Ogni tanto capita di scendere nella propria cantina che per me è anche un deposito di ricordi aggrappati a innumerevoli ritagli di giornali, brochure, fotografie, di un’attività musicale iniziata nei primi anni ’70. Ieri mi sono addentrato in questa Babilonia disordinata che in fondo assomiglia molto al Cambalache descritto da Discepolo, solamente che nel mio caso non si trova una bibbia vicino ad un termosifone ma, se mai, la recensione di un concerto vicino alle fotografie di una arbasiniana “gita a Chiasso”, dove negli anni settanta si andava per comprare la cioccolata, le sigarette e, curiosamente, i dadi per fare il brodo…una schifezza helvetica che una leggenda metropolitana elogiava come insuperabile ingrediente per la buona cucina, riuscendo a convincere e contaminare mia madre, siciliana di origini greche.
In effetti in questo hard disk esterno che è la mia cantina, e che ha anche le caratteristiche più poetiche di una cloud custode di sogni più o meno realizzati, cercavo un opuscolo progettato per la promozione di un gruppo, e realizzato a mani nude, con gli antichi strumenti dell’era analogica. Come non vi è difficile intuire, perché è sicuramente capitato anche a voi, non l’ho trovata. Bisogna rassegnarsi, in questi casi funziona sempre così e quel documento che, arresi, diamo per smarrito, comparirà proprio nel momento in cui non ci interessa averlo trovato.
Ma in questo fallimento annunciato un piccolo successo l’ho avuto: è comparsa la fotografia di un travolgente quartetto di jazz con cui suonavo nei primi anni ’90. Da qui un rimando iperbolico mi ha catapultato al celebre Caffè Commercio che dagli anni venti si affacciava sotto i portici meridionali di Piazza del Duomo, e dove la foto, emersa da un groviglio di altre curiosità, è stata scattata. Lì molti anni prima, quando ero inconcludente e incazzato diciottenne in perenne assemblea para-rivoluzionaria, andavo ad ascoltare Gato Barbieri che aveva scelto di fare la fame a Milano come il connazionale Hugo Heredia. Personaggio sconclusionato delle notti ambrosiane, el negro Heredia era anch’egli sassofonista e spendeva buona parte delle sue magre risorse per farsi spedire da Buenos Aires il mate. Ne era consumatore compulsivo e ambasciatore instancabile, capace di insistenze mistiche da testimone di Geova nel tentativo di iniziare chiunque al rito di quell’erba amarga. Per la cronaca in Piazza del Duomo a Milano c’era un altro jazz club, in cui ho ascoltato concerti indimenticabili e non solo per la mia formazione musicale, ma soprattutto per l’imprinting estetico che quelle esperienze hanno avuto, condizionando le scelte del mio futuro. Vi descrivo una scena: io seduto a non più di due metri da Bill Evans, Eddie Gomez e Marty Morell che intrecciavano il loro interplay cadendo in quella sorta di trance che possiamo immaginare come privilegio esclusivo di aspiranti santi, martiri e vergini!!! Dall’altro lato della piazza si volava più basso, ma tutte le sere e sempre con una qualità d’eccellenza. Al Commercio, in una serata come tante si presentò Bernardo Bertolucci con un produttore e un entourage di maestranze. Gato trafiggeva l’aria impestata dal fumo di innumerevoli sigarette con quel suo suono che evocava un urlo disperato e, a ripensarlo oggi, aveva la sofferta espressività del tango, testimoniando con la grana ruvida del suo timbro chissà quali lacerazioni esistenziali. Bertolucci se ne innamorò, il produttore pagò, le maestranze applaudirono, Gato vide a ragione lo spiraglio per uscire dalla sua condizione di precario vagabondo, Ultimo Tango a Parigi avrebbe avuto finalmente una colonna sonora.
