Se non dovessi tornare
sappiate che non sono mai partito
Giorgio Caproni
Dal congestionato osservatorio di un aleph situato in un sottoscala tra San Telmo e
Constitución, un personaggio di Borges vide tutto l’universo. A poche cuadras di
distanza, in un teatro di Corrientes, Luis Rizzo vide molto di più. A volte capita,
anche nel mondo opportunamente sistemato fuori dai libri, che a un uomo sia
concesso il momento non diluito in cui vede sé stesso, sa chi è e che cosa lo fa
sentire vivo. Era il 1954, Luis aveva nove anni. Sua madre, catanzarese e troileana,
lo aveva portato a vedere El Patio de la Morocha, il musical sulla leggenda di
Eduardo Arolas. Molte volte, negli occhi di Luis, ho rivisto quell’Aníbal Troilo magro
che coniava uno dopo l’altro tanghi d’oro zecchino. E intorno a lui la Buenos Aires
delle mille orchestre, delle serenate, dei quattro dollari per fare un peso. Con una
mezza minerale, potevi stare un pomeriggio al Café Marzotto ad ascoltare
Pugliese. Cosa ci siamo persi, ragazzi! In quello spettacolo, con Troilo aveva
debuttato Roberto Grela, chitarrista a plettro e accompagnatore di cantanti di poco
destino. Due anni prima, i due avevano suonato La cachila per radio e avevano
fatto piangere le anime sensibili, essendo loro fra queste. Tango da patio, dicevano
i detrattori; ma chiunque abbia conosciuto la vita di barrio, quei cortili segreti,
quelle riunioni del vicinato con stelle e gelsomini che cadono nei bicchieri, sa che è
proprio nei patio che il tango ha trovato il suo popolo, il suo primo mandato
sociale. Proprio qui, al piccolo bagliore delle lampade a cherosene, il tango ha
scritto il vocabolario della Buenos Aires scesa dalle navi. E a Luis, cresciuto in un
patio di Liniers popolato da una dinastia di zii milongueros, nonne canterine,
musicisti nottambuli, poeti operai, pittori da pennellessa, amici armeni, baschi e
non meno calabresi, questo tango risuonò subito familiare. Un bambino non ha
ancora motivo di dubitare di ciò che sente, per lui le fiabe rasentano la realtà. La
sua vita sociale di breve gittata, chiusa dai muri del cortile, sviluppa presto una sua
vaga astronomia. Per Luis il tango marcò subito la soglia tra il vivere e il sognare,
una fascia intermedia, una zona di riporto, come diceva Vittorio Sereni, abitata
tanto dalle quadriglie di chitarristi quanto dai personaggi dei novelones radiofonici
o delle Acqueforti di Roberto Arlt. Come Dumas padre, anche Luis pianse quando
morì Porthos. Nella sua stanzetta in fondo al patio, accanto a un orto di prevedibili
pomodori, Luis istruì la sua chitarra a suonare i tanghi di Troilo e anche tutti gli altri.
Nell’epoca delle grandi orchestre, il tumulto dei cortili aveva apparentemente
sbagliato strumento. Ma la storia, che ama le sincronie, mentre imponeva al
giovane chitarrista lunghe ore di pratica in un rione di case basse a Buenos Aires,
nella alta Chicago preparava l’abisso dell’Argentina. Di lì a poco, mani invisibili
avrebbero suonato l’arrangiamento sudamericano su ben altri strumenti: la
spoliazione dell’economia, la corruzione, l’annientamento degli oppositori, il golpe
militare, la distruzione del tessuto sociale, lo stato di crisi permanente. Dopo il
1956, la maggior parte delle magnifiche ma dispendiose macchine orchestrali si
disintegrò in una miriade di piccoli gruppi; nelle milonghe si cominciò a ballare con
i dischi, ovvero con quel che già era passato; il tango ancora incolume trovò riparo
nei club che nel frattempo si erano moltiplicati. In quelle esigue dimensioni, la
chitarra tornò ad essere protagonista. Perfino l’aristocratico Borges scrisse in versi
ottonari le sue elegie Para la seis cuerdas nella speranza di arrivare al popolo e alle
sue chitarre.
