Le effemeridi non finiscono mai ed eccedono qualunque calendario. Sostiene Gobello che nell’ambito della poesia popolare furono tre i fatti che accompagnarono il trionfo di Hipólito Yrigoyen nelle elezioni del 1928, pur non avendo nulla a che spartire quelli con queste. Sostiene Gobello, allora un competente novenne, che il primo fatto fu l’irruzione dei filosofemi di Discepolo al Teatro Maipo, attraverso la voce d’argento lucidato di Azucena Maizani. Vestita da uomo, per rendere verosimile almeno l’incipit, Azucena cantò la fugacità delle cose umane in “Esta noche me emborracho”. Il secondo fatto fu la pubblicazione de “La Crencha Engrasada” di Carlos De La Púa, alias El Malevo Muñoz, summa poetica di un lunfardo esibito come un arto leso o come le piaghe del vaiolo. Il terzo fu l’apparizione cartacea di "Semos Hermanos” di Dante Alighieri Linyera, un modesto amico delle Muse, avrebbe detto Bustos Domecq. E delle Muse in ciabatte, precisa Gobello. Dante era per l’anagrafe Francisco Bautista Rimoli, aveva iniziato stampando da sé i suoi versi e vendendoli al dettaglio per strada. C’è una bella parola in lunfardo che definisce il poeta spacciatore da marciapiede: insistidor. Ma i poemi di Dante finivano anche sulle riviste popolari da lui appositamente fondate, come La Cancha, El Purrete, El Alma Argentina. Da qui a tuniche per i pesci, il passo era breve.
Sono nato una brutta notte del 1902, su un materasso italiano
in un convento grande come la pancia dei borghesi
scrive Dante nella sua Autobiografia Rognosa.
Alvaro Yunque, alias Aristide Gandolfi, figlio dei milanesi Adamo e Angelina Gandolfi e nato per una sguercia a Buenos Aires, scrittore, storico, saggista, ma “preponderantemente” poeta, come si definiva lui stesso, fondatore e animatore del Gruppo di Boedo, comunista, carcerato, esiliato, censurato, autore di ventine di libri addirittura bruciati in pubblico dai militari nel 1977, Alvaro Yunque si accorge per primo di Rimoli quando è ancora quindicenne. Lo ricorda così:
I suoi versi erano pieni di dinamite e di portentosi strafalcioni. Mi aveva colpito questo ragazzino piccolo, agile, inquieto, insolente, impetuoso, intelligentissimo. I tuoi versi sono pieni di errori, gli ho detto, hai mai studiato la versificazione? Onestamente no, mi disse. Perché non mi insegna lei? Pronti! E gli diedi subito la prima lezione. Intelligente com’era, gliene bastarono altre due per dominare tutti i metri, endecasillabo compreso. Imparò tutte le forme che gli servivano per le poesie che aveva urgenza di scrivere.
E prosegue Dante:
Ma andai a scuola e un bel giorno,
mentre tenevo d’occhio lo squallido stufato
della mia vita triste, fu per rabbia che protestai
odiavo la marmaglia dei padroni, i signori, l’asfalto
provai collera e nell’anarchia entrai.
Ho tradotto con marmaglia il termine maroma. La maroma era una corda. Quando
il conventillo o l’albergo transitorio era pieno e non c’erano letti disponibili, oppure
non potevi permetterti le tariffe orizzontali, ti affittavano una sedia e ti assicuravano
al muro con una corda chiamata maroma, onde evitare che cadessi dal tuo sonno
pieghevole. Il termine passò a indicare con un certo orgoglio la classe degli infimi.
C’è un tango di Delfino e Romero “Se viene la maroma”, guarda caso del 1928,
che avverte minacciosamente i signori, i borghesi, i bisunti bottegai del centro, che
sta per arrivare la maroma sovietica, la rabbia comunista che gli porterà via persino
i materassi. Basta pasteggiare a pane e salame, vogliamo sauternes! E
champagne!
