Costumanza vuole che allo spettacolo Tango Argentino di Héctor Orezzoli e Claudio Segovia del 1983 si ascriva il merito di aver risuscitato il tango sul terzo pianeta del sistema solare. Ma chi l’ha visto dagli inizi sa bene che tale riesumazione ha riguardato soltanto il tango-show, ossia quello specifico format di tango depistato che fino ad allora si era visto esclusivamente nei locali per turisti e in televisione, e che in seguito, come la Settimana Enigmistica, avrebbe vantato innumerevoli tentativi di imitazione, tutti perfettamente riusciti.
Scopo dichiarato dagli autori era di mettere in scena l’estetica chic-reo, o meglio l’idea di chic che può averne un “reo”, termine lunfardo, questo, che paradossalmente designa un innocente, o almeno un innocente per il momento. Lo chic, se mai ce n’era, era nascosto molto bene. Di reo invece ce n’era a palate.
Il reo per antonomasia e per acclamazione, il più grande reo di tutti si chiamava José Martin Orcaizaguirre, ma per tutti era il Virulazo. Questo è il ritratto che ho scritto quando è arrivata la sua assoluzione definitiva.
Non era bravo, non era bello, non era simpatico. Era privo delle tipiche doti del ballerino e anche di tutte le altre. Non aveva fascino, fortuna o amicizie altolocate.
Era però sincero come una schioppettata e genuino come lo champagne di Mendoza. Nunca subió arriba del caballo, come si dice in Argentina, se non per conquistare Elvira una volta che la vide passare in tram. Si chiamava Virulazo ed era il solo barrio di Buenos Aires che usasse viaggiare all'estero.
Unico milonguero doc ad aver trionfato a Broadway e ad aver girato il mondo per dieci anni consecutivi con la compagnia Tango Argentino, Virulazo si trovava bene solo nella sua Buenos Aires, barrio di Mataderos, tra i pigolanti canarini che allevava o in giro per le milonghe. Andava spesso al Sin Rumbo perché gli era comodo. Ha sempre ballato con Elvira: loro figlio, di cui nessuno ha mai saputo il nome, oppose sempre un’eroica resistenza ai genitori che lo pretendevano ballerino e milonguero, lui che magari si sentiva portato per una qualche disonorevole professione, tipo l’ingegnere o il medico. Milongueros in ogni loro cellula, dopo la quotidiana recita di Tango Argentino, in qualsiasi città si trovassero, Virulazo e Elvira andavano finalmente a ballare, a volte con ancora indosso il costume di scena, come quella volta che li vidi al Trottoirs de Paris, dopo la performance al Teatro Mogador.
Sul palcoscenico, Virulazo era una nave, un bastimento, un osservatorio astronomico: non concedeva nulla alla platea, eppure rubava lo spettacolo ai professionisti. Ballava Orgullo Criollo di Pedro Laurenz come se fosse a casa in pantofole, con passi semplici e una sola sequenza che si concludeva con un’ammiccante pacca sul sedere di Elvira: un gesto che mai si sarebbe sognato di fare, lui come nessun altro, se non per esigenze di copione.
Il suo contributo al tango è stato determinante: come ogni altro milonguero, ha inventato, perfezionato e brevettato quasi tutti i passi che si usano oggi. Il suo soprannome proviene da uno straccio di paglietta di ferro, commercialmente denominato Virulana, il cui energico sfregamento (virulazo) contribuisce per attrito al livellamento delle asperità del pavimento e al suo miglioramento igienico. Era un tano che glielo diceva, quando giocavano insieme a bocce: mandále un virulazo! Spazza via tutto! E bocciato via tutto, si sedevano e ordinavano da bere. Una volta così parlò Virulazo:

