Continuava a spiegare ​lo psichiatra, nel suo lavoro Tango e psicoanalisi:

«L’uomo è una delle poche creature della natura che se è abbandonata dai più grandi, muore. C’è qualcosa di più indifeso di un bambino fino ai cinque anni? potremmo capire mai la sua passività assoluta nella sua infanzia? Se durante quel periodo di passività il bambino teme di essere abbandonato, è facile che creda di poter morire. Da questi timori infantili nascono gli adattamenti masochisti, che saranno responsabili della condotta basica dell’individuo per il resto dei suoi giorni. Per questo non è strano che nelle canzoni e nelle poesie si associno l’abbandono e la morte».

Jose Maria Contursi scrive in Quiero verte una vez mas:

Tanto nella mia amarezza ti cercai senza trovarti
quando, quando vita mia morirò per dimenticarti?
Voglio vederti ancora una volta e agonizzante,
un sollievo sentirò e dimenticato in un angolo tranquillo morirò.

Oppure in Sombras nada mas:

Vorrei aprire lentamente le mie vene,
e il mio sangue versare ai tuoi piedi
per poterti dimostrare che di più non posso amare
e allora, dopo, morire.

Luis Cesar Amadori nacque a Pescara, all’età di cinque anni arrivò in Argentina con la sua famiglia ed è uno dei grandi nomi del tango. Scrisse in Rencor:

Rancore, il mio vecchio rancore… non voglio soffrire questa pena senza fine.
Se già mi hai ammazzato una volta, perché porto la morte in me?
Lo so che non ha perdono, che fu vile e crudele il suo tradimento.

Homero Exposito in Te llaman malevo:

Dicono che in una notte stramba, con il coltello defogliò l’attesa
e solo, come fiore di fosso, abbandonò la stanchezza e si ammazzò per lei.

Lo psichiatra finiva il suo lavoro dicendo di non aver le conoscenze per svelare la poesia senza parole che è la musica, che nel caso del tango è possibile mantenga un vincolo segreto con le parole.

Questo meraviglioso incontro accadde a metà degli anni ottanta, passai a trovare il mio amico e conobbi questo personaggio. Facevamo parte di una rivista letteraria. Erano tempi di post dittatura e avevamo una sete incredibile di esprimerci. Generalmente ci riunivamo il sabato mattina in un bar del centro di Rosario, confrontavamo i reciproci scritti e leggevamo le poesie che ognuno aveva scritto. Poi ci riunivamo in una piazza di Rosario; mentre gli altri leggevano testi e poesie io, con la mia chitarra, cantavo le mie prime canzoni. Sono i ricordi più belli e puri che ho del fare musica.

Uno degli ultimi pezzi che ho scritto, invece, è una Chacarera , si chiama Dulce pampera (dolce pampera), racconta la storia di un gaucho innamorato di una ragazza giovane e bella con cui vive una storia d’amore nelle campagne argentine, ma poi la storia finisce. Il ritmo è vivace e divertente ma nel testo una delle strofe dice:

Te ne andasti quando usciva il sole, la tua ombra mai più ritornò,
solo questa chacarera conservò il profumo del tuo amore.
La tua voce sulla mia pelle, la tua assenza un pugnale crudele,
andrò a morire al fiume, li dove ti baciai.
Nella croce del tuo oblio, sanguinai di spine e pianto,
trillo grigio che nella mia gola si trasformò in canto. Nel rancho (nostra casa) il mio cavallo , rassegnato nella tranquera (legato ad un palo)
uguale al mio cuore, legato e solo, ti aspetta.

Inconsapevole, dopo averla scritta e suonata parecchie volte, capii che neanche il gaucho di Dulce pampera, cioè io, era immune né al tango né all’abbandono.

diritti d'autore Victor Hugo Del Grande
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in foto: Egon Schiele, Ritratto di Anton Peschka, 1909