Un grande poeta, Giacomo Noventa, ha scritto un disclaimer per i poeti. Ha scritto: non firmeremo tutto il dolore di questo mondo con i nostri piccoli nomi. Un piccolo nome del tango, invece, perlomeno il dolore dell’esilio l’ha firmato. Si chiamava Carlos Carlsen e questa è la sua storia.
Durante le tournée facevamo un giochino.
Se doveste scegliere una sola pietanza da mangiare tutti i giorni, una sola canzone da ascoltare tutti i giorni, un solo attore, una sola poesia, un solo libro, una sola barzelletta da sentire tutti i giorni... quali sarebbero le vostre scelte?
Carlos Carlsen avrebbe pasteggiato a “puchero” (quello di sua madre o quello del Globo di Avenida de Mayo, prediletto da D’Arienzo e da Pugliese), avrebbe ascoltato pazientemente “Tristezas de un Doble A” in una qualsiasi versione di Piazzolla, avrebbe amato soltanto Anna Magnani e avrebbe sopportato volentieri quella poesia di Onetti “della vasca da bagno”, che per sua fortuna non sono mai riuscito a identificare. Quanto alle barzellette, il giochino aveva trovato un’immediata applicazione del famoso chiste di Goyeneche, che Carlos si era fatto tradurre in italiano per poterlo eseguire nei bar dei nostri teatri. Ordinava un bicchiere di vino e quando il cameriere gli chiedeva bianco o rosso? rispondeva: sorprendimi. Io invece lo condannavo tutti i giorni ad ascoltare un barzelletta molto nota nell’ambiente.
Senti Carlos, c’è un musicista di tango che va da una chiromante. La chiromante gli guarda la mano e gli dice: ho una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che quando morirai andrai nel Paradiso della Musica e farai parte della Grande Orchestra Celeste di Tango, con Aníbal Troilo e Pedro Laurenz ai bandoneón, Orlando Goñi al piano, Alfredo Gobbi ed Elvino Vardaro ai violini (gli mettevo i suoi musicisti preferiti). E la notizia cattiva? Oggi pomeriggio alle cinque hai le prove.
Cavallerescamente, Carlos accoglieva la battuta finale con la risata franca della prima volta.
L'essenzialità è difficile da raggiungere, diceva Céline, perché i fronzoli oppongono una gran resistenza. Forse è per questo che Carlos ha composto un solo, unico tango, uno sfolgorante pezzo in 7/4. In questo tango c’è molto più di Carlos di quanto ci sia di Vivaldi nei suoi 700 concerti: un certo grave distacco, un’emozione lancinante e volutamente ignorata, “sobrada” si direbbe, senza alcuna possibilità di tradurlo, a Buenos Aires. Perché Carlos era così, intenso e “cool”, come ogni vero tanguero dovrebbe essere. Detto quel che va detto, il resto sono appunto i fronzoli.
Del nonno danese, marinaio di fiordi e cieli boreali, ma arenatosi sotto quelli australi agli inizi del secolo scorso, Carlos ha trasmesso gli occhi di fiordaliso ai suoi due figli: Cigne (Cigno, un altro simbolo di bellezza e di eleganza cool), e Carlitos, come lui e Gardel. Quegli stessi occhi che per quindici anni hanno fatto di lui il “bello” del Cuarteto Cedrón, trasparenti al punto da non riuscire a nascondere un opaco dolore laggiù in fondo.
La sua vita artistica non era cominciata con la musica, ma con il disegno: aveva frequentato per qualche anno la Escuela Panamericana de Arte e studiato con i due geni, Alberto Breccia e Hugo Pratt, che dirigevano, quando c’erano, l’istituto. Alla musica era passato successivamente, dapprima come ammiratore abusivo di Piazzolla e Rovira, di cui seguiva le gesta semi nascosto sulle scale del Gotán di Talcahuano 360, e poi come chitarrista. Quando il contrabbassista Jorge Serraute lasciò il Cuarteto Cedrón, Carlos non ebbe problemi a rimpiazzarlo con il violoncello. Del resto aveva molta facilità con gli strumenti a corde e un talento naturale per la musica. Se molti musicisti argentini hanno potuto studiare nella loro lingua sui libri di teoria di Paul Hindemith, evitando gli antiquati Athos Palma e Walter Piston, lo devono alla spontanea traduzione dall’inglese che ne aveva fatto Carlos. Così, senza che nessuna casa editrice glielo avesse richiesto, tanto per darsi il gusto. Sue sono anche le trascrizioni per quartetto dei più asimmetrici temi di Rovira, come per esempio A Luis Luchi, che ancora oggi si suona nella sua versione.
Vennero poi gli anni dell’esilio a Parigi, i trionfi internazionali, i dodici dischi per la Polydor, l’infinità di concerti di solidarietà con una America Latina mai così martoriata.
