Nella Tangolandia di fine secolo scorso, il vegliardo è stato tenuto in gran conto nell’ambiente, tanto che quella del “milonguero viejo” è diventata in poco tempo una solida figura professionale. E non mi riferisco all’affetto e all’ammirazione che proviamo per chi sbaglia da più tempo di noi, ma al credito che abbiamo concesso agli errori, agli scarti, ai fondi di magazzino che questi longevi hanno cercato di far passare per tradizione. Fortunatamente per loro, nulla è incredibile in materia di tango. Così 15 anni fa, quando avevo 30 anni di meno, ho scritto una storia critica di questa inesauribile categoria. Il titolo è un modo di dire in romanesco che ho preso a prestito da Tommaso Landolfi:
BISOGNINO FA TROTTA’ ‘A VECCHIA
La produzione di entertainment non fa altro che riempire i vuoti che essa stessa ha
creato. Prima l’invenzione della gioventù, poi quella dell’infanzia e ora quella della
vecchiaia: nessuna fascia di censimento può più ritenersi al sicuro dal consumo
pianificato. A ciascuno il suo, diceva un tale, ma nella vita intrattenuta degli uomini
non c’è tanto rigore. Oggi sono piuttosto gli sconfinamenti, i salti di rotaia, le
inadempienze allo scadenzario, a estendere la filiera del simbolico e a riportare il
sorriso sulle facce viniliche di giornalisti e capitani d’industria. I primi sognano
elzeviri colorati, i secondi nuovi affaroni. E’ evidente: i mini-ballerini fanno
tenerezza, i vecchietti rocker compassione, o viceversa.
Non diversamente dai superstiti professionali del Buena Vista Social Club, anche
noi del tango siamo abituati agli exploit anagrafici. Nella danza, basti un nome:
Carmencita Calderón, la compagna dell’insostituibile Cachafaz e, sotterrato quello,
del Tarila Giambuzzi. Chissà se qualcuno si ricorda ancora di questo compadrito
salernitano che si faceva fotografare in pantofole... ma di Carmencita sicuramente
sì. Ritrovata da Oscar Hector a novanta anni suonati - o, per meglio dire, ballati -
ha festeggiato fino al centesimo ogni suo imprevisto compleanno al Glorias
Argentinas. E i suoi passi merlettati, i suoi ricami, l’intatto alfabeto Morse dei suoi
piedini, hanno sempre lasciato tutti senza fiato, a cominciare dai suoi partner, dei
giovinastri appena settantenni che dovevano darsi il cambio. Il calendario del
tango era comunque già fermo da un pezzo. Quando nel 1983, alla caduta del
regime militare, avevano ufficialmente riaperto le milonghe, a ballare si erano
ritrovati sempre gli stessi, con ancora indosso i poveri vestiti, le scarpe, i cuori
romantici di venti anni prima. Di osmosi generazionale, neanche a parlarne: nel
lungo processo di trasformazione della milonga in nursery senile, la dittatura non è
stata altro che l’ultimo e più sanguinoso metabolita.
Oh milongueros di Villa Urquiza, Almagro, Puente Alsina! Cosa avranno provato le
vostre anime sensibili, sempre così pronte a “sentire”, sempre così pronte a
spiegarci le ragioni cardiache del tango, nell’abbracciarsi di nuovo dopo tanto
orrore? Come avrete fatto a credere ancora nelle vecchie moine, a danzare tra gli
assenti e gli spettri della più ammazzata delle generazioni? A non “sentire” le
rivoltelle alla cintura, i segni dell’elmetto sulle capigliature andine, gli sguardi della
sbirraglia, il fiato untuoso degli aguzzini e dei delatori ancora tra voi? Era dunque
questo il dolore all’occhiello, la decorazione guadagnata sul campo, che di nuovo
vi ha autorizzato al tango? Una ruga in più sul cuore che per definizione sempre
arruga, stretti tra le quattro pareti specchianti della milonga, con il mondo
accuratamente chiuso fuori dalla porta? Siete invecchiati sì, e all’inferno;
condannati a sentire, dopo quello delle ferite, il dolore della cicatrici.
Per quanto curioso possa sembrare, la progressiva segregazione, il discredito
sociale, la violenta ostilità dei militari, avevano rafforzato il prestigio underground
dei milongueros, tanto che nel 1983 lo spettacolo “Tango Argentino” di Orezzóli e
Segovia giudicò conveniente portarne qualcuno in tournée per il mondo. E vedere
ballare Virulazo ed Elvira, Maria Nieves e in misura minore Copes - che per voler
essere di più era invece qualcosa di meno di un milonguero - era come vedere un
barrio porteño in trasferta all’estero. Un’autenticità calcolata e in formato
esportazione, che pur invogliò l’estero a traversare l’oceano, alla ricerca del tango
perduto.