Dico finalmente perché in precedenza un altro personaggio era stato raggiunto da una proposta per realizzare quel lavoro. Era Astor Piazzolla che in quell’anno viveva tra Roma e Milano come il suo amico Gerry Mulligan con cui aveva registrato l’album Summit, presso la sontuosa sala di registrazione gestita da Nicola Paolillo, conosciuto già da allora con il soprannome di Nano Ghiacciato: inspiegabilmente almeno per l’allusione alla temperatura. Da lui nell’anno ’97 registrai con grande comodità di spazi e di mezzi il primo disco con il mio gruppo Tangoseis. Ma tornando ad Astor va saputo che era un cuore tenero custodito in una crosta ispida, selvatica, battagliera, forse anche isterica e violenta: nella disputa tra queste due anime spesso era la crosta ad avere la meglio. Insomma, un po' altezzoso, chiese al produttore di Bertolucci una cifra spropositata, sicuramente fuori mercato e soprattutto inconcepibile dal budget previsto. A questo punto sembrerebbe che tutti i tasselli della storia siano andati al loro posto. Fuori Piazzolla, dentro Barbieri. Ma quando ormai i contratti erano firmati, il cuore tenero di Piazzolla è emerso e la partitura della colonna sonora per l’Ultimo Tango finì sulla scrivania del suo editore italiano che, disperato per il mancato guadagno, non ha potuto che rimandarla al mittente.
Proprio memore di questo retroscena in merito alla colonna sonora mancata e il film di Bertolucci, qualche anno or sono mi sono servito dell’informazione, quando un’importante produttrice molto affermata nell’ambito della lirica, mi ha contattato con l’intenzione di allestire uno spettacolo di tango. Non volendo ricadere nei triti clichè che altri artisti conoscono benissimo e che hanno spremuto restando anacronisticamente uguali a se stessi, proposi all’incantevole dama di realizzare uno spettacolo che attraverso le coreografie di un corpo di ballo formato da quattro coppie, raccontasse la scabrosa e drammatica vicenda dell’Ultimo Tango di Bertolucci: forse anche in me prevaleva la crosta e sotto sotto volevo farmi dire di no, ma non fu così e alcune date prestigiose, seppur poche, furono fissate nel breve periodo. Iniziai a pensare come organizzare la struttura e il canovaccio, affidandomi ad un regista che non fosse intontito dagli stereotipi virali che feriscono buona parte degli spettacoli di tango. Nessuno meglio di Ida Kuniaki, giapponese, quindi appartenente a uno dei prototipi delle culture difficili, per di più di scuola strelheriana, sfegatato ammiratore di Piazzolla, uomo dall’italiano sempre in bilico con l’incomprensibilità, così garbato che si fa sempre finta di averlo capito e così intelligente da far finta di essere stato capito. Lo chiamo per telefono. E’ entusiasta, e questo lo manifesta bene, entrando persino nell’aneddotica dal quale mi sembra di capire che, nell’anno in cui uscì il film lui fosse a Parigi e, come tutta la gioventù dell’epoca, a caccia di una giacca di velluto marrone simile a quella portata da Marlon Brando nella scena del Salon Wanger. Dal suo racconto decifro: “io e tutta Parigi volevare imitazione Marlon Brando”. Non mi è difficile sospettare a quale ingrata ilarità si espose Ida nel tentativo di imitare un sex symbol così in auge. Il giorno dopo mi chiama proponendomi una delle sue idee sconvolgenti. “Franco Sun c’è sipario estate? Si c’è sipario apre sipario!”