Durante il lockdown ho sentito la nostalgia di tutto, persino delle cose che prima non sopportavo. Ma non sono mai arrivato a sentire la mancanza delle cosiddette esibizioni alla milonga. Come diceva Evaristo Carriego dei gringos, a me le esibizioni non mi basta odiarle, io le devo calunniare. Ed ecco qua, un articolo del 2007, che mi era stato ispirato da un documentario televisivo sulle balere del dopoguerra e da una locandina nella vecchia Galeria del Tango a Buenos Aires. Come vedete, la mia è un’avversione che prende la rincorsa da lontano.

TANGO A CHININO
Da quando il tango fa rima con business, le milonghe sono infestate di esibizioni. Uno non può più andare a ballare senza che a un certo punto non sia costretto a sedersi e subire le prestazioni di un qualche fenomeno locale o di passaggio. Sono momenti vetrinistici che ribassano la milonga a showroom e i milongueros a potenziali compratori di tegami. I periodici assembramenti denominati festival, poi, sono sede di lunghi spettacoli, con cambi di costume e coreografie di gruppo. Pur di esibirsi, i performer non fanno gli schizzinosi sulle luci, né sui quattro fronti che costringono tre lati del pubblico pagante a vedere i ponteggi di un salto o il retro di una posa. Lo schermo congressuale, e più tardi Internet, si incaricheranno di dilatare l’assenza di pathos oltre i suoi limiti fisici. Naturalmente non è sempre stato così. Prima che alla milonga ci costruissero su un mercato, le esibizioni erano rare e avevano tutt’altro senso: si chiedeva a una coppia nuova di presentarsi in società o si ballava per rendere omaggio a qualcuno. La danza degli esibenti era sempre sobria e senza trucchi, per rispetto a chi li onorava standosene seduto a guardarli. Nessuno andava a insegnare la guerra di Troia a Omero. Oppure c’erano le esibizioni, previamente dichiarate, di tango-fantasia: un genere a sé, dove invece tutti i trucchi erano validi per suscitare stupefazione. I nostri saggi predecessori sapevano distinguere la destrezza dalla profondità e gioire di entrambe. Oggi, nella milonga che canta e che soprattutto nella milonga che conta, gli artisti senza spiegazione, una spiegazione ce l’hanno eccome.
Ancor più della sala da concerto, come diceva Adorno, è la sala da ballo il luogo dell’armistizio tra musica e società. Chissà se gli attuali elogiatori dei contatti umani, quelli che ritengono che si viva ancora guardandosi negli occhi, chissà se i portavoce del brontolar danzando che continuamente invocano ordine e buone maniere nelle screanzate milonghe di oggi, si riterrebbero soddisfatti dell’enorme striscione che ammonisce i sottostanti: VIETATO IL BALLO STACCATO.
Questo reportage televisivo che cinquanta anni fa voleva vederci chiaro sulla presunta sospensione delle ostilità, ci mostra un dancing milanese in piena attività. Nel 1957 in Italia c’è il boom delle balere, oltre che delle tregue. A quanto pare, è tutto un rimboccarsi di maniche: bisogna ricostruire, integrarsi, partecipare, e dunque ballare, possibilmente belli attaccati. Non siamo poi così lontani dal Santa Fé Palace descritto da Julio Cortázar nelle Porte del cielo. Stesse luci al neon, stessi altoparlanti, stesse acconciature navali. Una differenza di cartacce, forse; e poi, meglio specificarlo, la musica: là il tango argentino, qua il nostro; là il malambo, la ranchera, la machicha e i ritmi tropicali, qua il liscio e i ritmi europei. Una panoramica e qualche intervista ci dicono che non solo la coppia è obbligatoria, ma anche il fumo di sigaretta nazionale per gli uomini e golfini e nei per le donne. Abbondanti sono anche i geometri chitarristi in maglione tubolare. La serata è importante: da un paesino delle Quattro Province sono attesi due specialisti di Polca “Chinein”, la spettacolare e difficilissima polca “a chinino”. Sono due uomini, com’è tradizione nella Filuzzi, in questo caso un elettrauto e un gasista, entrambi tirati a lucido, in completo settentrionale e fazzoletto nel taschino. Un flashback ci ha già fatto conoscere le loro belle faccione proletarie, sorridenti e orgogliose come dopo un lavoro ben fatto. Tre volte alla settimana provano i frulli in officina, tra le 6 e le 7 del mattino, prima di andare a lavorare. La telecamera li ha sorpresi in tuta blu, pipa ricurva in bocca, mentre leggono un libro: ci tengono a far sapere che sono due ingentiliti, due operai alla Brecht.