Nei barrios stanziali di Buenos Aires, intanto, i ballerini rimasti erano ancora lontani
dall’immaginare che quella del vecchio milonguero sarebbe pesto diventata una
figura professionale e il tango un lavoro. Visti da fuori, i gessosi milongueros
sembravano personaggi di un unico ballo mascherato, ma, da dietro il carapace
della maschera, era piuttosto il resto del mondo a sembrare grottesco. E per dieci
anni ancora, almeno fino ai primi anni ‘90, nelle milonghe si sarebbe respirato
un’aria di resistenza, di orgogliosa inconciliabilità con il mercato. La prassi
dominante aveva risparmiato i milongueros perché inoffensivi, cioè storicamente
condannati, e soprattutto perché pieni di bolletta. Facile immaginare, dunque, da
quali interstizi e da sotto quali porte le imparabili forze del buon senso siano infine
riuscite ad infiltrarsi.
Morti i pochi grandi maestri, si fecero subito avanti i non abbondanti ballerini che
nelle milonghe erano riusciti a farsi un nomignolo. La prima a commercializzarli fu
Marisa Galindo ne “La Milonga”, uno spettacolo che si proponeva di rappresentare
in scala 1 a 1 la normalità di una qualsiasi notte di tango a Buenos Aires. Perché
non ci fossero dubbi, Galindo usò la precauzione di metterla in scena anche nelle
milonghe. La decalcomania finì però nella diserzione generale, dato che nessun
milonguero era disposto a starsene seduto senza essere pagato. Anche le
compagnie professionali, nel delirio bozzettistico che ormai stava montando,
ricorsero alla vecchia guardia, quella fuggita da tutte le battaglie.
Nel 1996, in “Una Noche de Tango”, Zotto e Plebs fecero debuttare in
palcoscenico El Pibe Palermo, un galvanico giovanotto classe 1908 che saltellò di
qui e di là nello show come gocce di olio fritto, e anche una seconda coppia meno
anziana, di cui però non ricordo altro che la danza tranquilla e pantofolaia.
Sempre nel 1996, nel “Forever Tango” di Broadway, il produttore Luis Bravo cucì a
misura di Carlos Gavito la macchietta del vecchio milonguero bavoso che
considera la sua saliva molto ambita dalle partner. Sebbene studiata per l’infantile
pubblico americano, la viscosità di quel tango fece subito presa anche a Buenos
Aires, riaccendendo le speranze di molti veterani. Dal pulpito mondano del
settimanale Viva, le imitazioni non furono però ratificate dal prototipo: un vero
milonguero - ha sentenziato Gavito - non balla mai con la sobra, gli scarti, pena la
perdita del ballo. Il suo caso era diverso: per lui ballare con gli scarti era lavoro.
Dunque, nel tango non c’era più posto per i lavativi. Quegli alti principi, se
applicati, avrebbero riconvertito le milonghe in stirerie, o condotto pericolosamente
alla piena occupazione. Ma i milongueros più fattivi non avevano certo bisogno di
un alibi da giuslavorista per disporsi come limatura di ferro alla calamita
dell’economia-politica. Prova ne erano gli assembramenti che già da un paio
d’anni si venivano a formare sulle piste, in corrispondenza del tavolino di un
qualsiasi organizzatore di festival in Europa o Giappone. Erano quelli dei timidi, e
tutto sommato comprensibili, tentativi di partecipare agli utili dei mercati overseas.
Niente a che vedere con la minuziosa mercificazione che di lì a poco sarebbe
seguita proprio nella capitale morale del tango. Se il milonguero touch si era
rivelato pressoché inutile in teatro, non così fu nel riformulare i vecchi incubi.
Nessun detrito alluvionale venne tralasciato dalla riabilitazione a tappe forzate cui
un terzo scaglione di vecchi milongueros prestò volto e acciacchi tra il 1996 e i
primi 2000. In soli cinque anni, le mezze età raddoppiarono e vertiginosi scatti
d’anzianità si aggiunsero a curriculum per buona parte inventati. Queste manovre,
già meno innocenti, in realtà miravano a una rapida patente di milonguero e,
tramite questa, a un vitalizio, a una pensioncina, a una qualche forma di
risarcimento. Dalle tombole, i tè danzanti, le feste di compleanno, le serate
coniugali, risposero le classi che nessuno si era mai sognato di richiamare. Le
truppe spelacchiate di una micro-borghesia sempre più impoverita trasformarono
l’oltranza milonguera in ritirata su tutta la linea.
