Se Isaac Newton, anziché nella civile Inghilterra, fosse nato in un conventillo di Pompeya, avrebbe inventato tutt’al più il grimaldello. Se Pedro Alberto Rusconi in arte Tete fosse nato, mettiamo a Manhattan e non in un conventillo di Pompeya, sarebbe stato ugualmente un grande ballerino.
Ballerino, e non coreografo, perché al Tete non andava di ballare per interposta persona. La coreografia è pensiero, distacco, scarto; lui invece la vita la voleva ballare seduta stante, attimo per attimo, scarti compresi.
Dei suoi trascorsi dico il meno possibile, innanzi tutto perché il Tete non aveva bisogno di idearsi un’autobiografia, come certi milongueros che si vedono esigui, non aveva bisogno di darsi peripezie e trofei. Come tanti di noi, aveva vivacchiato di molti lavori, alcuni dei quali avevano talora rasentato l’onestà. D’altronde, chi non è mai incappato in un qualche galantomismo? Strano a dirsi, ma i suoi erano tempi in cui nessuno ti pagava per ballare il tango.
Da piccolo Tete era stato canillita, ossia strillone, poi factotum di strada e portiere abusivo nei saloni del centro; da grande, era stato facnientum a inquadramento statale. Sapete com’è, per la pensione, l’assistenza sanitaria.
I bene informati ci dicono che la gioventù è fatta di molti sogni intransigenti. Tete invece ne ha sempre avuto uno solo di sogno, un solo sogno pratico e cordiale: introdursi nel salón e partecipare da dentro alla sua liturgia ballabile. Una volta compiuti i diciotto anni, nessuno è riuscito più a tenervelo fuori, nemmeno i ricoveri in ospedale, da cui si assentava con il metodo dell’involtino notturno.
Alla milonga era uguale: sembrava che dormisse lì. Voi avete mai visto il Tete entrare o uscire da una milonga? Io no: quando arrivavo o c’era già o emergeva improvvisamente in pista, come da un cunicolo. Se cambiavo milonga, era già là. Doveva conoscere dei passaggi segreti.
In pista si muoveva a occhi chiusi. La sua danza era smussata, senza spigoli. Ballava sempre più che poteva, anche in spazi coatti o densamente antropizzati. Era sempre nel flusso. Se c’era un ingorgo, filtrava come rugiada tra gli intasati e si materializzava più avanti. Trenta anni fa, tutti i buoni milongueros padroneggiavano questo e altri misteri specifici. Oggi invece dettano galatei. Pensateci su.
Il tango gliel’avevano insegnato in due: sua madre e la strada. Sulle mamme ci sono tanti proverbi, ma dalle mie parti si dice che se non conosci la strada, la strada non conosce te. Aggiungete musica alla strada, carezze alle carreggiate, ed ecco che avrete il tango del Tete.
Ma tutti, a quei tempi, erano trasportati, rapiti, accaparrati dalla musica: ne aspettavano le ondate e agivano di conseguenza. C’erano poche ragazze, questo sì; gli uomini ballavano tra di loro o con i ragazzi omosessuali del Club Franja de Oro, ad esempio, frangia d’oro, che era, tra le altre cose, una pettinatura in vigore anche a Pompeya. Poi è arrivato il rock and roll con i suoi ciuffi e tutti hanno traslocato al Club del Clan. Tete era un asso del rock, un idolo per i suoi coetanei. Anche a sessanta anni sapeva fare la spaccata e risorgere, riguadagnare la quota semplicemente chiudendo le gambe. Aveva degli adduttori spettacolari.
Al tango era rincasato per intero nei primi anni 90, quando aveva conosciuto Maria Villalobos. Si trovavano di pomeriggio per provare. Una volta era importante fare bella figura alla milonga. Così Tete ne approfittava per ballare anche gli attimi anticipati, oltre a quelli regolamentari.
E poi bella figura la facevano davvero: entrambi, alti, gambe lunghe, portamento, erano persino romantici, fieri del loro charme screpolato e senza ciprie. Turbinavano sui parquet come quei mulinelli di mugre e fiorellini che si vedono a primavera. Erano ammirati e anche un po’ invidiati. Una loro diciamo amica avrebbe dato il suo visone per rimpiazzare Maria, ma il Tete non l’ha mai considerata, scusate il termine. Ballava in parole troppo povere.
Invece Maria era di una bellezza ellenica, di quelle bellezze che varano le navi, regina del Mau Mau, occhi che sembravano la pila del dottore, verdi come la bile di chi non li aveva visti. Era stata una fotomodella nella presunta moda argentina. Ed era stata anche una militante, coraggiosissima, anche negli anni feroci della dittatura. Aveva fatto parte di una rete clandestina di protezione per quelli che erano sulla lista nera dei militari. Il suo appartamento della Calle Paraguay era uno dei rifugi, ci aveva nascosto anche il poeta Paco Urondo. Era rischioso per Maria, ma lei non aveva paura di niente, andava sempre al frente, come si dice.