L’esibizione milanese è strabiliante. Inizia con una serie di piroette popolari, poco accademiche e molto fuori asse, così, tanto per scaldarsi. La musica è una polca forsennata, in 2/4 come la milonga. Si scambiano frequentemente i ruoli, girando in senso antiorario per tutta la pista, a velocità crescente. Poi l’exploit che manda in visibilio la platea. Abbrancati per le braccia, frullano vorticosamente mentre si chinano, piegando le ginocchia. Sempre più veloce, sempre più giù, sempre più chinati: una trottola umana alta un metro che prilla per i quatto punti cardinali, tra gli applausi e le urla d’incitamento. Alla fine un bell’inchino e un altro sorrisone a quattro ganasce. All’intervistatore rivelano un piccolo trucco: cravatte con bottoni a scomparsa, onde evitare scudisciate centrifughe. E due tipi di brillantina sovrapposti.
Cinquanta anni dopo, in un dancing milanese talvolta riconvertito a tanguería, si esibiscono i fratelli Guillermo ed Enrique De Fazio, alias Los Hermanos Macana, qualcosa come I Fratelli Disgrazia. Sono giovani, argentini al 200%, ballano il tango da dieci anni e formano coppia fissa da almeno tre. Nessun documentario li ha mai beccati in tuta, né con un libro in mano. E se fumano la pipa, lo fanno di nascosto, come tutti. Indossano entrambi un doppiopetto color scimpanzé e scarpe di vernice di lunghezza consentita in aereo. Non dimenticano mai il fazzoletto nel taschino. Quante brillantine si mettono, non saprei: un chilo di Lord Cheselin di solito dura per tutta la tournée.

Il loro show è stato preparato con cura ed è prevedibilmente pirotecnico: questa sera ballano un tango, Malajunta, e una milonga, Reliquias Porteñas. Fanno la donna a turno: ciò dà loro licenza per gag e ammiccamenti a non finire. Ecco un calcio nel sedere, un equivoco divertente, la gomitata alla Franco Franchi. Per esser bravi, sono bravi: di quella bravura priva di senso tipica degli artisti circensi. Ma di questi forse non conoscano le lacrime e di sicuro non conoscono i repentagli. Ganci, traspié, voleos, non si fanno mancare niente: il repertorio del tango è lastricato di pietre preziose e basta chinarsi a raccoglierle. Tango a chinino, appunto.\ Velocità, ritmo, pim pum pam... devono vendere in fretta, prima che la mercanzia riveli i suoi difetti. Da quando il tango è diventato una cosa da dritti, i ballerini oculati si tengono lontani da drammi, cerimonie e incantesimi. Mordono le corna al toro, piuttosto, come fece quel matador prima che Hemingway gli togliesse il difetto con due cartoni. Hemingway odiava le gimmick e in generale le smargiassate non sue. E allora giù altre capriole, altra verdura. Il tango dei Fratelli Disgrazia scodinzola più del fatidico cane con due code. Un tornado d’applausi riconferma infine la connivenza reciproca degli estroversi. Più armistizio di così...
