Adesso il mercato sembra un dato naturale, e naturali ne sembrano i maneggi. Questa è la vera vittoria dell’industria culturale che erge a giudici le sue vittime. Ma nel tango non è stato sempre così. Quando ho cominciato io - diciamo nel 1982, per citare dati scientifici - il tango era appena un mercatino tribale, dove ogni cosa che compravi la toglievano dalla vetrina.
I cosiddetti soldi circolavano solo nelle cene tango show, il cui core business era il turismo innocuo delle province interne e dei paesi limitrofi, a moneta debole.
Nella milonga intanto circolavano ben pochi papafraschi. Gli unici proventi derivavano da ciò che alla Borsa di Chicago chiamano black market commodities, ossia merca e telos, cocaina e alberghi a ore. Ma al milonguero non importava perché metteva tutto il suo onore nella danza. Non aveva alcuna considerazione per chi faceva della sua arte una merce e respingeva sdegnosamente le somme che nessuno si sognava di offrirgli.
Il mercato globale ha cominciato ad accorgersi del tango col passaggio al CD. Ai discografici non è parso vero di tornare a guadagnare da un repertorio ritenuto morto da trenta anni. Poi è arrivata la TV via cavo, gli home video, la valanga turistica a valuta pregiata, che è stata messa subito a suo agio.
Un hotelier che sognava Rapallo è stato fatto ministro e ha dichiarato “il tango deve diventare per Buenos Aires quello che il carnevale è per Rio”. Ho tenuto il ritaglio, nel caso non ci crediate. E’ tuttora lo stratega e l’Eminenza Marrone della rapallizzazione del tango, Unesco compresa, una geniale mossa Kansas City.
Dal 1999 il tango è tenuto d’occhio come un fegato ingrossato. Scienziati dell’Economia, della Statistica, dell’Antropologia Culturale lo osservano e lo conteggiano. La maggior parte degli introiti va ai soliti padroni, soprannominati impresari. Ma per loro c’è una brutta sorpresa. Solo il 12% del business del tango su scala mondiale entra in tasche argentine. Purtroppo il carnevale si fa anche a Viareggio.
Come si sta bene, dove non sono io - dice un proverbio russo - ma è lunghissima la maldicenza che inchioda gli utopisti al loro etimo, al “nessun luogo” dei mondi minuziosamente immaginari di alcuni scrittori, o di quello altrettanto irreale delle brevi comunità che con l’eresia, l’ascetismo, o l’acido lisergico, hanno tentato di vivere teneramente, alla facciaccia dell’economia politica, o quanto meno alla larga dai suoi liquami e dai suoi becquerel.
Non c’è topos sul nostro pianeta, ripete da secoli la trista scienza, per questi faciloni che della “lingua che pronuncia tutte le cose”, delle sue complessità speculari al mondo, non hanno alcuna cognizione.
Casomai è vero il contrario. Prendiamo, ad esempio, Charles Fourier che dell’inesistente fu uno dei principali progettisti. Fourier non ebbe bisogno di aspettare i telai inglesi per cogliere, trenta anni prima di Marx, le tendenze mortifere del capitale, e nemmeno di studiare Ricardo per ricostruire “l’itinerario economico della mela”. Se nel “Nuovo Mondo Amoroso”, rimasto inedito per centotrenta anni fino alle soglie, guarda il caso, del 1968, concepì un’organizzazione del mondo più adatta alla natura passionale dell’uomo, fu perché conosceva fin troppo bene l’insolvenza della tanto strombazzata realtà. Sotto il dominio che fa produrre e consumare, il mostro della ragione genera sogni.
Ma, venendo ai nostri giorni e a mostri più recenti, c’è chi si fa il mazzo pur di traslocare nel vecchio mondo odioso. Già alla fine degli anni 90 un’inchiesta del Clarín aveva informato l’Argentina che il tango era il suo secondo fattore d’ingresso in valuta pregiata. Ne conseguirono lamentele, vertenze, tavole rotonde, interventi legislativi, ebbrezza impresariale, nuovi impulsi stilistici, Walt Disney. Oggi, il libro di Jorge Marchini sull’Incidenza del Tango nell’economia di Buenos Aires spiattella cifre scientifiche: ogni anno l’utile netto della ditta tango ammonta a un minimo di 400 milioni di pesos, di cui l’85% finisce, guarda il caso, nelle tasche degli impresari. Alla fine ci si ritrova sempre in una statistica. Se diamo credito a Marchini quella che fu l’utopia della vita danzata è ora un’innegabile location. Le sue tabelline parlano chiaro: il patrimonio per nulla immobiliare del tango è stato definitivamente accatastato. Ha un che di rassicurante sapere che i traffici e la terminologia dell’economia di scala risultino pertinenti quando si parla di tango e della sua industria. Tanto fervore imprenditoriale non si verificherebbe in presenza di quisquilie. La materia che lo attrae è dunque importante quanto il frumento o il caucciù. Il tango, convertito in qualcosa che pur resiste alla lingua che ne pronuncia il commercio, acquisisce così un senso di magnificenza, tanto più evidente quanto più si allontana dalla sua remota sacralità”. No, non è più felice l’esercizio, scriveva Vittorio Sereni. E nemmeno è più proficuo l’underground.