Prima ancora che arrivasse Facebook a darci la competenza necessaria a intervenire su argomenti che ignoriamo o quasi, la scrittura è sempre stata un’opera collettiva. Non si scrive su fogli bianchi, ma su quelli altrui. Questo articolo intitolato À Rebours - A ritroso, Controcorrente, come il romanzo di Huysmans - l’ho scritto nel 2009 sui fogli di uno storico del tango, il cui nome non voglio ricordare, che aveva negato in un articolo su Pagina/12 la veridicità delle persecuzioni contro Osvaldo Pugliese. Neanche a farlo apposta, lo stesso giornale aveva subito dopo pubblicato le liste nere della dittatura militare, cioè le liste di proscrizione che avevano bandito da televisione, radio, teatri e luoghi pubblici gli artisti, gli intellettuali, gli attori, i musicisti, sgraditi ai militari. Tra questi, in bell’evidenza, indovinate chi c’era? Esatto, il compagno Osvaldo Pedro Pugliese.
CONTROCORRENTE
Pancho Villa curava con grande attenzione la sua immagine pubblica.
Rilasciava frequenti interviste e si circondava di reporter e ghost writer - il più
famoso dei quali fu John Reed, autore di “Messico in rivolta” e “Dieci giorni
che sconvolsero il mondo” - che avevano il compito di scrivergli dei bei
discorsi e delle memorabili esternazioni. Attraverso un regolare contratto,
Pancho Villa concesse a Hollywood di filmare le sue migliori battaglie e
relativo backstage, previa fornitura di uniformi più fotogeniche e supervisione
dello script. Press’a poco lo stesso, del resto, si fece dell’altra parte, nella
spedizione punitiva inviata contro di lui dal presidente Wilson, sotto il
comando dei generali John Manganello Pershing e George Patton.
Detto questo, non risulterà fuori ruolo la conclusione della vicenda. E’ il 16
luglio 1923. Pancho Villa, crivellato nella sua automobile da 47 pallottole
sparate dai pistoleri inviati dallo stesso governo che gli aveva da poco
concesso l’amnistia, sentendo arrivare i titoli di coda, manda a chiamare il
consulente in carica e gli ordina: “Presto, dimmi... Quali sono state le mie
ultime parole?”
Pancho Villa sapeva bene che non appena la sua bara avesse toccato il
fondo della fossa, sarebbe arrivato il momento di fargli dire quello che in vita
di dire si era scordato. Anche la sua epoca mancava stranamente di
veggenti, ma in compenso abbondava, come la nostra, di quelli che
esercitano a ritroso, nel plastico passato. Strumento prediletto da costoro è
la moviola truccata dell’aneddotica, con la quale cercano sempre di far
pendere la bilancia dal lato umano. Riducendo i conflitti, le inimicizie, ma
anche le guerre e le rivoluzioni, a pacche sulle spalle e frasi celebri, riescono
non di rado nel funambolico compito di mettere sullo stesso piano vittime e
carnefici. Così come una curatela spiritosa riconcilia su un’unica parete di
museo opere tra loro nemiche e il cinico sincretismo dei nostri urbanisti
rappacifica all’incrocio di due vie i leader di opposte fazioni, un bolero di
storielle spiana il terreno alle salmerie della falsa coscienza. Interpreti
magnifici di questo revisionismo melodico sono gli storici del tango, per molti
dei quali il tango non è mai abbastanza conformista, non va mai abbastanza
d’accordo, se non proprio coi padroni di tutto, almeno con i loro questurini.
Non c’è quasi storia del tango che non sia tirata a pialla e cosparsa di
emollienti. Ecco allora che “falsa come un dollaro celeste” diventa la
persecuzione di cui tutti i regimi succedutisi in Argentina tra il 1937 e l’83
hanno fatto oggetto il compagno Osvaldo Pugliese. Cos’erano le sue
presunte carcerazioni se non trovate teatrali?. E la rosa rossa sulla tastiera
del pianoforte? Un trucco da bellimbusto. La sua casa discografica Stentor
viene rasa al suolo da un misterioso operativo? Si mirava all’aggiotaggio
delle lacche. Un diabolico istrionismo ha spinto Pugliese a debuttare con la
sua orchestra a Radio Splendid senza andarci e a incidere dei pezzi
fondamentali come “Pata ancha”, “La bordona” e “Yunta de oro” facendosi
sostituire da Osvaldo Manzi. Senza contare le scuse che si è inventato per
non suonare in pubblico, tipo l’ordinanza di Perón che gli proibiva di farlo, o
le frequenti sospensioni del permesso sindacale. Ma per quanto trattata con
mano militare o con le prensili saccarine populiste, l’oltranza di Pugliese, il
suo mai venir a patti coi potenti di turno, ha fatto corpo unico con la sua
musica. In nessun altro tango si trova una tale coerenza tra pensiero critico e
forma. Oggi, il vetro smerigliato della distanza, che confonde anche i
competenti, ci impedisce di cogliere fino in fondo i nessi, allora ben visibili,
tra la veemenza di “Emancipación”, “Arrabal” o “Los Mareados” e le iniquità
sociali contro cui il compagno Osvaldo ha sempre lottato. Dunque, non è
all’anticomunismo dei poco informati disc-jockey che dobbiamo attribuire il
bando di Pugliese dalle milonghe odierne. E’ piuttosto all’incapacità dei
ballerini di misurarsi con i suoi contenuti, di essere all’altezza di una tale
riserva di fuoco, di continuarne il senso. L’arte non è il riflesso di determinate
forme di produzione; lo diviene però nel momento in cui vuole difendere a
tutti i costi il principio della sua autonomia. Ma il tango dei nostri giorni
vigliacchi, quelli in cui mai così volentieri si va in soccorso dei vincitori, non si
preoccupa di queste inezie. Il suo unico stratega è il mercato. Questo è il
tango dell’aria che tira, e - dopo Adorno citerò Céline - questo è il tango che
va a dar via il culo con qualsiasi tempo.