Nonostante il tango sia oggi una musica del tutto all’altezza dei nostri tempi interessanti, nelle sue chitarre continuano a resistere la pensosa milonga dei payadores e gli accordi artigianali che tenevano bordone alla cerimoniosa poesia dei gauchos. In nessun altro luogo il tango e il folklore argentini, altrove semplicemente limitrofi e talvolta belligeranti, si mischiano così volentieri come nell’universo ricamato dei chitarristi. In nessun altro strumento coabitano così felicemente i suoni della grande città, i profumi di erba medica e alfa alfa, i palpiti delle farfalle dalle ali nere che svolazzano negli sterrati. Quello che qui racconterò è la storia della viola, come viene affettuosamente chiamata la chitarra a Buenos Aires, sempre in bilico tra la tellurica Pampa del folklore e la Circostanza metropolitana del tango.
Originaria dell’Età Media, la chitarra nella sua forma definitiva arriva in Argentina con i colonizzatori spagnoli e subito si identifica con la natura spirituale dell’hombre del campo. Baguala, Zamba, Estilo, Cifra, Vidala, Huella, Milonga sono alcune delle musiche che accompagnano il suo canto. Atahualpa Yupanqui ci informa che L’uomo della Pampa usa lazo lungo e galoppo sciolto: egli domina lo spazio, perciò quando prende la chitarra per una milonga non suona due minuti dato che davanti a sé ha pianura e tempo.
La baguala è preghiera, la zamba danza d’amore, l’estilo una solitudine, la vidala e la milonga forme della sua meditazione. Gli studiosi indicano nella milonga la porta d’accesso della chitarra nel tango: questa confluenza, o per dirla con Borges, questa intromissione della Pampa nella metropoli, sarebbe avvenuta nella orilla, ossia ai bordi della Buenos Aires di metà Ottocento.
In realtà la milonga, più che degli oneri di urbanizzazione, è il risultato di un processo di semplificazione avvenuto tra il 1860 e il 1880 per opera dei pianisti impreparati a riprodurre i laboriosi ritmi chitarristici che accompagnavano le molte danze della gestazione del Tango. Non è questa la prima volta che l’Accademia diminuisce il portato dell’invenzione popolare.
A questo proposito si rende necessaria una digressione tecnica: il tango andaluso, riconosciuto come una delle componenti del tango criollo, in seguito argentino, viene dal tango flamenco, a sua volta adattamento chitarristico della guajira cubana importata in Spagna dai marinai gaditani all’epoca in cui Cadiz dominava i traffici con le Indie Occidentali. Il ritmo di guajira è costituito dall’alternanza regolare di due battute, una in 6/8 e una in 3/4, scansione cui i chitarristi del Rio de la Plata mai riuscirono ad aderire. Del tango andaluso, di cui erano piene le zarzuelas e le riviste spagnole nelle tournée ottocentesche, ne diedero piuttosto un’interpretazione personale, dapprima tutta in 6/8 e poi in 2/4, dando origine al ritmo così detto di habanera, il famoso “binario coloniale”, presente in tutta la musica popolare d’America e coincidente con quello della milonga inurbata. Albeniz scrive il tango andaluso nel ritmo di habanera; Francisco Heargraves, compositore d’opera argentino, compone nel 1880 le sue quattro Milongas pianistiche servendosi della medesima scansione; nel 1900 sempre Heargraves trascrive l’antico tango “Bartolo” nel versatile ritmo cubano, ora surrettiziamente criollo.
I chitarristi invece, affezionati alle imprecisioni del loro strumento o forse ispirati dalle caotiche coreografie dei bisnonni del Cachafaz, continuano a sfornare una serie incessante di figurazioni ritmiche. Dobbiamo forse all’ostinazione di quei remoti violeros la ricchezza e la plasticità ritmica del tango e il fatto che questo non sia stato ricondotto a una sorta di folklore stilizzato dagli immancabili scopritori colti della musica popolare.
La milonga, nella sua forma lenta, idonea al pensar cantando, viene utilizzata dai payadores, i quali non vedono di buon occhio il tango, quando addirittura non lo avversano apertamente, come risulta da una lettera di Gabino Ezeiza al suo collega José Bettinotti.
I payadores sono dei poeti improvvisatori che si accompagnano con la chitarra. Narrano senza fretta di gesta epiche, di temi alti e patriottici, oppure si sfidano “a contrappunto”, dopo interminabili cortesie da mandarini, su questioni universali suggerite dal pubblico.
