Atahualpa Yupanqui diceva che una canzone non esiste finché non la canta il
popolo. Quando poi il popolo la canta, è l’autore che non esiste più.
Forse la Siae avrà da ridire…
Comunque, nel tango danza si pretende che la creazione sia anonima e
collettiva, anche se in realtà ci sono passi e sequenze che un nome e un
cognome ce li hanno eccome: quelli di Antonio Todaro.
Come tutti i grandi creatori, Antonio Todaro lavorava per “la cosa in sé”,
ossia sulla forma, perché nella danza occorrono delle verità pratiche.
Todaro queste verità le ha espresse in forme di grande bellezza,
condensandole nei più nitidi, coerenti e luminosi materiali coreografici del
tango moderno. Stava poi ai ballerini incarnarle con l’intensità e il lirismo che
soltanto la milonga può dare.
E’ importante ricordare che i suoi migliori allievi, cioè i fratelli Osvaldo e
Miguel Angel Zotto, Pablo Verón, Alejandro Aquino, Milena Plebs, Vanina
Bilous e Mariachiara Michieli, oltre a essere ballerini straordinari, sono tutti
ballerini laureati alla milonga.
Antonio Todaro è morto quasi trenta anni fa. Eppure, ancora oggi, quando
l’algoritmo fa affiorare dal grande mare marrone delle esibizioni le schiene
numerate del Mundial, ebbene anche lì, agli antipodi del bello, rivedo i suoi
congegni, i pezzi, le viti, gli ingranaggi dei suoi dispositivi, gli sprazzi e le
scintille delle sue inconfondibili creazioni.
Atahualpa Yupanqui non aveva poi sbagliato, canticchio per consolarmi con
Guccini. Quindi, con el permiso de ustedes, vorrei qui ricordare Antonio
Todaro con un testo scritto un po’ nel primo e un po’ nel decimo anniversario
del suo passaggio alle piste ultraterrene.
Per noi, come per tanti altri, Antonio Todaro era il Maestro.
Aveva moltissimo in comune con un altro Maestro, Osvaldo Pugliese, perché
in termini di tango era tra i pochi che parlava con verità, di verità.
Naturalmente era un ballerino eccezionale. Cominciò giovanissimo,
contagiato da un amico con il quale passò in strada tutta una notte a
caricare un grammofono e a ballare finché la polizia non li portò tutti e due al
commissariato. Uscito da lì, ballò tutta una vita.
La sua passione per il tango era così forte, l'emozione che provava così
incontrollabile, che non volle mai essere un professionista, così come lo
definiremmo oggi. Quando si esibiva lo faceva alla milonga, tra i suoi pari, o
ballando con sua figlia. Diventò invece uno dei più grandi insegnanti di tutti i
tempi. Si considerava un sarto, dato che cuciva le sequenze sul corpo dei
ballerini, mentre in realtà, come Dior, come Balenciaga, era un maestro della
haute couture.
Per gli smemorati professionisti del tango creava sequenze e coreografie a
getto continuo. La sua fantasia era illimitata. Poteva lavorare anche dodici
ore al giorno. Accettava solamente coppie o allievi individuali. Con tutti era
severissimo.
Dai ballerini esigeva precisione, sopra ogni altra cosa. Era questa una
passione che aveva ereditato dall’esatta poesia dei motori, il mondo da lui
frequentato negli anni giovanili.
Ogni anno passava qualche mese in Nord Europa a insegnare agli
insegnanti, i quali attingevano dalle sue creazioni un repertorio di sequenze
che, come il raccolto o la provvista di legna, sarebbe dovuto bastare loro per
sopravvivere all’inverno. Tirano avanti ancora oggi, grazie alle sue lezioni.
Ma la cosa di cui andava più orgoglioso era la sua milonga Tierrita, una delle
poche con il ristorante. Più che della qualità della danza, era fiero del
chilometraggio di salsicce che vi si cucinava ogni settimana, per non parlare
della moltitudine di polli ai quali, a sentir lui, aveva tirato personalmente il
collo uno a uno.
In ogni cosa che faceva, Antonio sembrava partecipare alla bellezza segreta
della vita.