Fino a qualche anno fa, sulla parete nord della Galeria del Tango, quella vicino al bar e allo specchio funzionante, c’era appesa una locandina leopardiana: NOTTE DI STELLE FAMILIARI. E’ il 1954 e vi si annuncia come una gran notizia il clou della stagione sociale di Boedo. Un ballo familiare, lo dice la parola stessa, con los mejores ritmos modernos, infarcito però di numeri d’attrazione, come quello di Saltarín Higgins, autore di balzi famosi, di Madame Tussaud, mimo statico, e di Chas Canasta, mentalista da salón e piegatore di forchette a distanza. Vi sono anche due esibizioni di tango: nella categoria tango-fantasia, i diversamente sottolineati Gemelli Malacarne (Jorge e Domingo); nel tango-salón, Lalo e Josefa, gli ispettori dei battiscopa. Quelli intrattengono il pubblico con salti e funambolismi di ogni genere, questi astenendosene.
Anche oggi come allora, la danza rasoterra ha il suo perché e, se chi guarda è bravo, il tango liso può destare altrettanta sensazione di quello infiorettato. Dice Carmelo Bene che “quando una Madonna di Raffaello mi commuove, il merito è mio e soltanto mio”. Sì, ma ci vuole sempre Raffaello: bisogna molto sentire per far sentire.
La contraddizione che disanima gli ingombranti performer contemporanei è tutta qui: nonostante gli sforzi del pubblico, la distanza tra coloro che si esibiscono e il resto della milonga raramente appare incolmabile. Di senza senso non c’è più neanche la bravura. Grazie all’abilità diplomatica con cui le due principali derive demagogiche del tango recente, ossia i cosiddetti milonguero® e nuevo, smorzano e dirottano il desiderio d’incanto degli spettatori verso le loro povere merci, il tango è ormai alla portata di tutte le insensibilità. Non si ravvisa più prodezza nel semplice camminare abbracciati, né brividi in qualsivoglia beau geste tecnico. Gli showmen della milonga badano ai loro bilanci, non alla nostra disponibilissima meraviglia.
E allora perché dovremmo sederci a guardare le ricerche, le improvvisazioni, le eterne impalcature di un tango inabitabile quanto il cantiere che dice di essere? Perché dovremmo applaudire gli sciroppini e i passi falsi di questi sagomati dagli sbadigli? Meglio il samurai che inaugura gratuitamente la sua spada nuova su un passante: perlomeno lui a la gilada la impressiona. Al confronto dei melensi esibizionisti di oggi, anche le star del bislacco firmamento di Boedo, ivi compresi gli inestricabili Malacarne e i due pavimentisti perimetrali, sono artisti più sinceri e pertinenti. Persino nelle tanto rovistate scaturigini del tango, commozione o sbalordimento sono l’obiettivo minimo di chi si presenta in pubblico. I payador agonistici che si sfidano su temi patriottici, il Rengo Bibiloni che zapatea sul suo unico piede, l’Alemán Bernstein che suona il bandoneón e beve birra nello stesso tempo, l’introvabile Uomo-Proiettile che si fa sparare via cantando Adiós Muchachos, si dannano l’anima pur di intenerire le gradinate del circo criollo dei Podestà, nella durissima Buenos Aires a cavallo tra 800 e 900.
Non così l’attuale milonga showmanizzata, che baraonda non genera in nessun petto. Semmai ci fa rimpiangere Beppe Maniglia, epigono bolognese dell’Indio Pulmón, che un breve batticuore almeno ce lo dà, facendo scoppiare le borse dell’acqua calda a forza di soffiarci dentro.
Dunque, ha ragione Céline, uno che di danza e di ballerine se ne intende:
l’Emozione è tutto nella vita e quando siete morti è finita.
La canzone apre Guignol’s Band, epopea di una confraternita di guitti che molto assomigliano a quelli di una vecchia locandina di Boedo: guitti romantici e mai chini che qui vogliamo ricordare e, a nostra volta, riverire.