I nobili payadores non possono quindi piegarsi alla volgarità di pezzi come “Pejerrey con papas” o “La canaria de Canelones”. La chitarra, umile e servizievole, invece sì. Nascono così, a cavallo tra Ottocento e Novecento, le prime formazioni strumentali con la viola in prevalente funzione ritmica. Apolinario Aldana, Eusebio Aspiazú, Justo Tomás Morales, Feliciano Herrera, Pancho Romero sono, oltre che gentiluomini sdegnosamente privi di biografia, anche i primi eroi di “un’attualità che non si preoccupa, dove il coraggio è felicità e le pugnalate sono una festa”. La chitarra si trova bene anche con l’ultimo arrivato, il bandoneón, come dimostra Luciano Rios nelle straordinarie incisioni con il trio di Pedro Maffia, e più tardi Vicente Spina con Ciriaco Ortiz.
Dopo il 1912, la maggiori possibilità di conduzione orchestrale fanno del pianoforte lo strumento principale del tipico sestetto della Guardia Nueva. Molti sono i chitarristi che cambiano di strumento: Prudencio Aragón, il geniale compositore de “El talar”, Domingo Santa Cruz, autore di “Unión Civica”, Leopoldo Thompson, il contrabbassista inventore del canyengue.
La chitarra si prende la sua rivincita nel ventennio d’oro del tango canción, tra il 1915 e il 1935, con cantanti della cui immortalità sarebbe maleducato dubitare. Moltissimi sono i chitarristi degni di essere ricordati: Enrique Maciel, Rosendo Pesoa, José Maria Aguilar, Rafael Iriarte, Manuel Parada, Horacio Pettorossi, Mario Pardo. Nel 1933 Pardo giunge a dirigere un’orchestra di cento chitarre al Teatro Colón: è questa la prima volta che la chitarra entra nel più grande teatro sudamericano.
I chitarristi del tango canción sono tutti compositori di grande mestiere, ma la loro vocazione all’accompagnamento, fatta di glosse melodiche, improvvise fiammate ritmiche e meditabondi bordoni, riconferma la tradizione dei payadores. Lo stesso Gabino Ezeiza, se non fosse morto nel 1916, si sarebbe senz’altro ricreduto. Non così Borges che sancisce già nel 1927 la morte del Tango diventato piagnucoloso e sentimentale.
Il tango però sopporta molto bene la denigrazione del Maestro dei Tastoni, grazie all’enorme popolarità raggiunta attraverso la radio e i dischi. La riconciliazione è del 1965, anno in cui Borges dedica proprio alla chitarra la sua opera più porteña, “Para la seis cuerdas”, un album di milonghe musicate magistralmente da Astor Piazzolla.
Nell’epoca delle grandi orchestre, 1935-1955, la chitarra se ne sta con i cantanti, oppure si ritira nell’intimità del tango da camera o da patio, favorita in questo dalla prossimità elettiva del bandoneón.
Nel 1952, in uno storico duetto radiofonico con Aníbal Troilo, avviene la definitiva consacrazione del maggiore chitarrista del tango, ovvero Roberto Grela. Ha già quasi quaranta anni, una carriera di accompagnatore di cantanti di corto destino, suona a orecchio e per giunta usa il plettro, ma insieme a Troilo, Grela si rivela per quello che è: un capostipite del tango moderno. Il suo brillante fraseggio staccato/ legato di tipo bandoneonistico, il suo caratteristico punteo a corde triple, l’originalità delle tessiture e delle armonie, cambiano per sempre il modo di concepire la chitarra nel tango. La simbiosi di Grela con Pichuco, quell’irripetibile interplay, è uno dei vertici assoluti della musica di Buenos Aires. Il loro tango, pura materia incandescente coniata in archetipi estemporanei di indicibile bellezza e perfezione formale, influenza intere generazioni di musicisti fino ai giorni nostri. Sulla scia di Grela, é Bartolomé Palermo a ricondurre di nuovo la chitarra nel suo alveo milonguero, a inventare cioè, per l’ennesima volta, la tradizione. Strano miscuglio di musicista colto e popolare - Ariel Ramirez nel 1957 lo sceglie per la prima incisione della sua Misa Criolla, ma è celebre il suo duo con Alfredo Gobbi, Palermo mette a punto una stravagante prassi compositiva basata sulla non scrittura: i membri delle sue formazioni chitarristiche emulano le frasi che egli viene suggerendo e le eseguono a memoria grazie a prove di eccezionale rigore.