. Io: Sì ma dopo? “Idea come preso Magritte quadro: c’è luce su grande burri 12 metri lungo per 5 metri alto e sopra balla protagonisti nudi!” In un primo momento penso ad un quadro informale di Burri, ma poi capisco che “burri” è la sua maniera di dire “burro”. Quindi sollevo la questione: ma Ida, dove lo trovi un burro 12 per 5? A questo punto scopro che in Giappone producono il burro perché Ida eccitatissimo continua: ”chiamo io Giappone per burri e burri di Morioka fai sponsor, poi noi turnèe Giappone, mese, due mese poi ancora”. Riuscii a convincerlo che si poteva fare altro di altrettanto inquietante e con molta più facilità, pronunciando il nome magico. Francis Bacon. Decidemmo di proiettare i ritratti sfigurati di Lucian Freud e di Isabel Rawsthorne. Esattamente come aveva fatto Bertolucci che in quel suo ’72 parigino si era incantato ad una personale di Bacon al Grand Palais. Restò intatta la sua prima intuizione per la coreografia finale dove immaginava i protagonisti rincorrersi, raggiungersi, separarsi di nuovo e così via fino all’omicidio ai danni di Paul, in una festa dove le altre coppie ballano un Escualo indiavolato, indossando i più classici abiti da sera e una mascherina bianca, con un rimando al Don Giovanni mozartiano. Per la musica avevo pensato ad una carrellata di composizioni di Piazzolla e di suoi arrangiamenti, realizzati per tangos tradizionali da orchestrare allo scopo: tra gli altri El Recodo dell’orquesta del ’45, Redencion di Gobbi, registrato in un disco polemico del ‘62 che aveva un titolo emblematico: “Piazzolla.. o no?”. Due ballerini argentini furono incaricati di ingaggiare le altre tre coppie e di creare delle coreografie come quadri che raccontassero la vicenda con gli strumenti simbolici della danza. Quando fu tutto pronto per iniziare le prove, io e Ida andiamo a Salerno dove avremmo diretto le prove necessarie con la musica registrata. La produzione ci costrinse a condividere la camera di un bell’albergo con vista sul mare, ma fu generosa con i coupon per i ristoranti,… tutto grasso che colava come avrebbero commentato delle persone raffinate. Ma quella condivisione un pò goliardica nascondeva un problema assillante. Vi potere fare un’idea delle apnee notturne che affliggono un lottatore di sumo da 180 kili? Ecco, Ida non avrebbe avuto niente da invidiare su questo tema a quegli energumeni visto che nel suo sonno agitato coniugava gorgoglii spaventosi, quasi mitologici alla Polifemo o sperimentali alla Demetrio Stratos, perfino osceni come scaturiti da un essere sconcio e ultraterreno. Una tortura beffarda che mi costringeva a un riposino supplementare alla mattina, dopo che l’orco gentile si era trasformato nel raffinato ingegnere dell’ermetismo nipponico, sempre pronto a sorprendermi con la sua creatività iridescente. Quando scendevo, sempre più frastornato con gli occhi iniettati di sangue e lo sbadiglio a ripetizione lo vedevo nel parco dell’hotel: appeso al ramo di un grosso albero. Il carino si stirava per addolcire il mal di schiena. Le giornate di lavoro erano lunghe e producenti, i whiskini, i mojitini, i negroncini, doppi e tripli, accompagnavano in bellezza le ultime riflessioni sull’andamento del lavoro prima del supplizio notturno. Nell’insonnia orchestrata con le funamboliche respirazioni di Ida, avevo trovato la forza e l’angoscia per scrivere due brevi testi che sarebbero serviti ad accompagnare lo spettatore nella vicenda. In tutti e due i casi sarebbe stata la voce preregistrata di Hermana Mandelli a interpretare il punto di vista della protagonista Jeanne. Il primo intervento era previsto all’inizio dello spettacolo….al posto del burro che nel frattempo si era sciolto nell’immaginario di Ida…il sipario si apriva con uno dei due quadri di Bacon citati che veniva proiettato sul fondale, accompagnato da un audio dove si sentiva il treno della metropolitana di Parigi che si vede sfrecciare all’inizio della pellicola; il bandoneon di Gilberto Pereyra in una cadenza piazzolliana; e la voce dell’attrice nei panni di una Jeanne disorientata nella sua disperazione.