Dignità e postura non sono indeformabili.
L’antico sogno di corpo glorioso che un tempo giustificò il tango, masticava ora i
resti miseri e duri di un ballo interamente secolarizzato, apoteosi della sobra, show
di una comunità che ostentava i carati della sua penuria. La logica concorrenziale
della nuova imprenditoria non solo riammise alla milonga il canyengue, il petitero, il
traspié, il ciuf-ciuf e ogni sopita voce dell’Enciclopedia delle Nocività, ma ristabilì il
principio d’equivalenza tra gli stili-merce e ricaricò tutto il loro vuoto sulle spalle del
sentimento. Un tale appiattimento non sarebbe stato possibile senza l’avallo
acritico e interessato di quei bruschi milongueros. Il sonnellino della ragione aveva
infine generato i suoi mostriciattoli.
E' da questo brodino teratologico che sono scaturiti i presupposti del brevetto
europeo del Tango Milonguero®, emblema tuttora insuperato della carestia
coreografica di fine millennio. Di milonguero quel tango aveva poco o niente, e
meno ancora la sua ideatrice Susana Miller. A questa protuberante monopolista
del milonguero mancava infatti così tanta milonga che dovette servirsi di quella
degli altri. Di qui il ruolo mimetico, il rimbalzante gioco di specchi dei non pochi
milongueros che a Buenos Aires accondiscesero a quell’abbraccio da
portabagagli, con la sincerità necessaria a dar ragione al cliente pagante.
Attraverso la rete commerciale in franchising, Miller esportò il "clic interior”,
dispositivo perno del suo don’t know how, e fu presto in grado di recare grandi
notizie ai suoi concessionari transplatini: la maniacale insipienza del suo tango
aveva una copertura cisplatina. Gli impappinati milongueros nostrani, come del
resto gli sparagnini del metodo myself, ne ebbero il morale sollevato.
L’ultimo, per ora, tentativo di rilancio teatrale del milonguero anziano è stato
perpetrato tre o quattro anni fa dagli espansivi amministratori della nuova Buenos
Aires tanguera. Quattro emeriti patriarchi, Pupy Castello, Jorge Manganelli, El
Nene e il Flaco Daniel, sono stati indotti a ballare in formazione promiscua con
altrettante giovani ballerine. “Danza Maligna” - questo il titolo della serie di
improvvisazioni firmata da Silvana Grill - è stata in seguito esportata in Francia, più
per il fumo che per l’arrosto che il nome dell’autrice lasciava presagire. Ma, in quei
grandi teatri, la spaesata magia dei vecchi milongueros non è apparsa meno
invisibile dei risultati artistici. Abituati a una ronda di frequenti ostacoli, i quattro si
aggiravano per il palcoscenico rattrappiti come bigodini, sopportando le smorfie
delle ragazze e augurandosi che tutto quello sbattimento finisse presto. In
generale, agli spiritosi critici francesi la coreografia pianeggiante di “Danza
Maligna” non è piaciuta molto: una bagarre di sbadigli, l’ha chiamata uno; teatro
Cólon di Buenos Aires, un altro. Cólon, con accento sulla prima o.
Oh, arcangeli notturni della milonga! Cos’è allora che ci “tocca e scompagna”
quando vi vediamo ballare? Cos’è che ci punge e ci brucia, come una rima che
non riusciamo a raccogliere, nella danza, ad esempio, della Rusa e del Chino
Perico? Quando anche un frammento della vostra unica pieza, che da sola valeva
tutta una notte di Sunderland, e che oggi ritroviamo qui, nella fricassea televisiva di
YouTube, in mezzo alle esibizioni di tanti disgraziati, basta a commuoverci?
Neanche due minuti sulla quadrettata baldosa del Sin Rumbo, quasi di mattina, a
sedie già ribaltate sui tavoli, le pulizie in corso. E voi stretti in un abbraccio senza
platea, mentre “Yá sale el tren”, emulsionati in una qualche vostro lontano
trasporto. E’ vero, deve essere questo, il treno sempre se ne sta andando, e con lui
la giovinezza: quando tutti i sogni, gli amori, i vini, i tanghi... quando tutti i diamanti
futuri che sicuramente saremmo riusciti a spremere da questa terra buia, erano
ancora più numerosi delle stelle.