Horacio Ferrer mi aveva dato da valutare una traduzione in italiano di Maria de Buenos Aires. Un’attestazione di fiducia da parte sua che fui il primo ad approvare. La traduzione invece la bocciai subito, faceva sfigurare le cacofonie dell’originale, sembravano i tanghi tradotti in italiano da Meri Lao, parole tipo “pupa”, “lavativo”, “buggerare”.
Avevamo preso l’abitudine di trovarci di pomeriggio al Pétit Colón, un caffè di quelli fini, frequentato dai principi del foro di Buenos Aires, che era proprio lì dirimpetto al Colón grande. Avevo un solo obiettivo: fargli sputare il nome dell’autore di “En un feca”, sapevo che ne serbava il segreto. Cominciai a circuirlo, niente impressiona più favorevolmente un poeta di un’adulazione ben argomentata.
- Maestro - esordii - ho sempre trovato discutibile che Piazzolla la chiamasse “venditore di salsicce”!
- Eh, Astor era così. Se gli davi un’occasione per essere ingrato, non ti diceva nemmeno grazie.
Il cameriere aspettava le ordinazioni. Aveva un paio di patacche sul bavero della giacca. Il poeta ricorse a una delle sue leggendarie endiadi e ordinò una Quilmes Imperial.
- Mi piace bella fresca, dagli l’invernado rapido. Ah, senti: a quanto le mettete le salsicce qui?
Mi strizzò l’occhio. Intendo dire il suo occhio. Non reagii.
- Ma parliamo della traduzione. Cosa ne pensi?
- Maestro, qui vedo il timbro di deposito della Siae. Questo tizio la vuole buggerare.
Ferrer si sistemò nervosamente il fiocco Lavallière, croce e delizia del suo outfit bohèmien, ed emise un verdetto flautato:
- Ho sempre pensato che la traduzione poetica è un genere letterario a sé, con le sue leggi specifiche, la prima delle quali è di non intraprenderla.
Stavolta un sorrisino. Sapevamo tutti e due che questa l’aveva detta Borges.
- La seconda delle quali è di non depositarla - precisai.
- Che male fa una macchia in più al giaguaro? - e giù una strizzatina all’altro occhio.
Non seppi cosa rispondere, non mi veniva un neologismo degno di lui.
Attaccai frontalmente.
- Chi ha scritto “En un feca”?
- Un lavativo che girava per i bar del 1920.
- Da solo o con la sua pupa?
- Cos’è una pupa?
- Lasci perdere. Quindi, come è arrivato nelle grandi mani di Rivero?
- Gliel’ha dato Antonio Rodríguez Villar, il mio collega presidente dell’Academia Nacional del Folklore. A lui l’aveva insegnato Ruiz nel 1945, ma il tango è molto più vecchio. Nessuno sa il nome dell’autore.
- Quindi niente Sadaic?
- Nessuno vuol portare lo stendardo se è lunga la processione.
Era il tea-time. Ordinammo altre due Imperial e una Picada Reale di salame e formaggio. In attesa dell’inverno, provai a tutearlo.
- Ma Horacio, l’attribuzione a Julio Ravazzano Sanmartino, il poeta stradale di cui tutti tacciono?
- All’epoca aveva dieci anni. Hanno cercato di aiutarlo, fargli avere qualche soldo, ma alla Sadaic non era neanche registrato. Si stampava da sé i suoi librini bicolori e li vendeva in giro. Era un “insistidor”. Fino al 1988/90 lo vedevi a Plaza Dorrego di domenica.
Il locale si era riempito e il cameriere si era tolto la giacca. Pessima idea. - Questa era la picada preferita di Troilo, gli piaceva il salame di Colonia Caroya e il salamín di Pedro Cagnoli.
Lo sapevo che era un esperto.
- Ma era davvero così grande la tristezza di Troilo? - cambiai discorso
- Immensa come la sua musica - rispose con un gesto altrettanto ampio.
- Lo senti già dal nome da tragedia shakesperiana - questa me l’ero preparata.
- Nomen omen, dicevano i Greci - sentenziò
- Sì, i greci del Testaccio. Pensi se Troilo si chiamava Transito Cocomarola…
- Ah ah ah! Questa vorrei averla detta io!
- La dirai, Horacio, la dirai…
Sempre bello chiudere con Oscar Wilde.

Questa scenetta, trascritta fedelmente parola per parola, è accaduta nel dicembre 1996, in un caffè di Buenos Aires, appunto. Come avete sentito, il mio scopo era di chiarire le origini di quel tango dato per anonimo.
Non sono poi molti i tanghi di autore anonimo, i tanghi per cui si dà la colpa alla musa popolare. Guerra alla Borghesia, ad esempio, o Señor Comisario, o Ataniche, Hotel Victoria, El llorón, anche se agli ultimi tre un autore è poi stato trovato, anzi più d’uno, una selva d’autori, Ambrosio Radrizzani, Juan D’Estefano, Celestino Ferrer, Feliciano La Tassa, Luís Negrón, Ernesto Ponzio, Juan Pacho Maglio. I tanghi di successo non sono quasi mai anonimi, hanno più autori dei tanghi d’autore. Però EN UN FECA, questo tango bellissimo, inciso per la prima volta da Edmundo Rivero nel 1975 con i fratelli Remersaro, e trent’anni dopo dalle voci virili di Adriana Varela e Ricardo Iorio, e poi dalla brutta cuoca di mio figlio delle 34 Puñaladas, e persino dal Cuarteto Catenacho, è un tango di cui si sa veramente poco. Alcuni mecenati avevano tentato di attribuirlo a un poeta da marciapiedi, uno di quei venditori ambulanti di poesie tenute insieme da uno spago, da cui il genere “poesia de cordel”. L’idea non era quella di candidarlo al Nobel, ma di fargli avere qualche soldo dalla Società degli Autori. Il problema era che Julio Ravazzano Sanmartino non era nemmeno iscritto. Questo non gli aveva impedito di includere il testo in una delle sue sillogi insistenti e di dedicarlo nientemeno che a Troilo.
EN UN FECA è in versi ottonari, organizzati in decime e in rima ABBA ACCD DC, ossia la forma tipica dei payadores. I termini in lunfardo sono pochi ma buoni, tutto il contrario di Julio Ravazzano Sanmartino. La musica è probabilmente dello stesso Rivero, troppo galantuomo per sminuire la musa popolare con un gesto di cupidigia. Sul suo disco Lunfa Reo, come autore ci sono solo due iniziali: D. R.
Ma entriamo una buona volta in quel caffè.
Intanto è un caffè di perdigiorno, pieno di ubriachi, e c’è un malvivente che rivive singhiozzando i suoi vecchi amori. Intanto i musicanti, pestando sugli strumenti, riempiono di accenti tristi quel caffè molto frequentato, dove ladri incalliti sognano tristemente di soldi e nuovi colpi.
Ed ecco i pensieri del malvivente. Manco a dirlo, sta rinfacciando qualcosa a una donna:
Con il tuo aspetto vistoso hai fatto colpo su di me, mi hai lavorato per benino, come un fesso qualunque, mi hai proprio disarmato. E per colmo di vergogna, sono andato a rubare per te, per continuare a piacerti. Mi hai fregato come un bambino, ma questo è un debito che si paga.
La tua fine è già scritta, è facile da immaginare. Finirai presto nelle mani di qualche delinquente e quando quel tuo corpo che ora spadroneggia sarà sfiorito, qualcun altro dovrà farsene carico.
La chiusa è una frase diventata celebre:
Nadie quiere el estandarte si es lunga la procesión
Nessuno vuol portare lo stendardo se lunga è la processione.