Da due giorni cercavo un milonguero che al Club Almagro chiamavano Larry, per
via della sua somiglianza con il Larry dei Tres Chiflados, per intenderci quello con i
ricci perimetrali, che si pettinava tenendo il cappello in testa. Per riavere a casa
Larry, sua moglie era disposta a pagare qualunque onorario ragionevole sotto i 500
pesos. Mi aveva dato una foto del comico americano direttamente ritagliata da
Radiolandia, tanto era uguale sputato.
Larry arrotondava lo stipendio di facnientum statale improvvisando delle payadas,
dei sonetti o dei brevi haiku su temi suggeriti dal pubblico. Lavorava nei locali off
Corrientes che lucravano su questa inspiegabile moda del folklore. Si era dato un
nome d’arte, El Payador Bob. Al pubblico chiedeva di non applaudire, cosa che già
capitava di rado, ma di schioccare le dita. Una volta era stato al Greenwich Village
e al Greenwich Village schioccavano le dita. Nessuna traccia fresca del Payador
Bob al Pampa Húmeda, e nemmeno al Tupungato Cool, né all’Escabio Wine Bar,
né all’Hermano Mondongo. E nessun buon ricordo dei suoi ottonari che rimavano
come la lista della spesa. Mi rimaneva El Indio Manso, che fino all’anno scorso si
chiamava The Old English Pub, e prima ancora The Peronist Lounge, ma all’ora
dell’aperitivo aveva telefonato la mia cliente:
- Un uccellino mi ha detto che Larry stasera lavora al Teatro Colón, sostituisce lo
stunt di Scarpia, Ieri hanno dimenticato di mettere il materasso per quando lo
buttano giù dal muraglione.
- Ma a Scarpia non gli sparavano? - ho obiettato
- Per me può anche saltare su una mina. E’ una di quelle regie contemporanee.
Larry fa lo spoken word mentre vola giù.
- Chissà che bravo…
- Senti, se volevo la recensione di un'incompetente leggevo Palumbo. A
proposito, ti ho fatto lasciare un accredito a nome suo. Vedi di riportami a casa
Larry, tutto è dimenticato. Diglielo.
- Sta tranquilla, mi metto vicino al materasso - ho risposto pregustando il
ciclopico ricarico sulla nota spese.
- E guarda che non ti rimborso il taxi, vacci in colectivo.
Addio sogni di gloria. Avevo quindi aspettato con successo il 70 che ti lascia a una
cuadra dal teatro. Ritirato il mio biglietto, mi ero diretto al bar per farmi coraggio. Il
barman aveva un sorriso freddo come la neve e lo sguardo omicida del bigliettaio
che ti becca con un pluri-timbrato.
- Scusi, Capo, la consumazione è compresa nel biglietto? - gli faccio.
- No signore. Fanno cento pesos, cocktail o champagnino.
- E cosa avete di più gratis?
- Una bella bibita acquatica.
Deve avermi preso per un miscredente.
- Quanto viene il Rejuntadito?
- E che cosa sarebbe il Rejuntadito, brav’uomo?
- Il cocktail milonguero: due quinti di rum, un quinto di gin, un quinto di vodka, un
quinto di scotch, un quinto di tequila e un quinto sorpresa.
- Ma fa sette quinti…
- Usi uno shaker più grande, brav’uomo. Anzi, no, prendo un Martini. Qui tra i
patrizi ci vuole il suo stile. Mimetismo sociale. Niente lotta di classe, qui al Colón,
eh compagno?
- Come lo gradisce il Martini? Scosso, mescolato, tagliato a fettine?
Vuole averla vinta.
- O glielo piego in due? L’oliva gliela posso mettere in un sacchetto, così la mangia
in tram.
Lo sapevo che non dovevo mettermi la maglietta “Se il tango non è morto
l’ammazzo io”.
- La vedi questa? - e gli stiro sotto il naso una banconota di quelle grandi.
- La democrazia non obbliga il signore a tanto - fa il sostenuto.
- Se mi dai la risposta giusta, te la faccio vedere anche dall’altro lato.
- Preferisco rimanere nel dubbio, signor Merdoni.
- Giusto, nel dubbio e povero. Rimettiti pure il cappello, onesto lavoratore, e
prosegui il tuo canto dignitoso.
- Šostakovič?
- Quasi... José Camilloni.
Di Larry, ad ogni modo, neanche l’ombra. Dello spoken word si era sentito solo la
“AAAh…” iniziale. E non era uscito neanche per gli applausi.
Il giorno dopo, me l’ero presa comoda. Il 29 mi aveva lasciato trionfalmente a una
cuadra dall’Indio Manso. Questo era un palazzotto terra cielo in laterizio rosso e
tetto “a dos aguas”. Grosse somme di denaro erano state risparmiate
nell’arredamento che constava di una decina di tavoli, di un bancone
involontariamente ondulato, qualche ventilatore di due o tre pale, foto dei
Chalchaleros alle pareti, un jukebox a forma di totem con i successi di Cosquín. Il
piancito era ricoperto da tappeti mapuche fatti da un tribù trasferitasi nell’Once
con il nome di Textel.
Non finisco di entrare che una ragazza in maglione guanaco infila una monetina e
fa partire una nenia che si può ascoltare anche gratis all’ospedale.
Mi dirigo al bancone. Il barista ha il sorriso sincero e il poncho fotogenico di
Horacio Guarany quando saluta:
- Tara Furba! - mi dice.
Non rispondo niente.
- In lingua tehuelche vuol dire “Possano le tue alpargata metterti le ali ai piedi”. I
Tehuelche sì che sono poeti ragguardevoli. Cosa prendi?