La scuola frequentata allora da Dante, e oggi sconsigliata per mancanza di
sbocchi, era la telegrafia. A diciotto anni consegue con successo il diploma di
telegrafista, come il padre di Edmundo Rivero che dalle remote stazioni ferroviarie
in cui lo mandavano a lavorare, si faceva trasmettere per telegrafo i testi dei tanghi
per il piccolo Edmundo. Piccolo si fa per dire.
Era quella ancora la grande stagione poetica del telegrafo. Le avanguardie
mondiali orchestravano su pagina la simultaneità, l’abbattimento delle distanze, la
trasformazione del pianeta in un unico cervello pulsante. Il giovane Dante, invece,
come "Joao Telegrafista” del poeta brasiliano Cassiano Ricardo e musicata dal
genio di Enzo Jannacci, batte sul suo solo tasto in una stazioncina povera, con più
alberi e uccelli che persone.
Piripiripiri pipi piripiripiri pipi.
Come Joao, anche il giovane Dante si innamora di un’Alba che mattiniera non è.
Alba Gandolfi, la figlia di Alvaro Yunque, il suo fulmineo insegnante di metrica.
Ellittico e urgente come il suo cuore di telegrafista, Dante le dedica versi di più o
meno undici sillabe, taglia fiori e preposizioni, per accorciare le parole, per essere
più breve, vista l’urgenza. Ma un giorno, l’unico giorno in cui Alba è mattutina, Alba
fugge per andare abitare città grande piena luci gioielli. Inutile tanto alfabeto Morse
in mano. Dante cerca Alba in ogni luogo provvisto telegrafo. Per le sue mani passa
mondo, rapido, cifrato. Passa prezzo caffè, passa matrimonio Edoardo Ottavo,
oggi duca di Windsor, passano cavallette in Cina, passa sensazionale bomba
volante. Passa notizia matrimonio Alba con altro. Dante cuore urgente non dice
parola. Solo rondini nere, senza la minima intenzione simbolica, si fermano sul suo
singhiozzo telegrafico.
Era anche l’epoca dei talenti precoci. Discepolo scrive il suo primo sainete a 17 anni e il suo primo tango “Biscottino” che è ancora minorenne. Dante arriva appena dopo Contursi e Celedonio, ma precede Discepolo, riecheggia Evaristo Carriego, che il barrio l’ha inventato, e reitera Almafuerte. Aggiunge reietti alla galleria benevola del primo, alle sartine, ai barrocciai, a quelle creature da fabbrica e da ospedale. E dà precisione alle generiche invettive del secondo. Nel 1921 comincia a scrivere su El Alma que Canta rubriche fisse di poesia e denunzia sociale, una sorta di repubblichetta della lunfardia. Il gran Nicolás Olivari lo descrive così:
Era un ragazzo triste, riflessivo, ricordo le nostre lunghe passeggiate per la calle Corrientes. Era un poeta angosciato dalla città, dalla sofferenza dei poveri. Zoppicava vistosamente da una gamba, aveva qualcosa di difettoso, sembrava interpretasse la mia “Musa de la mala pata”, la musa del passo falso.
Eduardo Moreno, poeta a forza di scapaccioni, parla di lui con ammirazione:
La sua breve vita è stata un romanzo. All’epoca de El Alma que canta viveva in una stanzetta che gli affittava l’editore Buccheri per dieci pesos. Era così piccola che non ci si stava in due. C’era solo il letto circondato dai libri. Libri di tutti i generi, ma solo in edizione economica. Per entrare dovevi camminare sul letto. Dante era sempre ubriaco, di notte leggeva e di giorno dormiva. Buccheri mi diceva di andarlo a svegliare perché doveva chiudere il numero. La rivista non poteva uscire senza di lui. Era l’anima dell’Anima che canta. Poi un giorno si sono scontrati e Linyera è andato dall’editore Korn a fare da lui “La canción moderna”. Più tardi ha conosciuto una donna, una mezza matta, Si sono sposati e dopo un mese lei è scappata con un circo. Linyera è morto male, la vita l’ha buttata via, non ha curato la sifilide, aveva la tubercolosi. E’ morto a 35 anni in sanatorio, ci andavo con Buccheri, ma non ce lo facevano neanche vedere. Le sue parole sono superiori a quelle di noi tutti, era il maestro della poesia lunfarda, ineguagliabile. Un tipo eccezionale, era nato per la poesia e per compierne il destino.
