Secondo quanto scrive Eduardo Galeano, il piccolo figlio di Josè Gonzalez Castillo, corse il rischio di essere chiamato “Riposo Domenicale”, in nome degli ideali anarchici del padre, che per questi fu costretto a trasferirsi per qualche anno in Chile con la famiglia, scegliendo come residenza il caleidoscopico porto di Valparaiso dove potè continuare la sua professione di giornalista.
Nell’impossibilità di registrarlo all’anagrafe con quel nome emblematico, per il neonato fu scelta una soluzione più sobria ma anche premonitrice del futuro letterario che aspettatava la creatura: si sarebbe chiamato come due grandi poeti classici, Ovidio e Catulo. D'altronde, il nome Riposo Domenicale non sarebbe stato coerente con una vicenda biografica ricchissima di lavoro creativo, quello che seguendo i tempi e i lampi dell’ispirazione non conosce né domeniche né riposo.
L’attitudine creativa di Castillo si è manifestata sottoforma di una curiosità eclettica e mercuriale che lo ha visto ancora giovanissimo impegnato nello studio del violino e del pianoforte, come anche nella dura disciplina della palestra, dove praticava con successo la boxe vincendo un’ottantina di match, fino a conquistare il titolo di campione argentino dei pesi piuma ed essere scelto tra i pugili chiamati a rappresentare la sua nazione alle Olimpiadi di Amsterdam del 1924.
In quegli stessi anni Catulo aveva iniziato a comporre melodie, avvalendosi del magistero paterno per quel che riguardava i testi. Il primo successo della coppia familiare è stato il delizioso Organito de la tarde che nel 1924 si è piazzato terzo al celebre concorso indetto da Max Gluckman patron dell’etichetta Nacional.
Composto con la struttura in tre parti come tutti i tanghi delle prime due decadi del novecento, questa composizione ha contato una serie di incisioni importanti a partire da quella di Carlos Gardel nel 1925, anno in cui Azucena Maizani lo interpretava al Teatro San Martin di Buenos Aires nella rivista “La Octava maravilla”, e fino alle versione strumentali di Carlos Di Sarli, del Quinteto Real e dell’orchestra del coetaneo di Castillo, il pianista Rodolfo Biagi.
Solo nel 1935 Castillo decide di dedicarsi completamente alla scrittura impegnandosi freneticamente in varie direzioni tra le quali quella del mestiere di paroliere per il tango.
Questa scelta avviene dopo aver composto la musica di pagine tra le quali Silbando (con Sebastian Piana, a cui Castillo aveva dedicato Organito de la tarde), La violeta (con parole di Nicolas Olivari), Corazon de papel (con parole di Alberto Franco); aver esordito come paroliere insieme all’amico Homero Manzi con Viejo ciego (con musica di Sebastian Piana); aver suonato il pianoforte in Spagna (dal 1927 e per un paio di anni) con un’orchestra da lui stesso diretta e nelle cui fila militava Miguel Calò; aver insegnato teoria e solfeggio al Conservatorio Municipal de Musica, essere ritornato nella penisola Iberica con la compagnia del Teatro Sarmiento (1931).
Nel 1935 si scioglie la collaborazione con il padre che morirà due anni dopo, e già dai primi versi di Catulo si intuisce come il suo linguaggio denunci la difficile eredità di essere figlio d’arte: persino nelle sue parole più lucenti rimarrà un residuo d’ombra e una patina di polvere del tempo.
Questa polvere grigia e opaca nutre il mondo di Catulo Castillo, che si manifesta con una poetica plastica, nobile e musicale dove emerge il diritto ed il rovescio del tempo in cui si agita il tormento dell’esistenza, sottoposta all’inesauribile sgretolamento dei sogni radicati nel sanguinante cuore dei sentimenti.
Oltre che mantenendosi sul piano introspettivo delle verità intime e della forza creaturale del sentire, Castillo è un fine cesellatore di esterni, vale a dire di paesaggi che nel suo caso sembrano ripresi dall’opera pittorica del Sironi più tormentato, o scaturite dalle scenografie di pellicole mute d’antan.
