In un’intervista del 1979, Josip Brodskij, poeta e Premio Nobel, cantava le lodi della poesia italiana. Gli italiani sono fortunati - diceva - a essere nati in un posto pieno di colonne, da voi le colonne sono onnipresenti, numerose quanto gli alberi. Questo vi dà dimestichezza con l’artificio. Anzi, l’artificio lo percepite come naturale e viceversa, il naturale come artificio.
Sarà anche come dice lui, ma qui da noi quasi nessuno va in campagna ad applaudire i ciliegi; in compenso, se un Luchino Visconti esibisce un ciliegio vero in palcoscenico viene giù il teatro dagli applausi. Cosa che non succedeva con lo spettacolo di Milva e Piazzolla. L’albero era chiaramente finto, il pubblico ne mangiava la foglia e non applaudiva neanche a morire.
Questa mania del naturale, del veramente vero, del non-inscenato messo in scena, ha toccato il suo zenit a cavallo tra gli anni 80 e 90, anni in cui ogni teatrante ambiva ad avere qualcosa di vivo come collega. Il che portava dei problemi.
In uno spettacolo della Societas Raffaello Sanzio, ad esempio, c’erano sei sette porcellini che a un certo punto sbucavano in palcoscenico attraverso un tubo e si mischiavano con gli altri attori. Ma nonostante le magre diarie sindacali, i porcellini ingrassavano a vista d’occhio, e intasavano il tubo. Lo scenografo prendeva un tubo più grande, ma dopo due settimane si era daccapo. Anche gli alberghi storcevano il naso. Non c’era modo di convincere il portiere di notte, già mezzo assonnato di suo, che quelli erano degli ospiti. Alla fine li hanno rimandati a casa tutti o quasi, ormai porcelli fatti, e coperti di gloria e di lustrini, a raccontare agli amici la magia del teatro, i riflettori, le recensioni, i fan, gli autografi, gli amplessi in camerino, insomma la vita truccata dell’artista.
Un altro esempio: nel 1992, mentre eravamo al Festival Oriente-Occidente di Rovereto con Tangueros, c’era una compagnia di danza francese che nel rider aveva richiesto una pecora. Per le prove non serviva, si arrangiavano con un macchinista mansueto che faceva da segnaposto, ma per la recita sì, serviva una vera pecora, che alla fine era stata scritturata da un pastore di Cles. La sera del debutto, la pecora è arrivata all’ingresso artisti come una rockstar, sul cassone di un avveniristico Apecar guidato dal suo manager. Puro glamour. E’ andata dritto in palcoscenico. Da dietro il sipario chiuso, il pubblico sentiva dei leggeri bee, ma potevano essere in playback. Così, quando il sipario si è aperto, un applauso torrenziale ha accolto l’autenticità dell’ovino. Al momento clou, un occhio di bue si è stretto intorno alla pecora e lei, consumata mestierante, ha fatto una pipì straordinaria, molto molto credibile. I ballerini non aspettavano altro, hanno subito imbastito un pas de quatre con gli spazzoni. Una coreografia aggraziata, innovativa, una pietra miliare della nuova danza contemporanea francese.
Cosa c’entra tutta questa manfrina su natura e artificio con il tango? Ve lo dico subito.
Costumanza vuole che allo spettacolo Tango Argentino di Héctor Orezzoli e Claudio Segovia si ascriva il merito di aver risuscitato il tango ballato sul terzo pianeta del sistema solare. Ma chi l’ha visto degli inizi, cioè nel 1983, sa bene che tale riesumazione ha riguardato soltanto il tango-show, ossia quello specifico format di tango depistato che fino ad allora si era visto esclusivamente nei locali per turisti e in televisione. Insomma, in Tango Argentino non c’era niente di vero, nemmeno mezzo milonguero. C’era sì Virulazo, ma ballava una coreografia obbrobriosamente falsa, che si chiudeva con una pacca sul sedere di Elvira, un gesto che nessuno si sarebbe mai sognato di fare se non per esigenze di copione. Eppure deve esserci - mi dicevo - un tango ballato con diversa scienza, magari in un patio, tra le lacrime di un dopocena, ma vivo, quotidiano, poetico, impastato di realtà e fedele ai vecchi sogni. E se questo tango truccato da vita esiste, va cercato nella milonga, nella sua circostanza, va applaudito nel suo habitat naturale, proprio come un ciliegio. Che ne sa un ciliegio delle trame e delle azioni, del palcoscenico e dei suoi artifici, dei suoi minuti contati, della prospettiva, della gravità, delle leggi naturali sfidate dalla danza?