Un secondo frammento audio accompagnava la danza solitaria del protagonista Paul, mentre sul fondale veniva proiettato il secondo quadro di Bacon. Paul è disperato nella casa vuota di rue Jules Verne perché Jeanne l’ha lasciato dopo aver accettato di sposare il fidanzatino, coetaneo e per bene. Partendo da un tipo di relazione che avevamo appreso dal mito di Amore e Psiche, Paul in origine non voleva sapere nulla di Jeanne, ma anche lui finisce intrappolato nella richiesta di conoscenza su cui si fonda da sempre il sentimento amoroso. E’ un momento nodale che evidenzia come la lotta contro la morale è ancora lontana dall’essere vinta. Insomma nonostante le battaglie per l’emancipazione femminile che in quegli anni erano esplose furiosamente, la protagonista Jeanne e anche Rose, che è la moglie di Paul, sono ancora intrappolate nei meccanismi dell’educazione familiare. Rose si suicida perché è divorata dal senso di colpa a causa dei suoi tradimenti al marito; Jeanne, nonostante sia disinvolta, e viva secondo costumi liberi, è ancora vittima di un’educazione borghese che gli prescrive di ridimensionare l’importanza della passione per Paul, rinnegando quindi la sua autodeterminazione di donna emancipata, per rientrare nelle regole. Quando capisce che per lei è impossibile sottrarsi all’attrazione passionale, sceglie di eliminare il soggetto di questa irresistibile tentazione: uccide Paul , dopo che i due sono stati gettati fuori dal salone dove gli altri ballano il tango sapendolo ballare, mentre Jeanne y Paul erano riusciti solo ad imbastire una danza dionisiaca, inventata e senza i codici rigorosi praticati dai milongueros. La storia coltivata secondo i principi del caso, si conclude con l’ineluttabilità del destino. Nel secondo audio si sentiva anche la voce di Marlon Brando ripresa direttamente in inglese e riguardante la scena rappresentata dalla danza solitaria di Paul, senza musica ma sul ritmo delle parole dell’attrice nei panni di Jeanne.

Quando Piazzolla scrive il tema principale della colonna sonora per Bertolucci, intitolandolo Jeanne y Paul, lo immagina come una costruzione che nel succedersi di situazioni musicali distingua chiaramente l’analogia tra i due protagonisti e due strumenti, il bandoneon e il violino. Gli altri membri dell’organico, pianoforte, contrabbasso e chitarra ricoprono un ruolo per così dire ambientale.
Intanto l’inizio. Qui non c’è una vera melodia, siamo in una sorta di introduzione che in qualche modo possiamo identificare come una descrizione della strada pedonale esistente sotto il ponte Bir-Hakeim di Parigi, dove sta per succedere qualcosa. Come anticipavo in questi quadri ambientali il protagonista è il pianoforte, con il contrabbasso “caminante”, la chitarra e il violino che assumono la funzione di percussione, rispettivamente con due rumori decareani chiamati rispettivamente tambor e chicharra.
Esattamente sulla ripetizione dello stesso giro armonico con il medesimo impasto timbrico arriva Jeanne che si presenterà per tutto il brano con la voce del bandoneon. In questa prima presentazione canta una melodia vibrante e ripetuta due volte fino a una chiusura che darà slancio a quello che arriverà dopo.
L’atmosfera cambia, il bandoneon si fa ancor piò nostalgico il pianoforte e il contrabbasso accompagnano con una sincopa e piano piano entra in scena il violino con note languide e legate: è Paul che si avvicina a Jeanne. Quando l’accompagnamento torna ad essere marcato in cuatro il violino si fa sempre più presente e struggente, la frase si conclude con l’accompagnamento che torna sulle sincopas e la dinamica da un piano delicato cresce fino al forte preludendo alla frase seguente. L’atmosfera si agita su un accompagnamento tres tres dos raddoppiato alla maniera yiddisch che Piazzolla ha appreso durante la sua adolescenza newyorkese e la parola che ritorna al bandoneon/Jeanne prima della una chiusura con rallentamento e tiempo matado.
Qui c’è il secondo momento in cui i due protagonisti non parlano e sono descritti in un momento di giocoso. Il pianoforte è chiamato ad un assolo che ha un carattere molto ritmico di luminosità salganiana, con un lontano sapore jazzistico e folklorico, mentre l’accompagnamento è fatto solo da rumori, ma diversi da quelli che abbiamo sentito all’inizio: qui c’è una sorta di guiro effettuato sulla tastiera dal bandoneon e la strappata o effetto canyengue del contrabbasso, ai due si aggiunge il violino che non ha neanche lui un ruolo melodico, disegnando solo una figura ritmica ostinata…fino ad una ulteriore chiusura della frase.