Perciò, l’atmosfera che si respira nei suoi tanghi è sempre ostile, solitaria, cupa, puntualmente rabbrividita da un freddo implacabile o inumidita da una pioggia battente, in un bianco e nero nebbioso e notturno, su cui spira un vento senza requie e, a volte come in una scena brechtiana, si affaccia il diafano spicchio di una timida luna.
Giocata su un filo ondeggiante e sottile, da vero funambolo delle ore feriali, la sua poesia si dispiega come una tavolozza pastosa e volatile, palpitante di succhi, trascolorante tra cromatismi e riflessi; tra linee curve, plastiche e ricciute,vibranti di una passione macerata dal soffrire, eppure ancora capace di sopravvivere.
Si ha l’impressione che il suo linguaggio sappia traspirare, farsi poroso senza mai smarrire la propria corporeità nutrita dal sentimento di essere gettati nel tempo e chiamati a rispondere, col nostro batticuore o con le fragili volute dei nostri sogni, al ritmo arcano ed imprendibile del mondo.
In questo scenario si delineano dei reportage affettivi, tracce mnestiche di ciò che si è smarrito e che uno stile di grazia madreperlacea racconta come cronaca angosciosa dell’irreversibilità degli anni perduti, con quel loro profumo propagato dal solco in cui il tempo si definisce come durata e bisogno di rifugiarsi nel ricordo, per allentare la sua vertigine.
Alla stregua di un Cezanne che dipingeva e ridipingeva mille volte lo stesso cesto di mele, Castillo dimostra una invincibile ossessione ed una caparbia volontà nell’insistere sugli stessi temi che sostanzialmente riassumono le varianti drammatiche dell’amore, quando per uno dei due è un ex-amore. Quell’amore che entra per la prima volta prepotentemente in scena nella letteratura latina proprio con Gaio Valerio Catulo, descrivendo le sue passioni sia in componimenti leggeri che negli epilli ispirati a Calimaco e agli Alessandrini.
Così, i personaggi che popolano le sue poesie, assumono il carattere tragico di coloro abituati a sopportare con fierezza l’assedio dell’ombra e il senso del finito che li attanaglia quando è sfumata l’ultima occasione.
In questa commedie humaine è imperatrice l’ostinazione di una memoria densa e dolorosa, resistente all’oblio, più intenta a partecipare che a catalogare, per farsi illusione viva di presenze perse, ma anche strumento che alla bisogna dell’inconscio sa alterare più di quanto custodisce. Uno spleen tanguero che è in armonia, con la sensibilità poetica di Homero Manzi, compagno della cosiddetta Escuela literaria de Boedo, il quartiere da sempre crogiolo della cultura popolare e che ha avuto come archetipo il poeta Evaristo Carriego.
Frutto di evocazioni di questo genere, voci diverse sfilano per parlare dell’irreversibilità del tempo (Ventanal, El Patio de la Morocha ), della solitudine (Sin Ella, Una cancion, Tortura), di un addio (Maria , Adios te va o Porque te quiero tanto), della morte (Camino de Tucuman, Testamento tanguero), di un mal d’ amore (Se muere de amor), di qualcosa che resta nel ricordo (Cafè de los Angelitos, El ultimo farol, Cornetin, Patio mio), di un’ultima volta (El ultimo cafè),di un’occasione mancata (Desencuentro), di un dialogo interiore (La ultima curda), di un personaggio mitizzato (Diez anos pasa), di un amico amato (A Homero), trafiggendo il velario della superficialità per penetrare nella realtà dei sentimenti dove l’incanto e la gioia coabitano con i dolori taglienti per cui non esiste anestesia.
E’ Troilo che riesce ad iniettare, meglio di chiunque altro, il fuoco magnetico della musica nelle vene ipersensibili della incantevole scrittura di Castillo.
El bandoneon Mayor de Buenos Aires predilige talmente le storie illustrate dai versi di Castillo che questi risulterà essere l’autore in assoluto più presente nella sua opera discografica, con ben 25 incisioni.
