Troilo ha detto che il tango è mugre sagrada, sporcizia sacra.
L’ha detto Troilo, basta il nome a farla sembrare una citazione di Shakespeare.
Sacro è ciò che è separato e distante dalle cose degli uomini, e allo stesso tempo
ciò che è intoccabile, inviolabile, al sicuro dalle loro offese.
Invece la mugre non è sporcizia qualunque. Non è residuale e squallida basura,
che porta con sé anche un giudizio di bassezza morale, e non è nemmeno
suciedad, caratteristica tecnica di un lavoretto della Cia e dei metodi, spicci o
disonesti, di un Dirty Harry e di un Bilardo, detto appunto il sucio.
No, mugre, in quanto prodotto connaturato della condizione umana, è il sudiciume
permanente, l’untume incivilito che ci designa per metonimia. Si trova dopo
qualche ora in ogni luogo, oggetto o indumento antropizzato, segno inequivocabile
della nostra presenza, prova certificata dai RIS di Parma che dentro quella tiara,
tanto per fare un esempio, c’è appena stato un papa.
La mugre ci accompagna nei millenni e resterà con noi almeno fino a quando non
riusciremo a sbucare dalla preistoria e a conquistarci la grazia, qui, su questa terra.
Ci ricorda l’antico sogno del corpo glorioso, ha perciò i suoi bei quarti di nobiltà e
una tradizione di cui andare fieri. La mugre appresenta l’oltranza umana al
cospetto minaccioso del sovrumano, anche se in realtà umano e sovrumano sono
paesi osmotici, dove avvengono continui passaggi di stato. Vedi il Pantheon greco,
che smobilitammo proprio perché quelle entità soprannaturali avevano i nostri
stessi difetti e dunque non facevano più impressione a nessuno. Ma nella
maggioranza dei casi è l’arte lo sterrato in cui umano e divino regolano i conti. Qui
le nostre vittorie sono numerose, Villon, Dante, Shakespeare, Bach, Atahualpa,
Bacon, Céline, Nijinskij, in moltissimi hanno ridimensionato le pretese
monopolistiche del cielo. Gli abbiamo fatto, con rispetto parlando, un mazzo così,
senza chiedere riconciliazioni né perdoni, ma ricamando eccelsi merletti con la
mugre e con l’orrore.
Nel tango invece, almeno in quello degli inizi, la ierofania di Troilo si è fatta
aspettare, causa un paradossale deficit di mugre. Stando infatti a Borges, gli
indiscussi protagonisti della gestazione del tango, prostitute, papponi, ladri e
assassini, erano troppo innocenti per essere anche sporchi. Nessuna malizia
triviale, nessuna infamia, ne insozzava la fedina penale. Il loro tango non poteva
essere che una festa di valori positivi, come l'indisciplina, l’intemperanza, la
prodigalità.
La mugre venne riabilitata solo anni dopo, quando davanti ai reietti sembrarono
spalancarsi i tinelli della promozione sociale. Niente è peggio della miseria che si
tiene su, della miseria che vuole darsi un tono, scrive Céline.
In effetti, quei recenti borghesi erano pronti a tutto pur di nascondere le loro origini
abissali. Erano pronti persino a rispettare il capoufficio e a condividerne
ipocritamente l’igiene.
La mugre diventò così una rivendicazione d’appartenenza, simbolo di un orgoglio
di classe cui il tango diede subito voce, corpo e santità.
Da allora la sacra sporcizia è venuta percorrendo i decenni, depositandosi in
pagine, ugole, corde e mantici che hanno narrato “le gesta degli umiliati con lo
stesso linguaggio fino a prima dedicato alle imprese dei re”. Questo è Brecht,
naturalmente.
Arriviamo così ai primi anni 60, ai giovinastri del Gotán che riscoprivano Cadicamo
e Gonzalez-Tuñón, ai nuovi poeti del colloquialismo impegnato, e, attraverso tutti
loro, finalmente ai giorni nostri, a Daniel Melingo.
Prima di parlarvene permettete però un’ultima domanda.
Cos’è che rende sacra la mugre?
Una delle convenzioni del realismo prescrive che le storie degli infimi siano
altrettanto interessanti di quelle degli eroi. Ma se un tempo gli Dei mandavano
delle sventure agli uomini perché questi avessero di che cantare, oggi agli infimi
moderni toccano al massimo delle disgrazie. Un conto è narrare di naufragi, guerre
e nobili duelli, un altro ricavare qualcosa da una colite.
Dunque sono le forme a contare, soprattutto quando il contenuto è la mugre. Sarà
anche vero che dai diamanti non nasce niente, ma i fiori che nascono dal letame
andranno verificati. Bisognerà vedere se sono proprio delle rose. Anche perché “gli
uomini sono immemori di ciò che non giunge al sommo fiore della poesia, di ciò
che non è assoggettato al fluire di versi illustri”. Vedete? Sono passati 2500 anni e
siamo ancora qui, a Pindaro.