Arriviamo al momento culmine della tenerezza con una melodia di violino di grazia pucciniana. Paul si è innamorato di Jeanne che lo ha respinto. Anche qui c’è un cambio timbrico nell’accompagnamento fatto solo dalla chitarra e dal contrabbasso che inserisce el arrastre. Riprende il dialogo tra Jeanne/bandoneon e Paul/violino che prova ancora una volta a esercitare il suo fascino, ma Piazzolla lo tiene indietro come ricordando che Jeanne ha manifestaro la sua intenzione di liberarsi dalla seduzione che la assilla. E lo si sente anche attraverso l’articolazione delle loro voci nella scrittura strumentale: ferma con una dinamica inflessibile quella del bandoneon, disperata e ormai lontana quella del violino. L’accompagnamento è sempre quello incalzante del tres tres dos raddoppiato.
Un inquietante glissando rifà tornare in primo piano il violino/Paul che riprova per l’ultima volta a incalzare Jeanne/bandoneon: lei risponde insieme al pianoforte e al contrabbasso con una serie di tre sincopas platealmente sforzate come a significare che la sua decisione è senza appello. e quindi sul seguente tres tres dos riascoltiamo di nuovo il bandoneon Jeanne che preludia al finale tragico consumato con un rallentato drammatico.
Insieme al meraviglioso Concierto para quinteto che nello spettacolo occupava uno dei due momenti strumentali, Jeanne y Paul e la sua coreografia è stato il brano che ha coinvolto di più il pubblico durante le recite che, intrecciando le necessità quotidiane al diritto di sognare, debuttarono sotto la luna di una meravigliosa piazza del Duomo gremita: a Parma che guarda caso è la città di Bernardo Bertolucci. Forgiandosi al fuoco della ribalta il lato artistico dello spettacolo crebbe di serata in serata. Un roccioso stopper che segava le gambe per i grigorossi di una decaduta Cremonese, si era convertito in mite autista guidando con una specie di gioia ebete il pullman per gli spostamenti nella penisola. Come vittima di un riflesso pavloviano mi marcava riconoscendomi come uno di quei centravanti che gli era occorso di neutralizzare nelle sue imprese sportive o più semplicemente come il punto di riferimento che gli avrebbe fatto le coccole, offerto la golosina, dato la pappa. In fondo era un cagnolone buono, sempre incombente con la sua mole majakovskijana, al mio fianco o dietro con l’ombra che vedevo riflettersi sull’asfalto soleggiato di un pomeriggio estivo a Roma come in ogni altra piazza in cui era in programma lo spettacolo. E a Roma nel momento di scegliere la camera doppia in uno squallido alberghetto che mi ha fatto immaginare davvero quale potesse essere la topaia gestita da Rose e Paul nel plot bertolucciano, sorge un problema: finisce che con lo spirito di sacrificio indispensabile ad essere un capitano credibile, mi candido per essere io a dormire con lui. Dopo l’esperienza con Ida, ero certo di poter sostenere qualsiasi minaccia al mio sonno. Lui con il suo vocione da baritono che non riusciva a mascherare un fondo di inestirpabile espressione infantile, confessò: guarda che io russo, eh! Ma con altrettanto senso autocritico spostò il suo minuscolo letto nel bagno che era molto più spazioso della stanza. Dormii divinamente. Ecco ricordo, i genitori da bergamaschi puro sangue si convinsero a chiamarlo Weimar, va a sapere per quale cortocircuito! Per completare il quadro, toccava a lui assolvere alle mansioni di tour manager, ad aiutarci con i bagagli a dare il chi è di scena. Testimonianze trasparenti di quanto la produzione si dimostrò all’altezza, ma a quella che Ida in un raro momento di acido scoramento sintetizzo per sempre: “Tango Congo”.