Per il mondo del Tango era semplicemente “el Viejo” oppure “el Maestro”. Di sicuro fu maestro di tutti, vecchio non lo fu mai per nessuno. Semmai eravamo in molti a considerarlo eterno, o una settimana meno, come diceva Macedonio Fernandez. Osvaldo Pugliese ha vissuto più a lungo di quasi tutti gli altri grandi maestri; come Horowitz e Gil Evans aveva fatto della longevità musicale un’arte. Non esiste un tango che non gli sia passato tra le dita. Nel 1994 aveva festeggiato simultaneamente il 75° anno di attività nel Tango, il 70° anniversario di Recuerdo, il suo tema più celebre, e il cinquantenario dell’orchestra. Visse tanto da conoscere tra i malanni che la vecchiaia inevitabilmente porta con sé anche la rombante solitudine della sordità senile. Questo fastidio non lo fermò: nel 1992 gli furono sufficienti quattro o cinque note della Cachila del suo prediletto Arolas, per commuovere fino alle lacrime un Teatro Alvear pieno bombato. D’altronde il vero strumento di Pugliese era la sua orchestra, che fondò nel 1939 e che mantenne fino all’ultimo. Da buon comunista ortodosso quale era, l’aveva organizzata in forma di cooperativa: tutti i musicisti venivano pagati secondo ferree tabelle d’anzianità e in base all’apporto di ciascuno. Le incombenze, invece, erano distribuite secondo le inclinazioni personali. Per l’assegnazione dei ruoli musicali vigevano criteri esclusivamente musicali. A volte si producevano confusioni inestricabili: il primo bandoneón per anzianità suonava seduto al posto che normalmente spetta al terzo bandoneón, e il primo violino eseguiva gli assoli scritti dal secondo. Forse anche per questi motivi, l’Orchestra Pugliese fu sempre considerata l’orchestra più complicata del mondo, anche dai detrattori. Solo i ballerini più abili si azzardavano a ballare Pugliese, un vento fatto per i vascelli. Gli altri, i gusci di noce, stavano ad ascoltare. La pulsazione estremamente plastica, le raffinate poliritmie, gli esasperati rubato ne facevano un’orchestra difficile, ma sempre “linda para escuchar”. Seguire la melodia di un tango, magari canticchiarla, è un placido esercizio quotidiano. Con Pugliese diventa arduo come seguire il corso di certi irreperibili torrenti di montagna che a tratti scorrono copiosi, poi scompaiono, si ripresentano due chilometri più a valle, sgorgano da una pietraia, per poi incunearsi di nuovo nel sottosuolo. Pugliese come un mago nascondeva o rivelava, ma il più delle volte nascondeva: ebbe sempre la più grande considerazione per le note che non si suonano. Tollerava a malapena i cantanti, che in quegli anni gli erano commercialmente indispensabili, per questa loro mania di voler cantare tutto: non potendo omettere le sillabe, cantavano anche le virgole. Per i testi che metteva in musica, Pugliese non aveva una gran sensibilità. Se l’Orchestra era gloria pura, le canzoni facevano spesso smagliare le calze. Non era una semplice questione di cattivo gusto: Pugliese, musicalmente sofisticatissimo, era, perché voleva esserlo, poeticamente populista. Alberto Moran, ad esempio, cantava le parole come fossero spine, incarnava pene e passioni titaniche, da romanzone russo. Mentre i suoi colleghi gesticolavano come posteggiatori, lui accarezzava i capelli dell’aria e i volti dei microfoni. Ma soprattutto esaltava le donne, i loro drammi sproporzionati, i loro fattacci sentimentali. Con i suoi tanghi, insomma, Morán amplificava i destini delle “muchachitas de todos los barrios” che in quegli anni si stavano prendendo la ribalta della Storia argentina, facendole sentire tante Anna Karenina. Pugliese temeva forse di essere scambiato per uno di quegli intellettuali separati dalle masse, lui che si considerava piuttosto un “martillero”, un operaio della Musica Popolare e si vantava di essere uno spartachista. E dei più competenti, anche. Difatti, veniva spesso in Italia, uno dei pochissimi paesi in cui non suonò mai, sulle tracce dei genitori e dello schiavo ribelle Spartaco, che lui pronunciava Espartaco. Visitò più volte il Colosseo per ricordarsi di non stare mai dalla parte dei circenses. E doveva sentirsi un poco Espartaco quando a volte il regime peronista lo incarcerava, anche se solo per brevi periodi, vista la sua popolarità. In questi casi, l’Orchestra Pugliese suonava senza Pugliese, a pianoforte chiuso e con un fiore rosso sulla tastiera. Come compositore non fu prolifico, ma scrisse per lo meno quattro tangos decisivi. Recuerdo, da moltissimi giudicato il tango perfetto, lo compose nel 1924 a diciannove anni, aprendo tutta una nuova fase storica della musica di Buenos Aires, denominata Guardia Nueva. Venti anni più tardi, quando poté contare su un’orchestra finalmente sua, compose una trilogia di capolavori: La Yumba, Malandraca e Negracha, che contengono una sintesi di tutto il tango precedente e buona parte di quello che sarebbe venuto in seguito. Più che compositore, Pugliese fu distillatore e in questo fu simile a Thelonious Monk: entrambi operarono e modificarono l’essenza. Con Monk aveva in comune anche il linguaggio metaforico con cui parlava ai musicisti: per spiegare una sincope diceva che erano le gambe di una ballerina. Il suo caratteristico marcato era un pesante armadio trascinato due volte per misura o anche il crollo intermittente dell’intero mobilio, sui tempi 1 e 3. Accanto a Pugliese, in più di cinquanta anni, suonarono innumerevoli eccellenti musicisti, alcuni indimenticabili: Osvaldo Ruggiero, Enrique Camerano, Oscar Herrero, Emilio Balcarce, Aniceto Rossi, Julian Plaza, Arturo Penón. Per quanto fossero già musicisti di enorme talento, insieme al Maestro diventarono dei capiscuola, creatori di uno stile che segnò indelebilmente i decenni, fino cioè agli anni ’60, anni in cui anche in Argentina cambiò tutto. Le oltre 600 orchestre di Buenos Aires sparirono frantumandosi in una miriade di piccoli gruppi economicamente meno impegnativi. Il tango strumentale si trasformò per sempre sotto le spinte degli eretici Astor Piazzolla ed Eduardo Rovira, quello ballato fu abbandonato in favore di altri ritmi di provenienza anglo-americana. Pugliese sopravvisse. Più dura fu la diserzione di quei suoi compagni che formarono il Sexteto Tango: lo lasciarono praticamente senza orchestra e con l’amarezza del tradimento subito. Non si parlarono per dodici anni, fino alla celebrazione del 75° compleanno del Maestro, al Luna Park, di fronte a 10.000 persone. Osvaldo Pugliese fu celebrato nel 1985 anche al Teatro Colón, ovvero la Scala argentina, in un memorabile concerto in cui gli riuscì di riunire in un’esaltante Yumba finale tutti i componenti della sua orchestra, compreso quelli che vi avevano militato anche solo per pochi mesi. Ma ciò che toccò il cuore di tutti, in quella serata, fu la commozione e l’orgoglio del vecchio Pugliese che a ottanta anni suonati era finalmente arrivato a portare la sua Orchestra, i suoi musicisti, la sua Musica del Popolo, proprio lì nel tempio della Grande Arte. Era il nobile Espartaco, finalmente in Paradiso.
In foto l'amico Marco Castellani suonando il piano di Pugliese nella sua sala prove di Buenos Aires nel 1992