A testimonianza dell’affinità che li vedeva compagni di viaggio nella ricerca trasparente e nuda di una simbiosi tra testo e musica, quando Castillo pensa alla sensibilità di Pichuco, sembra che specularmene descriva la sua, come si intuisce in un passaggio che si trova nel testo apparso con il titolo Una sembianza de Troilo: una sensibilidad miraglosa....sensibilidad de muchachos sonadores,…sensibilidad de noche, con su borrachos solitarios y sus mujeres tristes….sensibilidad de hombres de accion…de naipes, tangos, trasnochadas, copas….sensibilidad de cuartitos de solterias….en la prospectiva inclinada de la calle Corrientes.
Su queste basi, i due rafforzano il loro sodalizio soprattutto dopo la prematura scomparsa di Homero Manzi (1951), intrecciando a meraviglia la pura magia visionaria dei versi con l’impura attitudine pratica del metterli in musica, la passione assoluta e la sua coniugazione in forma sonora. Dal palpito sinfonico dell’orchestra di Troilo scaturiscono incisioni emozionanti che cronologicamente partono dai primi anni quaranta e giungono ai primi anni sessanta: Tinta Roja (1941 e 1971), Corazon de papel (1944 e 1971), Luna llena (1944), Cafè de los Angelitos (1944), Porque te quiero tanto (1945), Juan Tango (1945), Camino de Tucuman (1946), La Violeta (1951,1971), Patio mio (1952, 1969), El patio de la Morocha (1952), Milonga del Mayoral (1953), Mensaje (1953), Vuelve la serenada (1954), La cantina (1954), Una cancion (1954, 1971), La ultima curda (1956, 1963 e 1969), A Homero (1961), Desencuentro (1962), Y a mi que (1962), Patio mio (1965), Vals de jamas (1965), Cancion de Ave Maria (1965), Milonga de la Parda (1969).
Nella lista elencata manca volutamente il primo tango che Troilo ha scritto insieme a Castillo, proprio perché già da questo esordio si intuisce la sintonia poetica dei due e soprattutto come nei versi del testo sono racchiuse tutte le tematiche più care al poeta. Si intitola semplicemente Maria, o come Castillo si premura di annunciare nel primo verso del suo testo ... solamente Maria: scritto nel 1945 è inciso da Troilo due volte, nello stesso ’45 con la voce di Alberto Marino e il 7 maggio del ’63 con quella di Roberto Rufino, mentre nello stesso giorno veniva registrato La ultima curda, l’altro capolavoro della dupla Troilo-Castillo in quell’occasione interpretato i maniera sublime da Roberto Goyeneche.
Tra le tante dame francesi che hanno conquistato l'attenzione dei parolieri, da Madame Yvonne a Griseta, da Claudinette a Margo, da Mimì Pinson a Margarita Gauthier, un'altra femmina che ha una chiara origine criolla si aggiunge a Gricel, a Malena, a Verdemar... Contrariamente a quasi tutte le donne cantate nel tango, Maria, impenetrabile quanto fragile, non tradisce e non è tradita, ma semplicemente se ne va. Il contenuto poetico di questo tema, dedicato da Troilo alla moglie Zita, è paradigmatico della temperie romantica che si afferma negli anni '40, interessando il tango con l'aiuto dei suoi cantanti che lo incarnano esercitando un fascino attrattivo presso il pubblico femminile e il suo immaginario.
La versificazione di Castillo è pulita, equilibrata, con un'espressività nobilitata da un ampio ricorso a figure di senso mai scontate né gratuite; il lessico è scelto con accuratezza e l'umore dell'ispirazione si esprime dolcemente e in modo decisamente mesto quando la suggestione di un'attesa lascia il posto alla rassegnazione del disincanto.
Pensiamo come è immaginata l'ambientazione la scena: la stagione è un otoño, il paesaggio è triste desmayado de amor, naturalmente una pioggia implacabile si abbatte sulla calle gris,che è la calle de la melanconia.