Ma cosa resta della sua colossale eredità?
Come George Balanchine, Antonio pensava che la danza fosse fine a sé
stessa e che in sé stessa trovasse tutte le sue ragioni d'essere. Con il
movimento non si propose di esprimere altro che il movimento stesso.
Eppure, la sua visionaria concezione del pas de deux, la celebrazione
tecnica dei fasti del corpo, i mirabolanti precipitati della sua immaginazione,
giunsero a svelare la poesia e l'intima bellezza del gesto umano più di ogni
altra simulazione espressionistica.
Balanchine dovette affrancarsi dai vincoli della simbologia, Todaro da quelli
del sentimentalismo, che tra tutte le chincaglierie accatastate sui ballerini è la
più gringa. Nel tango, l'anima deve sgorgare con discrezione e, se si soffre,
si soffre di soppiatto. Quello di Todaro è in questo senso un tango
paradossalmente "liso", anche se sofisticatissimo: di una purezza e di un
nitore tali, da non essere infirmato nemmeno dalla complessità delle sue
forme.
Attraverso i passi, le figure e le sequenze definite in cinquanta anni di
officina, Todaro dotò di lessico, sintassi e frasario essenziale la generazione
più rivoluzionaria della storia del tango ballato: quella, per intenderci, iniziata
da Petróleo, proseguita con Finito, Cacho Lavandina, Luís Lemos Milonguita,
e confluita nella cosiddetta nueva camada a cavallo degli anni ’80 e ’90.
Le generazioni successive, invece, più pratiche e mercantili, non si sono
lasciate intralciare dai malintesi della patrologia, e nemmeno dalle lungaggini
dell'apprendimento. Hanno avocato, questi sì, i titoli di successione dei
Maestri e ne hanno rovistato i forzieri, mettendo le mani sul lascito. Il risultato
è che ora quei prodigiosi congegni sono finiti in molte sparkling variations
prive di scrupoli ortografici, o negli euforici numeri d'attrazione delle
milonghe, che tanto servono a "impresionar a la gilada".
Fino a quando è stato custodito dal corpo vivo e collettivo del baile, il
primato dell'opera di Antonio Todaro non ha potuto essere scalfito. Ma ora
che la Musa d'Asfalto non abita più alla milonga, e che stile, senso estetico,
eleganza, e invenzione hanno cessato di essere le materie obbligatorie
dell'Ateneo Notturno, le fantasmagorie di Antonio si avverano più sui
palcoscenici dei teatri che non sulle piste dei club di barrio. Hanno insomma
traslocato dal naturalismo all'illusione.
Balanchine pensava, mentre Todaro ne era sicuro, che tutta la danza
tendesse al pas de deux. Nei territori protetti del balletto, i continuatori di
Balanchine hanno elaborato un linguaggio all'altezza di un corpo
minimamente sociale. Nei periferici distretti del tango invece, per nulla
esposti al rischio di stanziamenti statali, i continuatori di Todaro proprio da
tale altezza sono partiti. Nei primi, gli specializzati corpi dei danzatori
contemporanei, altrimenti indeclinabili, sono incoraggiati dai coreografi a
ritrovarsi in un abbraccio a loro estraneo. Nei secondi, i corpi veri e terreni
dei milongueros, in vantaggio poiché dall'infelicità e dalla mancanza sono
modellati, si completano in un abbraccio che tutto spiega e tutto rivela. Da
una parte l'aggiornato Stato dell'Arte, per non dire l'Arte dello Stato, della
danza a due; dall'altra, la coppia millenaria che ci parla della verità della vita.\
Grazie ad Antonio Todaro questa verità fu visibile, ebbe finalmente grazia ed
eloquenza.
L'eredità Todaro dunque, seppur taroccata e contrabbandata sotto specie in
che tutti, anche i nemici, potevano apparentemente operare, nascondeva
invece uno strumento a ben altri destinato, una lima nella pagnotta
dell'ergastolano: solo chi l'ha veramente cercata, e per questo meritata, ha
potuto infine appropriarsene e usarla per la sua liberazione.