Ma doveva essere un altro maestro a rendere adulto Luis e adulto anche il tango:
Astor Piazzolla e il suo Quinteto Nuevo Tango. Luís era lì sul posto, intuì che più
che una rivoluzione si trattava di un passaggio di testimone. La Buenos Aires
cattiva, dalle notti ghigliottinate dal coprifuoco e con i carri armati ad ogni esquina,
esigeva una musica all’altezza: l’idillio era circondato, le dolcezze del vecchio
tango si screpolavano sotto le dita dei musicisti. Piazzolla aveva fatto capire a tutti
loro il significato e la responsabilità di essere un artista popolare, l’importanza dello
studio. Luis, entusiasta e permeabile come tutti a quell’età, aderì al nuovo modello
perfezionando la sua tecnica con Julio Ferreyra e Roberto Lara e studiando
armonia con Pedro Aguilar, professore di tutta l’avanguardia. Più tardi, sulle orme
di Horacio Malvicino, si comprò una Repiso elettrica e un amplificatore. Si sentì
pronto: un militante del tango, o meglio della Musica Popular de la Ciudad de
Buenos Aires, come Astor, con una tautologia diventata famosa, l’aveva
ironicamente battezzato.
L’attenzione di Luis non si rivolse solo alla musica, ma a tutte le arti che presumeva
nobilmente popolari: il cinema, innanzi tutto, e poi la boxe. In quella che Fortini
chiamava “la viltà del dopocena”, quando nei ristoranti si girano le sedie sui tavoli
e i teatranti seguono un improvviso filone d’oro nella conversazione, Luis sapeva
ricostruire le inquadrature del padrino Marlon Brando nella “più bella morte
cinematografica di tutti i tempi”, o i colpi salienti di un match di Nicolino Locche,
l’intoccabile stilista del ring. Non solo: tirava fuori la chitarra e ci cantava l’agra
felicità dei vecchi tanghi. E ogni volta, a dodicimila chilometri di distanza, rifioriva il
suo patio.
Del 1966 è il suo primo ingaggio importante, nientemeno che nel Trio di Osvaldo
Manzi, il quale ebbe il merito di fargli sperimentare le durezze e le crudeltà del
mestiere. Tre mesi di prove quotidiane per un solo concerto. Manzi era un
perfezionista maniacale, oltre che un genio del pianoforte. Pianista di Troilo, del
Quinteto di Piazzolla, di Rovira, sostituto dell’insostituibile Pugliese, el loco Manzi
più che delle prove teneva delle conferenze: sulla sincope, sul fraseggio,
sull’intenzione che ogni suono doveva avere. Luis imparò moltissimo: la
professione, naturalmente, ma anche che il palcoscenico è un mostro pronto a
sbranarti. Negli anni europei, al chi è di scena usava la scaramanzia di bussare ai
camerini con un cavernoso C’est l’heure, è l’ora, come il boia di Parigi.
L’esperienza con Manzi gli trasmise anche l’onore della scrittura: ecco un altro
compito dell’artista popolare, che suona un tango solo se può darne
un’interpretazione personale, se cioè può contribuire con qualcosa di suo al bene
di tutti. Basta guardare la discografia dell’epoca per accorgersi dell’osmosi
continua tra il vecchio tango e il nuovo, checché ne abbiano poi detto i teorici degli
spalti contrapposti. Luis amava in egual misura Troilo e Piazzolla; giurò che
sempre, nelle sue composizioni, sarebbero state presenti tanto l’estremistica
territorialità del primo, che non volle mai conoscere la malinconia dei piroscafi,
quanto il furore e lo slancio universale del secondo.
E così, quando nel 1969 il 1968 arrivò a Buenos Aires, fu l’establishment tanguero
a dover fare i conti con le istanze di questi giovani e preparatissimi musicisti.
