprevisto outsider alle porte del tango d’avanguardia. Un campo gravitazionale di nicchia che stava covando nuovi musicisti dopo aver perso Rovira, vittima di una morte precoce che piombò su di lui nel 1980 come un perverso sopruso, e stava accingendosi a piangere la scomparsa di Astor annunciata da una lunga agonia. I compagni con cui il pianista ha registrato Memoria y Tango sono stati i complici fondamentali che lo hanno aiutato ad immergersi in questo mileu, per realizzare nel migliore dei modi la sua scrittura elegante e ispirata da un senso melodico di spontanea naturalezza, inserito nella matrice stilistica di un contesto armonico e strutturale dalle molteplici irradiazioni. A questo punto ci terrei a condividere una considerazione su Gustavo Fedel e su quel plotone di musicisti di tango operanti dagli anni settanta in avanti, tutti attratti dalle spinte progressiste più eteroclite che stanno ripercuotendo le idee musicali formulate allora, anche nel presente. Credo che tutti o quasi meriterebbero di essere investigati e presentati, almeno con un piccolo contributo, così come sto cercando di articolare per quelli che ho cercato di selezionare arbitrariamente. Insomma l’albero diairetico delle sfumature, dei progetti, delle personalità, dei trionfi e dei fallimenti di questo brulicare umano e musicale, è frondoso molto più di quanto ci si possa immaginare. Saul Cosentino, Orlando Tripodi, Osvaldo Manzi, Atilio Stampone, il Primer Cuarteto de Camarata del Tango, +Quinteto de la Guardia Nueva* di Manuel Guardia e il settimino di Luis Pasquet, gli ultimi due in Uruguay, ma la lista è molto più corposa. Daniel ha attraversato attivamente questo fervore e oggi è un’ultrasettantenne così attivo da potersi concedere senza troppe intossicazioni di malinconia e di rimpianto alcune lucide e feconde imprese creative fuori da, come quelle che da oltre un decennio lo vedono impegnato a occuparsi di musica da camera e anche di scrivere per una formazione sinfonica. A proposito di orchestre sinfoniche, nel 2015 un mecenate californiano ha lanciato e finanziato l’idea di riunire opere di Daniel Binelli, Carlos Franzetti ed Emilio Kauderer, tre compositori argentini residenti negli States, affinchè realizzassero, per un organico di almeno cinquanta musicisti, un materiale originale con reminiscenze riconducibili alla loro esperienza diretta e indiretta con il tango. Il progetto sarebbe stato finalizzato dalla pubblicazione del CD intitolato Tango Ahora, sottotitolato Three Extreme Tango Commissions, registrato a Praga con l’Orchestra Filarmonica della città nello stesso 2015. Questa Ciudad Caliente è suddivisa in tre parti di circa otto minuti ciascuna e ognuna di esse è indicata in inglese come Sensation 1, Sensation 2, Sensation 3. Le parti sono caratterizzate da una sintassi paratattica che inanella ricche varietà di figurazioni in tre atmosfere differenti: la prima è più tanguera e virtuosistica e lascia spazio al carezzevole virtuosismo di alcuni strumenti; la seconda, solenne e stagnante, è una specie di elegia sensoriale sviluppata lentamente come adagio cantabile; la terza cambia i colori disegnando l’astratta parafrasi di una milonga. Le loro complesse morfologie hanno come comun denominatore la tecnica compositiva che fa riferimento a criteri utilizzati nella musica colta del primo ventennio del ‘900. Il nerbo delle composizioni orchestrate da Binelli risalta alla perfezione attraverso l’interpretazione di squisita sensibilità timbrica che ne dà l’orchestra, realizzando alcuni passaggi di bellezza disarmante, articolati con la consequenzialità di un teorema geometrico. Se mai, la continuità è smarrita proprio laddove un’ampollosità ginnasiale, accumula amalgami linguistici torcendo inutilmente l’aspetto melodico. Nel complesso tutte le parti solistiche emergono con autorevolezza oltre che da Binelli stesso, anche dalla violinista Sara Parkins, dalla cellista Sara Sant’Ambrogio, e dalle pianiste Erika Niskrenz e Polly Ferman. Quest’ultima è la compagna per cui Daniel ha deciso di lasciare l’Obelisco per raggiungere la Statue of Liberty. E a proposito di gossip, di donne ma anche di sonno, concludo questo impegnativo ritratto di Daniel Binelli sbragando nel vivo dell’aneddotica personale che risale all’anno 2020, quando ho avuto l’onore di suonare con lui durante una lunga turnèe in Brasile e Argentina. Partiamo dal sonno. Della