Tra gli ultimi versi che Dante scrive, ci sono questi:
Se ne vanno, passano, addio, ne verranno degli altri
sono treni vuoti i miei sogni.
Farsi il sangue cattivo quando partono
e ci lasciano più soli dei malati.
Perché tener insieme il fagotto
le bisacce del ronzino che è il tempo
No! Perché? Mai più. Ci ho fatto il callo
persino nel cervello, vecchio mio!
E in un sonetto che si chiama Postuma, scrive cinicamente:
Niente discorsi, niente funebri veglie
né stupide lapidi con motti di morte
e nemmeno liquorini a mie spese.
Che sia la mia tomba senza croci banali
un angolo che accolga le bestie rurali
venute a lasciare un’omaggio di strame.
Sono una settantina i testi che Dante scrive per il tango, non tutti inadeguati, dicono gli estimatori, forse esagerando. E’ che davanti alla potentissima musica Dante sembra perdere impeto e acredine. Mette giù le parole come piastrelle e nessuno le canta volentieri. Si favoleggia di un tango scritto insieme a Vardaro, ma se ne sono perse le tracce. Pajarito, invece, di cui scrive anche la musica, glielo registra l’amico Gardel, ed è un piccolo miracolo di tenerezza. Per il capolavoro bisogna aspettare 80 anni. Daniel Melingo, che negli stracci del linyera si trova come a casa sua, mette in musica “Semos Hermanos" e lo canta con la giusta voce di peltro ossidato. Ed eccola, la maroma che risale attraverso i secoli, dalle ballate, le pestilenze, i capestri di François Villon ai dondolanti per amore di Juan Gelman: un lungo fiume nero che trascina con sé la nuda vitaccia fino agli ultimi strattoni della forca. Non c’è redenzione per la mugre. Non ci sono effemeridi per i vinti.
Ecco qua questi versi che zoppicano zoppicano
sono come una banda di sfaccendati
che raccolgono la rogna dei sobborghi
e le porcherie sussurrate dal tango
Versi inutili per voi ragazzi
che ancora vi ubriacate con l’anice dell’entusiasmo
e che continuate a credere che siamo
che siamo fratelli
Sono nati a forza di miseria
il fango gli ha dato la sozzura, il tango la musica
sono strattoni della forca, della vita porca
sono mozziconi buttati via.
Odorano di condominio, odorano di puttane,
di ladri, di buoni a nulla a letto tutto il giorno
chiaramente sono fatti di botte e di insulti
e di catarro dell’anima.
Disprezzano la vita, la vita dei signori
e la buona sorte e le sante cose
perché di notti in galera e di fame
ne hanno passate molte.
Ce li ho sulle labbra e cantano sulle tue
e su quelle della ragazza che batte e muore
e in quelle del fesso che lavora e sogna
e in quelle di chi ruba.
Alcuni sono fischiettati, altri sono bestemmiati
altri sono carezze di ragazza ingannata
però alla fin fine sono fatti di gelo
freddi e taglienti come il filo d una lama
Quanti di questi versi sono stati cartelloni
della miseria dei cuori
ma forse qualcuno è stato il canto di una madre
per molti ubriaconi
E oggi sono gli uomini frastornati
che mangiati dall’angoscia
si fanno buttar via come coriandoli
di un carnevale di pescecani
Scherzi ignoranti come cazzotti
rogna delle anime che capiscono il tango
hanno l’ironia dei poveri
che credono davvero
che siamo fratelli.
ph: Daniel Melingo