Come le altre istituzioni, il tango ufficiale preferì ricevere battaglia sul piano del
costume. Oggi è normale, e forse commercialmente necessario, che una band
schieri dei bandoneonisti coi dreadlocks e che per front-man abbia un druido, ma il
perbenismo di allora imponeva pettinature sobrie e una cravattina. Per entrare con
Pugliese, Mosalini, Binelli e Mederos dovettero radersi la barba e accorciarsi i
capelli. Naturalmente il conflitto era di ordine formale, filosofico e sociale: anche
attraverso il tango questi giovani si proponevano di cambiare il mondo. A
differenza dei loro maestri però, avevano nozione del carattere complessivo della
lotta che li attendeva.
La formazione del Quinteto era insolita: due bandoneón, chitarra e basso elettrici,
batteria. Il primo disco corsero a portarlo a Troilo, che li accolse come colleghi:
“Grazie, ragazzi. Lo ascolterò con piacere. Stasera ho la scusa buona per un bel
bicchiere di whisky”. Del resto, anche Pichuco aveva avuto dei problemi con i
retrogradi della milonga. Durante una delle sue note stirate, un ballerino, che era
rimasto con un piede sospeso a mezz’aria, lo aveva apostrofato: “Maestro... e
adesso cosa faccio con questo?” Evidentemente, anche allora i duri d’orecchio
esigevano un ritmo ben marcato.
Intorno al 1972, a pochi passi dal baratro, il tango da ascoltare faceva presa sul
pubblico nuovo delle università e dei club di barrio piuttosto che sugli imborghesiti
milongueros. Guardia Nueva e gli altri giovani gruppi si trovarono spesso a
condividere il palcoscenico con i vecchi idoli. Una volta a Troilo si ruppe lo
strumento mentre suonava. Mosalini, in attesa tra le quinte, gli prestò il suo. Alla
fine, Pichuco lo ringraziò: “Che bel bandoneón, pibe. Dove l’hai preso?” “Me l’ha
venduto Ernesto Baffa”. E Troilo: “Che ingrata è la gente. Io questo bandoneón a
Baffa glielo avevo regalato”. Ogni volta che Luis raccontava questa infamia, gli si
incendiavano gli occhi. Guardia Nueva finì poi per sciogliersi per colpa dell’aut-aut
di Pugliese. Tagliarsi la barba non bastava, dovevano lasciare quel quintetto di
sovversivi. Il Partito Comunista Argentino, a cui Pugliese era affiliato dal 1937, era
molto ligio alle disposizioni da Mosca. Luis non mancò di sorridere alla ritirata di
questi alfieri dell’avanguardia, tutti chiacchiera e distintivo, ma in realtà sempre
pronti a rientrare nei ranghi.
Lui invece tenne duro, dapprima con il Trio Contemporaneo di Domingo Moles e
con l’Octeto di Osvaldo Piro, poi come solista di chitarra. Questo negli anni della
pálida, della Triple A, del Brujo, del terrore di Stato. Durante il regime militare
sopravvisse accompagnando i cantanti. Il tango era rannicchiato in poche
milonghe e vilipeso in televisione; i musicisti minacciati o costretti all’esilio.
Piazzolla invece, portabandiera della coerenza altrui, non lesinò il suo apporto al
circo sanguinoso del Mondiale del 1978 con un disco poi timidamente rinnegato.
Luis fece un ultimo tentativo per restare in Argentina, preparando un numero di
chitarra per El Viejo Almacen di Edmundo Rivero. Il grand’uomo lo convocò di
pomeriggio, ma si fece aspettare quattro ore: prima doveva mangiare, provare Sur,
sbrigare le incombenze del locale. Quando scese e si dispose di malavoglia ad
ascoltare, Luis mise via la chitarra: “Quando lei era in difficoltà, diciamo pure nella
merda, fu Troilo a tirarla fuori. Lei deve tutto a Troilo. Sono sicuro che lui non le ha
mai fatto fare un’anticamera di quattro ore.” Era il 1981 e Pichuco era già morto da
sei anni. Luis aveva ora una moglie, un figlio piccolo e una chitarra. Quella del
piroscafo, più che una malinconia, fu per lui un dolore straziante.
Foto di Lucia Baldini, 1993