Bisogna essere più onesti del normale per vivere al di fuori della legge.
Con la crisi del tango, ma anche con l’arrivo dei nuovi ritmi anglo-americani, e la conseguente dissoluzione delle grandi orchestre in piccoli gruppi, la chitarra ritrova finalmente un ruolo di protagonista.
Nel 1955, Astor Piazzolla la inserisce elettrificata nel suo leggendario Octeto. Così fanno subito dopo Eduardo Rovira, Osvaldo Manzi e Horacio Salgán. Si percorrono anche altre strade: Ubaldo De Lio, Horacio Malvicino, Rodolfo Alchourrón sono i primi chitarristi a dedicarsi al tango-jazz, ma solo per prendere atto dell’incompatibilità dei due swing. Il drive, quel modo leggermente anticipato di stare sul tempo tipico dei jazzisti, mal si combina con il metafisico arrastre tanguero, che è soprattutto volontà di tirar tardi, di non partecipare. Ormai il tango è un linguaggio troppo strutturato per scendere a patti con le inquietudini armoniche necessarie all’improvvisazione.
Trenta anni dopo i pionieristici tentativi di Mario Pardo, Agustín Carlevaro e Cacho Tirao perfezionano l’arrangiamento per chitarra a cappella, creando gioielli musicali del tutto equivalenti a quelli di Máximo Mori per il bandoneón. E’ questa un’oreficeria per intenditori in cui tutte le possibilità tecniche ed espressive dello strumento convergono in opere definitive, di una compiutezza stilistica senza precedenti. Tirao è anche il primo esecutore di quello che è probabilmente il più bel concerto per chitarra mai scritto in ambito tanguero, il “Doble concierto Hommage à Liège” di Astor Piazzolla, “Doble” perché c’è anche il bandoneón, fedele compagno di tanta strada.
Nella chitarra trovano posto anche i contenuti dei giovani arrabbiati: Juan Cedrón e César Stroscio, ancora una volta chitarra e bandoneón, mettono in musica sia la nuova poesia di Juan Gelman e Paco Urondo che quella profumata di nostalgia di Raúl González-Tuñón. Dal luogo e nel momento più imprevedibili, ecco dunque riaffacciarsi con inusitata eloquenza il tango, la milonga, il vals, l’estilo, solo apparentemente abbandonati dai giovani musicisti: mai come ora gli spalti contrapposti di tradizionalisti e innovatori sono sembrati così vicini. Circostanza questa di cui non possono trarre frutto né gli uni, né gli altri: il feroce buco nero della dittatura militare (1976-1983) soffoca nel sangue le migliori menti di ogni generazione. E’ piuttosto il folklore più reazionario, la figura equestre del gaucho con il suo corredo di speroni, nutrie, bombacha e chiripá, a riceve l’avallo del potere, in nome dei soliti, malintesi valori nazionalistici.
Il tango si riprende da par suo con il ritorno della democrazia: come diceva Christian Dior dell’Haute Couture, è il tango a salvare i chitarristi dalla natura. Ora che molti grandi maestri ci hanno lasciato, Cacho Tirao, Bartolomé Palermo, Juanco Dominguez, ci sono molti altri che ne hanno raccolto il testimone. Difficile stiparli tutti qui, ma io scommetto che sarà dalla chitarra di Claudio Pino Enriquez, dal suo nido senza piume, ad uscire il tango del futuro, crocevia finalmente liberato di tutte le strade.
Ma pensate un po’: fino a non troppi anni fa, a Buenos Aires aveva ancora sede la Filarmonica dei Vicoli Stellati, c’erano ancora le serenate e i comizi d’amore,. “Non ti preoccupare, le faremo mordere il guanciale”, diceva lo slogan della Romantica Y Barata, che era una squadriglia di chitarristi in grado di offrire ai dolenti d’amore euforici unisoni e arrangiamenti forfettari a prezzi decisamente romantici. Le serenate si trasformavano allora in balli popolari in cui venivano coinvolti amici e vicini di casa. Come diceva Ernesto Sabato, beati quei poeti come Homero Manzi e Charlo che ancora potevano scrivere di “trenzas, almacenes y serenatas de barrio”. Accompagnati, naturalmente, dalle viole.