sua persona, sempre gentile e incoraggiante ricordo la sua capacità di addormentarsi istantaneamente in qualsiasi tempo morto, indipendentemente dal momento e dalla situazione, con narcolessie profonde anche di brevissima durata. Una volta persino durante la coda per imbarcarci su un volo a San Paulo…la fila si smaltiva mentre lui restava lì in piedi appisolato, venendo superato da chi gli era dietro. Alla fine, quando ormai era rimasto solo, un collega che aveva già superato come noi tutti il controllo dei documenti, chiese ad una delle hostess che li controllava di andare a svegliarlo. Naturalmente riprese a dormire appena seduto sull’aereo della compagnia uruguayana Pluna, non accorgendosi minimamente dei terrificanti scossoni e degli sbalzi di quota a cui era sottoposto attraversando una tempesta tropicale. Non ho le parole per raccontarvi come ha atterrato il capitano che fortunatamente non avevo visto all’imbarco perché se fosse successo lo stato d’ansia avrebbe raggiunto livelli intollerabili: fisionomia da serial sul narcotraffico, T-Shirt, catenazza dorata con tanto di crocefissole, chewingum masticata a tutta mandibola. Che fosse il pilota lo si poteva intuire solo dal berretto portato sulle ventitrè, mentre l’unico personale di bordo era un elegante signore che con l’aria di un cattedratico di Oxford non aveva fatto una piega di fronte all’apprensione di tutti i passeggieri ad esclusione di Daniel che ha continuato a dormire immerso nei suoi sogni, disinteressandosi di quanto accadeva sul trabiccolo in cui stava volando. Al contrario di quella beata imperturbabilità, nello stato di veglia Daniel era un devoto del suo lavoro, impegnandosi in mille situazioni diverse con tutto il loro portato di stress. Detto questo, potete immaginare come l’occasione di una turnèe così lunga come quella che avevamo in programma, gli avesse suggerito di calendarizzare in concomitanza qualche concertino, lezione, passaggio televisivo o radiofonico. Così accade che alla fine di ogni replica del nostro concerto al salon Coronado situato all’interno del Teatro San Martin di Buenos Aires, Daniel dovesse correre per raggiungere un locale a qualche isolato di distanza, dove lo aspettavano i quattro musicisti del suo quintetto per accompagnare la giunonica Cecilia Rossetto, attrice e cantante con la voce di chi ha bevuto e fumato tutto quello che poteva e quello che non poteva. Quindi via smoking, camicia bianca e farfallino, e su la camicia nera d’ordinanza tra i fanatici di Piazzolla e di corsa a La Casona del Tango, un teatrino imprevedibile perché lo si trova solo dopo aver attraversato il salone di un bar (!). Dopo il concerto del venerdì sera, lo accompagnai per assistere il recital, e quindi continuare la nottata insieme a lui a La Viruta, un classico tra le milongas della città, curiosamente ospitata dal centro culturale armeno. Ci doveva raggiungere un personaggio tra i più stravaganti che mi è mai capitato di incontrare, conosciuto nel pomeriggio in uno di quegli impagabili cafè di Corrientes. Io ero ad un tavolino con una mia collega, lui ad un altro. Ci fa un segno di saluto. Ricambiamo. Si alza e si invita a sedersi con noi. Viso da indio, capelli corvini, abito intero, modi dinoccolati, voce suadente. Apprendiamo che è un caso raro trovarlo lì a quell’ora, perché lui di giorno dorme, avendo eletto le ore della notte come habitat benigno per approfondire tutte le sue curiosità o ballare il tango. Beviamo insieme un ulteriore caffè, mentre alla sua domanda, rispondiamo di essere italiani e musicisti. Lui si illumina con un fremito di entusiasmo: ha un debole per l’Italia che ha visitato, precisandoci che il suo viaggio non era mosso da alcuna velleità turistica, ma da un obbiettivo preciso: andare a Pontecchio Marconi! Eccoci conquistati dal personaggio e dalle sue “curiosità”. Ma perché proprio a Pontecchio Marconi? Semplice, ci risponde: perché lì c’è Villa Griffone, di cui non sapevamo assolutamente niente, dove ha vissuto Guglielmo Marconi ed ora è la sede della fondazione a lui dedicata. Apprendere della nostra ignoranza lo sconcerta e al tempo stesso lo esalta, rassicurandolo su quanto sia importante la sua encomiabile iniziativa di “strappare Guglielmo Marconi dall’oblio a cui lo hanno relegato gli insensibili cittadini di Buenos Aires e soprattutto i governatori della metropoli a cui scriviamo le nostre lettere di