Sul finire del secondo millennio, un’enorme massa di nuovi ballerini si abbatté sulle
milonghe del pianeta.
Ne seguì un’ondata di crimine che sconvolse le piste appena gentrificate.
Blog e forum presero fuoco nel dibattere su come normarle.
Si chiesero lumi a milongueros di lungo corso, che li diedero.
Vennero rievocati, senza osare ripristinarli, i guardapista dell’epoca d’oro.
Si stilarono molli galatei e più nitidi decaloghi.
Alla pareti si appiccicarono regolamenti che come quelli dei campeggi inibirono i
coiti rumorosi nelle ore del riposo.
Ballerine anche famose si espressero per iscritto in favore dell’igiene personale,
delle mentine, della tecnica ascellare.
Come tante Liala fecero cattiva letteratura, ma almeno insegnarono al mondo la
corretta postura delle ghiandole.
Si dette a credere che il tango, come il liscio e la cumbia, fosse un ballo sociale.
Un dispositivo di elusione e respingimento fu caldeggiato per gestirne le
implicazioni.
I disc-jockey contribuirono a tener in riga le masse con il combinato disposto di
tande cingolate.
Poco a poco il tasso di devianza e gli impatti ambientali si ridussero fino alla mera
testimonianza.
Si ballò per adempiere il principio di realtà e finalmente si andò alla milonga per
passare inosservati.
L’ultima collisione si verificò nel febbraio 2008, tra due ballerini di diversa
obbedienza.
Uno si rialzò declamando:
“Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli
esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi”,
ma prima che potesse proseguire nella citazione biblica di Pulp Fiction, l’altro lo
fece oggetto di scuse amichevoli come una constatazione e sentenziò:
“Difficile è il camminare”.
Vero, alla milonga è difficile il camminare. Ma prima ancora del tango, fu “el
empedrao”, il pavé, a cambiare il modo di camminare dei cittadini di Buenos Aires
e a rendere difficoltoso la tipica andatura ondeggiante di alcuni di loro. Se ne era
accorto il solito Borges nel 1926, quasi vent’anni dopo la pavimentazione ad
adoquines del 1908:
“Oh, compadritos della calle Ombú e della calle Europa, che perdita di prestigio,
che vacillamento per la vertiginosa dignità dei vostri tacchi alti saranno state le
punte aguzze del selciato, così andine, così incivili, così estranee alla terra battuta
dello stradone criollo!”
Più tardi, il prestigio dei tacchi detti francesi, alti 4/5 centimetri e stondati, quelli
usati da Copes e Gavito, tanto per intenderci, colò definitivamente a picco sugli
illustri pianciti del tango-salón, dove il camminare bene e con eleganza era ormai
diventato un culto.
Mi ricordo che non erano passati neanche dieci minuti dacché ero entrato per la
prima volta in una milonga di Buenos Aires, che già avevo sentito la moral suasion
dei venerandi milongueros:
- El tango hay que caminarlo.
- Caminar es lo más difícil.
Da allora sono passati trenta anni e quello stesso monito tellurico continuo a
sentirlo da tutti, ma proprio da tutti, persino da quelli che ballano in sneakers e in
Doc Martens. Dirlo evidentemente fa fine e non impegna, come una citazione delle
Ecclesiaste.
Anche per questo voglio qui ricordare il grande Miguel Balmaceda che della nobile
arte del camminare, intarsio di pudore e intensità, aveva fatto un’elegia e una
missione.
Se nella danza classica la spiritualità si esprime attraverso l’elevazione, nel tango
si preferisce essere terrestri. Il milonguero adora il suo pavimento. Nel "caminar", e
ancor più nella maniera in cui "pisa", egli testimonia la sua fede tellurica. Nel
tango-salón sono dunque i piedi ad espletare le funzioni spirituali. Il gran sacerdote
di questa particolare religiosità plutonica era Miguel Balmaceda.
Ma sentiamo prima cosa scriveva nel 1939 Marcelo Menasché, amico di Discepolo
e sceneggiatore di Fantasmi a Buenos Aires. Nonostante il nome da sulfamidico,
sul tango la sapeva lunga:
“Il ballerino porteño non corre e non salta, poiché queste sono cose da gringo.
Non infioretta la danza, che non sarebbe da uomini. Sobrio, infinitamente sobrio,
egli cammina. E qui sta il suo virtuosismo. Dove tutti gli altri vedono solamente un
camminare, egli compie variazioni di indicibile sottigliezza, frazionando il ritmo,
sottraendosi o anticipando il tempo della musica, in ogni caso dominandolo.”
Come ci ha spiegato Bruce Chatwin nelle sue meravigliose pagine dedicate a
questo atto umano di semplicità e purezza, nel camminare si trova concentrata
una sapienza millenaria.
Molti grandi artisti sono stati infaticabili camminatori: Arthur Rimbaud, per
esempio, il regista Werner Herzog, Raúl Gonzalez-Tuñón e il suo alter ego poetico
Juancito Caminador, che altri non era se non Johnny Walker.
Miguel Balmaceda invece aveva fatto del suo camminare una grande arte.
Nella sua scuola di tango ci si andava esclusivamente a camminare e a imparare
come muovere i piedi sul pavimento, senza fargli male. Sebbene fosse un uomo di
corporatura massiccia, appoggiava i piedi con la saldezza del rizoma e la soavità
del coguaro.
Arthur Rimbaud era per Verlaine "l’homme aux semmelles de vent", ossia l’uomo
dalle suole di vento. Per tutti coloro che lo videro ballare, sotto le scarpe di Miguel
soffiavano gli alisei di primavera.
Miguel è colui che ha inventato una sua base speciale, un dispositivo coreografico
che serve per incedere sui pianciti con la bellezza dei velieri e che nessun ballerino
di tango, in un mondo ideale, potrebbe permettersi di ignorare. E infatti.
Con la sua compagna Nelly, ha diretto fino al 1992 la pratica e la milonga di
Canning quando ancora si chiamava Salón Helénico per via dei reperti
archeologici, alcuni dei quali non semoventi, che grecizzavano il décor.
A Canning ci andavano i migliori ballerini di Buenos Aires, autentici interpreti della
raffinata peripatetica porteña e un esercito di aspiranti coguari.
Miguel conosceva personalmente i piedi degli uni e degli altri.
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Photo Credits: Alessandro Beltrame
Miguel Balmaceda y Nelly, Mariachiara Michieli - Salón Helénico, Canning, Buenos Aires 1990