Carlos visse l’esilio da esiliato, “non piantò chiodi nel muro e buttò la giacca su una sedia”, nella speranza di non mettere radici tanto lontano da Caballitos. Quando non era in giro con il Cuarteto, se ne stava nel barrio della Gare du Nord, in una rue Dunquerke che guardava idealmente verso il Baltico. Alcuni giovinastri del quartiere, vedendolo rincasare a ore strane con gli strumenti in spalla, lo invitarono a suonare nel loro gruppo jazz. Dopo due pezzi, era già diventato il loro Scott La Faro. In quel garage della bohème parigina, in quelle notti di alcol e musica sincera, Carlos era infatti nel suo elemento. Ricercava la compagnia degli outsider, i disarcionati, quelli che della metropoli custodiscono l’innocenza. Oppure frequentava il Rosebud, un locale di malavita vicino alla stazione di Montparnasse. Era questo un ritrovo di macrò e spogliarelliste senza pensione: angeli notturni che sapevano apprezzare una traumatizzante zuppa di cipolle, unico piatto della maison, alle quattro e quarantacinque del mattino e raccontare storie simili a quelle che, a quel tempo e a quell’ora, si potevano ancora ascoltare nei caffè dell’Avenida Corrientes.
Dopo il 1986, anno del dissolvimento della formazione storica del Cuarteto, Carlos seguì César Stroscio nel Luis Rizzo Cuarteto e poi in Esquina. Se volete avere un’idea di che grande musicista fosse Carlos Carlsen, ascoltate il suo basso elettrico in “Tristesse” e in “Esquina”, i dischi prodotti dalla Materiali Sonori. Un tocco delicato e carnoso e un timing “tanguero como la puta madre”.
I tour in Italia erano per lui come un’immersione in De Sica e Rossellini; di noi amava i difetti nazionali, il gesticolare, le inflessioni dialettali, l’improvvisazione. Gli piacevano i nostri necessari miracoli. Riconduceva tutto ciò che vedeva al cinema neorealista, che per altro conosceva molto meglio di me, a “quel film che con un lucchetto non sarebbe esistito”. Un giorno a Firenze vide Marcello Mastroianni, uno dei suoi idoli e idolo di tutta l’Argentina, mentre stava girando un film. Restò estasiato. In una pausa della lavorazione, si fece coraggio e gli si avvicinò per invitarlo al concerto di quella sera. Mastroianni lo accolse con grande simpatia e conversarono di Buenos Aires per dieci rapiti minuti. Peccato che al momento buono Carlos non si ricordasse più il nome del Teatro. L’Italia era davvero un paese in cui gli sarebbe piaciuto appendere la giacca.
Nel 1992, il debutto a Parigi dell’allora Cuarteto Esquina fu una sensazione: otto settimane di tutto esaurito alla Vieille Grille, la boite di Leo Ferré dall’insuperabile reputazione anarchica. Carlos e César rividero tutti i vecchi amici di quindici anni prima, i fuoriusciti, i compagni di tanti concerti di lotta. Di nuovo sulla cresta dell’onda viva, l’unica che per lui significasse qualcosa, Carlos deglutì come un banchiere otto settimane di coquelet: sì, avete indovinato, il solo manicaretto che il cuoco del restaurant fosse autorizzato a servirci.
Negli anni successivi, le sue condizioni di salute peggiorarono. Nel 1995 non fu più in condizione di suonare in Esquina, e ancor meno di affrontare le lunghe tournée intorno al mondo con il Festival Womad di Peter Gabriel. Tentò anche la disintossicazione dall’alcol, passando un anno a Puertorico dalla sorella. L’ho rivisto nel 1997: stava bene, abbiamo bevuto insieme una birra analcolica davanti al Centro Pompidou e riso ancora una volta con le stesse barzellette. Suonava con chi lo chiamava, piccole cose. Aveva ripreso la chitarra, quella Ramirez che era stata motivo di forte disputa con Juan Cedrón e che entrambi sostenevano di aver ricevuto in dono da Paco Ibañez. Era sempre gentile, dolcemente ironico, romantico, incolpevole. Siamo andati persino a un ristorante macrobiotico dietro la chiesa di St. Germain. Abbiamo preso tutti e due un “assiette seitan”, ma potevamo prendere molte altre cose.
Mi hanno detto che negli ultimi tempi, quando era immobilizzato a letto, si era fatto portare l’occorrente per dipingere: già non poteva più nemmeno suonare. Ora le sue ceneri sono al Père Lachaise, ma suo figlio le porterà presto a Buenos Aires.
Chau, Carlos, è stato un piacere. Ricordati che oggi pomeriggio alle cinque ti aspettano per le prove.

In foto Carlos Carlsen, Paris 1990
Foto di Giacomo Bretzel