protesta settimanalmente” (parole sue). Si entra nel merito e mentre la mia compagna non ne può più del folle farneticare di quell’uomo, per me è manna dal cielo al reves. Lei se ne va, io resto…e faccio bene perché dopo arriva il bello. Oltre al suo apostolato marconiano di importanza capitale, il nostro inconsapevole dadaista ha un’altra irrefrenabile inquietudine sgorgata furiosamente dalla sua anima qualche anno prima del nostro incontro. Una missione a cui non si può sottrare e che lo consegnerà alla storia futura. Tutto parte da una certa illuminazione folgorante giunta in forma di auto-domanda. Tra duemila anni quando qualcuno si chiederà come scriveva un macellaio, o un sarto o un avvocato nel 2000 dove potrà trovare una risposta? E lui è pronto a dargliela compilando un documento che fino a quel momento raccoglieva oltre quindicimila testimonianze calligrafiche, suddivise scrupolosamente per un gran numero di professioni, a loro volta archiviate per nazionalità. Evidentemente non fa un passo senza il taccuino da sottoporre a chi volesse garantirsi l’immortalità calligrafica, scrivendoci un breve contributo. Ça va sans dire che io non ho perso l’occasione e quindi sono finito, all’epoca ero il primo, nella stringa di soggetti articolata in musicisti, contrabbasso, Italia. Ci diamo un appuntamento a La Viruta dove lui avrebbe portato tre amiche, tutte a suo dire desiderabili anche fuori dalla pista. Alla fine l’amica era solo una, non proprio desiderabile neanche nella pista, ma simpatica con quel suo strabismo in cui Venere ha calcato la mano e che una volta si descriveva crudelmente con “quando piange si bagna la schiena”. Ma quel giorno che ormai era diventato il giorno dopo, non finiva di riservare sorprese. La prima è che Daniel era un milonguero, delicato, essenziale e….assolutamente anarchico nel seguire i segnali della musica che ballava. La seconda arrivò come un tifone verso l’alba: urla, invettive, tavolini rovesciati, la sala che si è svuotata in un batter d’occhio, le fastidiose luci di servizio che si accendono, un celebre ballerino di tango urlante che aveva infranto una bottiglia brandendola dal manico, e un tizio che a quel punto se l’era data a gambe levate: c’era di mezzo una donna e delle corna inammissibili. Era l’alba e Daniel, il collezionista di calligrafie e la bellezza letteraria, saliamo su un taxi per raggiungere l’antica panadería Flores Porteñas dove ci aspettava le medialunas caseras appena sfornate. Sul taxi Daniel mi disse soddisfatto qualcosa come “così oggi il tango lo hai vissuto proprio tutto!”, addormentandosi all’istante ancor prima di ascoltare una mia eventuale considerazione. Volevo dirgli che avevo vissuto anche che cosa può succedere in un cafè di Buenos Aires dove puoi incontrare i collezionisti più iperbolici che ti raccontano le loro meravigliose fissazioni sconlusionate. Conoscevo già quello degli ex amanti di Los Mareados, quello esistenzialista di Discepolo, moltissimi tra quelli che sono il teatro di diversi tangos de la decada de oro il Café La Humedad evocato nel 1972 da Cacho Castaña e, proprio quella sera Cecilia Rossetto nel suo recital Tango rojo con il quintetto di Binelli mi aveva accompagnato metaforicamente in quello dove è ambientato A un semejante. Un tango emozionante con letra e musica di Eladia Blazquez una rebelde che credeva “en un socialismo umano”. Lo ha composto nel tragico 1976, e descrive una sorta di chiacchierata disperata al tavolino di un bar tra due simili che cercando “l’amore in un deserto così sterile e così morto che il fiore non cresce più”, descrivendo metaforicamente il clima della dittatura, seduti in quel cafè che è una specie di zona protettiva perché “fuori c’è la tempesta di tante persone senza pietà”, perchè Dio “lo hanno portato via, è stato rapito e nessuno paga il riscatto”. Così i due semejantes, cioè i due simili, ci raccontano l’impossibilità di trovare l’amore in una città divenuta “un deserto così sterile e così morto che il fiore non cresce più”. Nonostante l’impianto metaforico denunci il clima oppressivo che ha colpito l’Argentina con la dittatura, questa letra sfugge ai censori al contrario di altri brani di Eladia come Prohibido Prohibir, titolo che riprende tale e quale un glorioso slogan del maggio francese. Chissà se il collezionista nel suo archivio di calligrafie ha un’etichetta studente-contestatore-Parigi.