Ho fatto di tutto nella vita, meno il leccapiedi, l’arrivista e il pappone, i tre peggiori difetti che può avere un uomo. Per strada ho venduto di tutto, ho lustrato le scarpe sulla porta dei bordelli, ho venduto panini con la salsiccia, ho comprato intere capigliature a Entre Rios per una fabbrica di parrucche. Poi sono entrato ai macelli, ho iniziato da garzone e da lì tutta la carriera, fino a capataz, a compratore di bestiame.
Il tango lo ballo da quando avevo 13 anni. Una volta Celedonio Flores e il cantante Carlos Acuña mi hanno visto ballare. Mi hanno detto: Pibe, non puoi continuare a ballare gratis. Il giorno dopo debuttavo all’Armonia di Avenida Corrientes. Poi sono venuti il Chantecler, il Tabaris e tutti i posti di alto livello.
Nel 1952 la cioccolata Aquila aveva organizzato un concorso nazionale di ballerini di tango. C’erano 157 coppie, le finali le abbiamo fatte a Radio Splendid, nell’auditorio. Ho vinto io. Grazie a quella vittoria ho girato tutto il Paese, fino agli anni ’60. Tempi duri quelli. La televisione passava solo il rock, noi facevamo la fame, era terribile, ci pagavano con delle monete. Solo io e Copes abbiamo tenuto botta. La bohème è bella ma ti caghi addosso dalla fame.
Negli anni 70, abbiamo ripreso a girare, la prima volta con Hugo Del Carril. Agli inizi degli anni 80 volevo abbandonare ma poi mi hanno proposto Tango Argentino e mi sono entusiasmato di nuovo.
Io sono un professionista soltanto perché mi pagano per ballare. In fondo io continuo a essere un amateur, non ballo coreografia, quelle le lascio ai ballerini, io sono un milonguero, uno dei pochi che balla tango-tango. Per questo mi chiamano da tutte le parti.
Con quello che ho guadagnato in dieci anni mi sono comprato tre case, un camion e due macchine. Ancora un paio di tournée, metto insieme qualche dollaro e ciao, mi ritiro. Ogni tournée dura come cinque o sei mesi, una sofferenza, è come stare al gabbio, ad Alcatraz. La cosa peggiore che può capitare a un uomo è di sentirsi solo nella moltitudine. In Giappone mi fermavo agli angoli delle strade, ero circondato da duecento milioni di ponjas e non capivo un cazzo di quel che mi dicevano. Entravo in un ristorante, ordinavo una salsiccia e me la portavano con il miele. Roba da matti! Si mangiano il pesce crudo come degli indios. Ma non scherziamo! Non ho mai mangiato così tanto pollo e tagliatelle come in Giappone. C’è gente che gli piace, a me no. Quel che piace a me è un buon vino, un asado con gli amici, i canarini che ho in fondo al giardino di casa mia.
Durante le tournée, quando non sono sul palco, mi riposo, dormicchio, non do retta a nessuno. Mi porto una pila di libri di detective e di cow-boy e me la passo benissimo. Mi rompevano le palle con Venezia, ma che mi significa Venezia? E’ come il cimitero della Chacarita allagato, e chiedo scusa alla Chacarita. C’è della gente che vogliono fare gli snob, si danno di quelle arie, fanno tutti quei quei gridolini, ah che bella che è Venezia! Ma bella è la pampa dove vedi degli alberi, degli animali, l’immensità dell’erba con i suoi colori, e non una città che sta sprofondando e che ogni volta che passa una gondola con un tano sopra senti una baranda che al confronto il Riachuelo è la lavanda Atkinson.
Ora peso 128 chili, ma non fa niente: con un vestito nero, il farfallino da Gardel, ben sistemato, è come se fossi magro.
Un giorno stavo ballando a Broadway e sento una voce che mi grida: Bien Gomina, Bravo Brillantina! Risulta che era Nureyev. Sono diventato amico di

Anthony Quinn e di Robert Duvall. Quando viene a Buenos Aires, viene sempre a casa mia, per un asado.
Una mattina me ne stavo in un albergo sulla Quinta Avenue e viene Henry Kissinger per quella recita speciale. Neanche mi sono alzato. Dite a quel vecchio maniaco che se vuole del tango alle dieci della mattina che se lo balli lui. E se vuol vedere me, che venga stasera a teatro. E ditegli che io gratis non ballo per nessuno.
Elvira, invece, io la adoro, la idolatro. Se venisse a mancare, mi butto sotto il treno. Sono un sentimentale, da solo non servo a niente e servo ancora meno se per compagna non ho una come lei. Sono 28 anni che dormiamo e ci svegliamo insieme. Sarebbe anche di più perché siamo amanti da 44. Elvira è stata la mia prima fidanzata. Non ci siamo mai sposati, sono cose che capitano. Vivevamo ciascuno la nostra vita, poi nel 1959 mi sono separato dalla mia prima moglie.
Un giorno stavo andando a cavallo lì nei dintorni della Tablada e vedo passare un colectivo con Elvira dentro. Le ho fatto dei segni di scendere giù. Niente da fare.
Così ho galoppato dietro il colectivo, fino a che lei non è scesa perché se no la seguivo fino a casa sua. Abbiamo conversato ed eccoci qui.
Rodolfo Valentino era uno sfacciato, non ballava niente.
Tito Lusiardo era un buon attore, ma come ballerino era uno sgorbio. Però stava con Gardel, chi si azzardava a criticarlo?
Travolta? Un mariconazo. Michael Jackson, uguale. Sono cose che non fanno storia. Quella non è danza. Danza è Fred Astaire, danza è Gene Kelly.
Vuoi saper qual è un ballerino di tango? Petróleo. Lo conosciamo in pochi, solo noi che andiamo alla milonga.
Il mio tango preferito è Berretín di Laurenz. E tra quelli cantati El motivo, con il testo di Contursi.
Musica nuova argentina non l’ascolto neanche se mi ammazzano. Questi ragazzi sono vuoti. Nel tango trovi sempre qualcosa che rispecchia la tua vita. Ma a qualcuno gli è mai caduta la fidanzata in un pozzo cieco? Questo dicono le loro canzoni. Sarà che nessuno ha niente da raccontare. Alla gente che si alza alle sei della mattina per andare a lavorare non l’incanti con della robetta. A questa gente devi dargli dell’arte, come fa Gardel. Non si fanno commuovere da quattro minchioni che non lavorano e fumano marihuana.
Di politica non mi interesso, però ho sempre votato per la democrazia. In questo paese i militari e i preti sono un cancro. Ah, un sogno ce l’ho, quando muoio voglio morire ballando il tango.

Virulazo è morto già da diversi anni: Elvira non ha ancora trovato la partner giusta per il figlio.

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Le frasi del Virulazo sono tratte da un’intervista rilasciata a Guillermo Alfieri e pubblicata il 27 marzo 1988 su Pagina/12 con il titolo Heavy Tango.
La traduzione è di Marco Castellani.
Il ritratto di Virulazo è stato originalmente pubblicato su “Milonga Boulevard - Il mondo della milonga di Buenos Aires e i suoi protagonisti” di Marco Castellani, Casa Editrice Fuori Thema, Bologna 1996.
Foto tratta dal programma di sala di "Tango Argentino" di Héctor Orezzoli e Claudio Segovia al Théâtre Mogador di Parigi, 1989.