Le piaceva Troilo, anzi lo venerava fino al monoteismo, ma poi aveva sposato un chirurgo, un luminare, un Bernardo. Morto lui, aveva comprato una lunga casa coloniale in pieno San Telmo, con un gelsomino formidabile che faceva da tetto al patio. L’aveva ristrutturata da sola, comandando a bacchetta delle maestranze reclutate per strada, e l’aveva ammobiliata con i reperti di Emmaus. Ci era andata poi ad abitare con il figlio, che lei chiamava El Aparato.
E infine si era buttata nel tango come ci si butta in un fiume. Andava tutte le notti alla milonga, ne cambiava anche tre o quattro a notte, a seconda dei ballerini che trovava o non trovava, spostandosi sempre in taxi, come una Rothschild. Da brava militante, sapeva quali milongueros evitare, a quali negare il saluto. Le piste erano ancora infestate di delatori, per non dire di peggio, nomi che vi stupirebbero.
Buchón, era il suo insulto più grave. Tornava a casa a ore polemiche e aspettava l’alba nel patio, con i gelsomini che le cadevano addosso come spasimanti e fumava, e parlava e rideva. Le domandavi: com’è andata stasera Maria? Le risposte possibili erano soltanto due, due come gli emisferi: "no había ni medio bailarín” oppure “bailé como una hija de puta”. Di quelle sue storie avevo pensato di fare un libro, avevo già il titolo pirandelliano “Milonghe per un anno”, e i protagonisti: Tomy, il milonguero tassista che nessuno ha mai visto con un cliente a bordo e che, ci crediate o no, è l’inventore segreto del traspié, il Gato Bernasconi, gamba di plastica e 48 di piede, gli adorni a pito muerto, a cazzo morto, della Miller, l’abbraccio soprelevato di Colectivo Lleno, Tumba Etrusca, per via dell’alito. In pochi tratti Maria radunava nel suo patio tutta la commediola umana.
Ma nel frattempo il tango aveva perso le stelle guardiane e nessuno si orientava più. Venivano scrutate le costellazioni minori, consultate le insegne commerciali, creduti gli imbonitori. Ci era voluta Pina Bausch per ottenere l’estradizione del Tete in Europa. Mentre il Teatro Colón assisteva imperterrito alle sottovesti e ai mutandoni di jersey della coreografa tedesca, lei si dava al turismo nel nostro emozionante underground. Degli spiritosi l'avevano portata prima nel mio barrio per scuoterla con i senzatetto, poi alla Radio Colifata per turbarla con i degenti disc-jockey e infine alla vecchia sede del Parakultural per darle il colpo di grazia con il tango dei pregiudicati. Sopra quelle barriere architettoniche, Maria e il Tete avevano ballato per lei, per Pina Bausch, e qualche giorno dopo avevano ricevuto un fax d’invito a Wuppertal: un “fà di Pina Bau”, secondo l’essenziale pronuncia del Tete e di Cattivik.
Il resto della storia probabilmente vi è noto. La Compañia Tangueros li aveva portati in Italia nel 1996 con Milonga Boulevard, il balletto di tango tratto da Julio Cortázar. Mariachiara aveva scelto per loro Malandraca e Desde El Alma. Di nuovo i mulinelli di gelsomini e polvere di strada, le gambe che potevano essere piuma e potevano essere fero. Poi, di colpo, si erano separati al Grand Hotel Savoia di Genova con parole visibili di camallo. Per una questione di principio, una sigaretta chiesta con malagrazia.
Ritornata a Buenos Aires, Maria si era inventata la geniale milonga pomeridiana della Confiteria Ideal che intercettava i facili assenteisti della City e le dava modo, almeno il mercoledì, di ballare come una hija de puta. Alla cassa ci aveva messo l’Apparato. E alle cassette, lo avrete indovinato, Grand Master Felix, suo grande amico.
Il Tete, invece, aveva continuato l’andirivieni e affiorava misteriosamente nei saloni di tutto il mondo, sempre rivendicando a gran voce abbraccio di bambagia e supremazia della musica. Come i tenori italiani, voleva avere ragione anche quando nessuno gli dava torto. Ballava con Silvia, che gli voleva bene e tanto gli bastava.
Si era preso altre soddisfazioni: aveva concesso a Pina il vals finale di Danzón al Théâtre De La Ville di Parigi e aveva partecipato a Wuppertal alle celebrazioni del ventennale del Tanztheater. Per una volta se n’era stato quasi seduto, davanti alle migliori compagnie del mondo, quelle che riescono a mettere in palcoscenico un rinoceronte vero e a trattare i milongueros da colleghi.
E puntualmente a gennaio, a ogni suo compleanno, gli è sempre arrivato un fà di Pina Bau.

Prove di Milonga Boulevard, Torcuato Tasso, Buenos Aires 1995 - Foto di Pino Ninfa