Pensiamo all'immagine con cui il poeta sintetizza lo sguardo di una donna che ormai non ama più: tus ojos eran puertos que aguardaban ausentes.
Pensiamo alla sua voce che, pur pequeña y triste, rompe il suo silencio de flor per dire con fermezza ya no hay nada entre los dos.
Pensiamo alle sue manos buenas capaci di curare la fiebre, desteñidas de amor.
Pensiamo alla sua figurina, la più preziosa, la più onirica, la più tardo Monet, la più borgesiana tra quelle accolte nell'album dei ritratti femminili del tango: il suo corpo, come in una fiaba di corte, è il modello di una creatura impalpabile immersa nelle regioni opache di un'autunno che le ha mojando de agonia el ombrerito pobre y el tapado marron, pronta a svanire sulle calles del adios, senza che nessuno possa in seguito sapere più nulla del suo rumbo infeliz.
Leggendo con la lente analitica la composizione musicale di Maria, si osserva da vicino l'agile capacità con cui Troilo sintetizza in brevi, icastici passaggi, gli stati d'animo di cui è impregnato il testo.
Cinque mesi dopo il triste maggio del 1975 in cui Buenos Aires ha perso il suo bandoneon mayor, Castillo è colpito da un fatale attacco di cuore. Ironia della sorte il suo “riposo domenicale” giunse, improvvisamente e per l’eternità, la domenica del 19 ottobre: la scomparsa di Ovidio Catulo Castillo si aggiungeva a quella di Enrique Santos Discepolo e Homero Manzi, gli altri due prestigiosi protagonisti della vrrtiginosa stagione poetica iniziata negli anni quaranta.
Tra le firme principali di quell’epoca aurea rimanevano il classico e prolifico Enrique Cadicamo, insieme all’acuto e geniale Homero Exposito, mentre sulla scena della seconda metà degli anni sessanta si era affacciato l’uruguayano Horacio Ferrer, segnalandosi con una testualità colta ed una fantasia metaforica traboccante della sostanza simbolica dell’ermetismo. Nel 1967, quando Ferrer si accingeva a diventare il partner ideale nel sostenere l‘incendiario pensiero musicale di Astor Piazzolla, Catulo Castillo scriveva per el incorregible maestro di Mar del Plata, le acutissime note di copertina di due storici album pubblicati dalla Polygram con il titolo La Historia del Tango, volume 1 e volume 2. Parole entusiaste di un tanguero de ley, verso l’opera modernissima di un genio che i non addetti ai lavori e la schiera degli artisti conservatori de los grandes valores del tango guardavano ancora con una diffidenza che in alcuni casi giungeva al disprezzo.
Probabilmente Piazzolla nutriva una perticolare stima per Catulo e quando tra le mani del bandoneonista giunse una raccolta di poesie del giovane Horacio Ferrer, Astor si convinse a leggerle prorpio perché ad introdurre quel Romancero Canyengue del 1967 era stato proprio Castillo. Fu una rivelazione. Quei versi audaci avevano suggerito a Piazzolla come si potesse intervenire per reinventare il tango cancion utilizzando coerentemente la sua scrittura musicale ricca di rapinose confluenze. Anche Troilo aveva amato quella raccolta sentendosi impotente nel momento in cui non era riuscito a metter la musica alla poesia d’apertuta Tango para la ultima grela. Invece Piazzolla e Ferrer iniziarono e dal progetto complesso di un’operita, la Maria de Buenos Aires, debuttando l’8 maggio 1968 alla Sala Planeta di calle Suipacha : un rotondo fallimento. Continuarono con La Balada para un loco: un fallimento. Ma il tempo diede loro ragione consegnandoli all’immortalià in cui sopravvive Catulo, esattamnente come confermano le parole del poeta Hèctor Negro: Catulìn sigue cantando con nosotros, los que ya estamos de vuelta (porque asì no lo aceptamos) “de un paìs que està de olvido, siempre gris” y seguimos preguntando esperanzados, haciendo dùo con su voz que no se desvanece: “En que rincòn, luna mìa, volcàs como entonces tu clara alegrìa?"