La prima volta che ho visto un concerto di Melingo deve essere stato il 1998 al
Torcuato Tasso. Il luogo ha la sua importanza, per cui ve lo descrivo. Intanto è a
San Telmo, l’elegante barrio abbandonato a metà Ottocento dall’aristocrazia
coloniale e subito ripopolato dalla mugre che veniva su dal porto. Anche oggi,
nonostante turisti, mimi e agenti immobiliari, la zona mantiene e coltiva una certa
sua aria di onesta decadenza. Attraversando la strada c’è il Parque Lezama dove è
stata piazzata la statua a Pedro de Mendoza, mitico fondatore di Buenos Aires e
documentato sifilitico del sacco di Roma. All’esquina si staglia il Bar Britanico, che
della mugre è insieme il santuario e l’esposizione universale. E’ un ritrovo aperto
giorno e notte per i bohémien senza fisime che amano il caffè nero a forza di
ditate. Qui Ernesto Sabato ha scritto “Sobre heroes y tumbas”, per restare in tema.
Torniamo indietro e ammiriamo l’insegna fileteada del Torcuato Tasso: “Fondato nel
1856 dagli emigranti provenienti da Massa Lubrense”. E’ dal 1997 che, da sede
sporadica di riunioni e mangiate, il salone è stato trasformato in tangueria da due
giovani gestori, tanto ignari della Gerusalemme Liberata quanto di Responso. Ma
la tanghizzazione della città era in corso e a dare una mano di vernice nera alle
pareti c’era la sua convenienza. Da allora, ogni venerdì a mezzanotte spaccata ci
sono i concerti di tango dal vivo, e tra essi Daniel Melingo e il suo gruppo.
Quel che subito mi colpì fu l’approccio per nulla intimorito alle forme del tango.
Dimestichezza o insolenza? Le strutture semplici, direi quasi primitive, risalivano al
tango basico delle origini, come se da lì a cento anni prima i pozzi fossero tutti
avvelenati. Anche gli strumenti, specie il bandoneón, venivano suonati come
utensili senza letteratura previa, come refurtiva trafugata da un container arrivato
dritto dritto da Amburgo. Insomma un’attitudine generale alla Sex Pistols,
soprattutto se consideriamo che in quegli anni, come in questi, le orchestre di
tango puntavano tutte sul ballabile leccato.
Era anche evidente che Melingo non avesse per nulla bisogno di inventarsi delle
storiacce. Faccia segnata, voce di bitume e vetri rotti, gioco di mani, presenza
teatrale, tutti gli elementi dicevano che era una vecchia volpe della vita e dei suoi
vari palcoscenici. Ho poi saputo che veniva dal Rock Nacional, quello pionieristico
de Los Abuelos de la Nada e quello demenziale de Los Twist.
Una volta si scherzava dicendo che il futuro del tango era il jazz, ora si può dire
che il nuovo passato del tango è il rock. Magari Troilo, se fosse nato cinquanta
anni dopo, avrebbe suonato la Stratocaster.
Ad ogni modo, Melingo è durato. Non male. E qui c’è il suo nuovo disco, che è
serio e per tale bisogna prenderlo. Racconta ancora le vicende dei marginali e dei
malmessi, in un lunfardo comprensibile ai più, ormai internazionale. Ci sono degli
arrangiamenti! Degli ospiti! E strumenti presi da un altro container, la sega
musicale, il trombone. Ogni tanto inserisce dei quadri spiritosi, tanto per rischiarare
il baratro, come faceva il naturalismo eroico di Zola con gli amori delle sartine. Mi
piace anche che non ostenti più quel cinismo gioviale oggi tanto di moda. E che il
personaggio picaresco, quello che si vantava di astuzie miserabili, del furto di un
salame, sia ora una posa dimenticata. Credo cioè che Melingo abbia conquistato
la sincerità e che il suo tango nostalgico delle vecchie ferite meriti per questo di
essere ascoltato e convissuto. Sentite ad esempio “Semos hermanos”, questo
poema lunfardo di Dante A. Linyera (A sta per Alighieri): trenta anni bruciati sui
marciapiedi e in camere da un soldo, anarchico praticante sempre povero come i
ragni, uno che i gironi della Commediola Umana li conosceva come il palmo della
sua mano. Qui dentro c’è la sacra mugre, la sacra sporcizia, quella polvere che,
diceva Emily Dickinson, una volta “era ladies and gentlemen”.
26 ottobre 2020
La sacra sporcizia dalle scaturigini a Melingo
di Marco Castellani
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