Mi domando come se la cavino i Tehuelche nei poetry slam. Dietro al bancone c’è
una lavagna.
- Che cos’è un Curdela? - chiedo
- Fernet e Vino Patero. L’equilibrio tra yin e yang è fondamentale, altrimenti lo
stomaco ne risente.
- Che cos’è un Reverendo? - mi faccio sospettoso
- Oh, è una salsiccia vegana, servita con banane fritte e salsa guacamole.
Gli dico di darmi un bicchiere di Patero senza il Fernet. E affanculo lo yang! Me lo
serve in una terracotta mapuche fatta da una tribù emigrata in Paraguay quando
gli altri sono andati all’Once. Pago 50 pesos senza fiatare. Parte degli introiti, mi
informa, finanzia una borsa di studio sugli struzzi.
- Hobba timagami!
- Tehuelche? - azzardo
- Esatto - mi dice radioso - Vuol dire “Non sia la tua sete maggiore di quella del
siluro di fiume”.
La bibita non intenderei toccarla, ma temo che in tehuelche significhi che voglio un
bis. Il vino profuma come appena pigiato. La tazza è bisunta, scommetto che in
cucina ballano più di una Cucaracha. Ma non sono qui per cercare i Nemici
dell’Igiene. Sono qui per cercare Larry Bernasconi.
- Larry? Sì, lavora qui, almeno credo. Viene i fine settimana quando ci sono i
contingenti stranieri. Sabato però non è venuto e non ha neanche chiamato. Il
padrone se l’è presa a male. Perché lo cerchi?
- Vorrei fargli qualche domanda
- E’ nei guai? - poi assottiglia gli occhi - Non è che sei della Narcotici, vero?
Gli dico di no
- Larry è un tipo un po’ svitato, ma è a posto. Voglio dire, si fa di merca, come
tutti qui, ma niente roba pesante.
Mi chiedo come si dica “fesso” in tehuelche. Gli faccio vedere la foto, tanto per
essere sicuro. Sì, è lui, mi risponde. Gli lascio anche il mio biglietto, chiamami se
torna. Mi dice che ha tanti pensieri per la testa, non so se mi ricordo. Perché non ti
fai un nodo al fazzoletto? O diamo altri cento pesos agli struzzi?
- Faruba toofla! - mi dice mentre esco
- Uckfay ooyay! - rispondo
Stavolta non c’era bisogno di tradurre.
In ufficio trovo un messaggio sulla segreteria telefonica.
- Fajean, detective dei miei panetti! Ma tu i giornali non li leggi proprio mai! Non
hai visto l’articolo di Palumbo sul Clarín? Larry, quel pelotudo di un tarado è in
Europa, in Italia! Fa l’indio in uno spettacolo di tango! Proprio Larry! Il Boludo
Bob! Ma ti rendi conto? E tu non sai niente! Sei licenziato! Anzi no, prima ascolti
l’articolo, poi ti licenzio. E non starmi a mandare la nota spese che non ti
rimborso niente, tanto hai solo bevuto. Senti qua:
“Dal nostro inviato Toto Palumbo - Le radici sono la fiction preferita del tango. Qua
in Europa sembra niente, ma in Argentina non si parla d’altro da secoli. Giudicando
forse loffio il fenotipo, vanno tutti a caccia del genotipo, del codice sorgivo che
giustifichi simultaneamente Piazzolla e Varela. E giù a srotolare il gomitolo delle
concause fino al faldone dimenticato. Dopo la vanitosa petizione dell’Unesco,
forse non è un male che il tango teatrale rinunci ai suoi doveri formali per tornare
alle radici, all’antico squallore, e che su tutti i palcoscenici si ripercorra il calendario
all’indietro. Ormai l’unica consuetudine degli spettacoli di tango è di redigersi la
biografia, di fornire un resoconto, sempre lo stesso, della sua risaputa cronologia.
Ma Tango Raices si spinge più in là, fino alle origini più originarie, fino al folklore, al
zapateo, alla quena, ai nativi, agli idiofoni precolombiani. Anche gli indios avevano i
loro indios… eccetera eccetera…” Ora senti qua:
“L’inoppugnabile autenticità del nativo che ha fatto roteare le bolas come un
invasato non è inficiata dalla sua residenza altoatesina, né dalla sua magistrale
partecipazione agli aperitivi tellurici che l’Ente del Turismo organizza il sabato
sera…” No, scusa è più avanti, ecco qua:
“Ma ciò che più ha commosso il pubblico è stata a versione integrale de El
Payador Perseguido di Atahualpa Yupanqui per opera di Larry Bernasconi, il
nostro amatissimo Payador Bob. Solo, in un palcoscenico intabarrato di luce,
Bernasconi ha rievocato minuziosamente la sua infanzia sorvolata dagli avvoltoi, la
siccità polverosa, la solitudine, i ragni giganteschi, l’amicizia con i lama, le prime
disavventure dell’amore. E poi la città crudele, la durezza dei marciapiedi, i
tradimenti, le scadenze, le tasse, le multe. Altri tradimenti - ma guarda ‘sto infame
- e poi la nostalgia per la piccola patria, i suoi tramonti infuocati, l’amarezza dello
sradicamento… ‘sto impunito, ma se è nato a La Paternal!… Hai capito Fajean chi
andavi a cercare? E senza trovare, per essere precisi… Hai capito, cara lince dei
miei …
Ma a quel punto avevo già spento la segreteria. Eccome se avevo capito, potevo
dire addio ai miei 500 pesos. Intanto fuori dalla finestra la notte scendeva come un
sipario di bitume sulla città spietata dove gli uomini si amano e si scannano. Che
mi crediate o no, è solo lì che voglio vivere.
10 agosto 2020
El payador Bob
di Marco Castellani
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