E uno dei grandi alberi allora in attività era Gerardo Portalea, l’Addetto Allo Sfarzo del cimitero della Chacarita. Un esponente di quello stile, detto sbrigativamente di Villa Urquiza, che tanto è stato ammirato, copiato e soprattutto, frainteso. Eleganza, fantasia, creatività, musicalità ne erano le caratteristiche generali; Gerardo Portalea di suo aveva aggiunto la sottrazione.
Gli altri milongueros dicevano che ballava a tre velocità: lento, fermo e aspetta-un- minuto. Il motorismo foruncoloso del cosiddetto tango nuevo non gli toglieva l’appetito: questi li ammazzo con un silenzio, diceva come Troilo quando gli mettevano davanti un qualche mitragliatore di note. In effetti, Portalea ballava come un libro stampato, un passo ogni dieci secondi, una figura ogni trenta pagine. Aveva uno stile molto camminato e meditabondo, perché camminare e pensare in fondo si somigliano: si procede in entrambi i casi da uno squilibrio all’altro. Era un membro onorario della sofisticata peripatetica porteña, amava il tango stazionario, ma lo ballava con il fragore nel sangue. Al contrario degli altri Gran Visir di Villa Urquiza, abbelliva la danza di malavoglia. Niente ghirlande: il suo tango era prosa, non poesia. In una notte intera al Sin Rumbo, poteva ballarti una sola tanda, a volte un solo pezzo, e neanche tutto, dopo una meticolosa carburazione da seduto. Prediligeva l’unanime Di Sarli e le sue risacche di madreperla. Aspettava l’ondata, la breve burrasca di violini e bandoneón, e ti faceva vedere alla moviola il risucchio delle conchiglie, una per una, con una semplice chiusura sul passo laterale.
Il pavimento gli voleva bene, l’aria intorno a lui sembrava più densa del normale, ma era lo stesso trasparente e bella, come quella in cui risiedono le rondini di Shakespeare. Ballava anche quando stava all’ancora, con il leggero beccheggio di un tre-alberi che aspetti in rada il vento giusto.
Nonostante il nome da guardalinee, Portalea lavorava al cimitero della Chacarita. Come da noi, anche a Buenos Aires tra certe milonghe e il camposanto spesso non c’è che una differenza di colectivo. Col 78 lui andava al lavoro. Era un addetto allo sfarzo. L’espressione risale all’Ottocento quando erano state formalizzate le Pompe Funebri. Ancora oggi, a Napoli, è possibile andarsene alla grande su carrozza ippo-trainata, con una cerimonia di sfarzo, o mezzo-sfarzo, e una serie di addobbi, fasti, dettagli stilistici che vogliono riassumere o ribadire o escogitare la personalità del defunto nel suo ultimo viaggio. Gerardo Portalea si occupava di tener in ordine le tombe di chi lo sfarzo non poteva permetterselo, ripuliva le lapidi, cambiava l’acqua ai fiori, viveva delle mance dei parenti. Una volta ebbe la civetteria di farsi intervistare nel suo ufficio, un tavolino sotto il porticato dei loculi, sempre con la sigaretta in mano: il fumo passivo lì non danneggiava la salute di nessuno. Le troupe di “Tango baile nuestro” e del National Geographic lo hanno filmato così, simpatico e filosofante, come deve esserlo per forza uno che bazzica il bilico della vita. “Qua penso sempre al tango, mi immagino dei passi, delle figure... mi faccio prendere dall’ispirazione”.
ll Clarín invece, per quel che valgono queste classifiche, l’ha eletto tra i quattro ballerini più influenti del nuovo millennio. E dire che tra il 72 e l’86 era stato per quattordici anni senza ballare. Finito, che era ancora più suscettibile, per venti. “Avevo perso il gusto - racconta Portalea - così sono andato dallo psicoanalista per sapere perché. Ci sono andato per due anni. Alla fine, mi ha trovato lui il rimedio: il tango! Ma guarda un po’... Se volevo guarire, dovevo ballare il tango, che era la causa e la cura del mio male”. Se non è filosofia questa...
Nel 2001 Robert Duvall, suo grande ammiratore, gli ha dato una particina in “Assassination Tango”. Lo si intravede con una zoot-suit bianca e il suo solito garofano all’occhiello, un garofano per una volta di provenienza non tombale. Negli ultimi tempi, il re del tango a rilento aveva ulteriormente decelerato l’andatura: non si poteva ballare meno di così, pur ballando. Se ne è andato un giorno prima di Napoleone, il 4 maggio. Ora credo che sia alla Chacarita, tra i suoi ex-clienti, a provare i passi nuovi, a trovare nuove sfarzose figure, i fiori raddrizzati dall’interno...
29 giugno 2020
Addetto allo sfarzo
di Marco Castellani
Radio Tango Macao non vive di pubblicità. La creazione dei contenuti richiede un grande impegno. Se apprezzate il nostro lavoro, vi chiediamo di sostenerlo con una piccola donazione.