I primi anni di Luís Rizzo sotto il cielo al revés di Parigi furono quelli durissimi di ogni esule che si rispetti. Una stanzetta in affitto dal vecchio compagno Mosalini, già ben sistemato dal 1977 e ritornato peloso in tutto, anche nell’aiuto; i lavoretti del repertorio dignitoso; le difficoltà di una lingua che sembrava una presa in giro, ma anche le meraviglie della società organizzata e delle sue brioche. Non sto nemmeno a dire cosa gli mancasse di Buenos Aires: persino il sapore dei pomodori francesi lo prendeva come un’offesa personale. Della comunità dei fuoriusciti argentini ci si poteva fidare solo fino a un certo punto: era piena di infiltrati, c’erano stati omicidi e sequestri, i servizi segreti colpivano impunemente anche nella Mecca dei diritti umani. Che questa fosse la seconda patria del tango, che qui abitassero Cortázar, Saer, Soriano e tanti intellettuali e musicisti argentini, non aiutò Luis a integrarsi. Anzi, a Parigi ritrovò le stesse polemiche del decennio precedente. Quando poi arrivò la valanga di Tango Argentino al Festival D’Automne del 1983, per Luis il tango ritornò indietro di quaranta anni. In qualche modo, il successo planetario della naftalina corrispose alla restaurazione del tango imbalsamato e passatista che la generazione di Luis aveva combattuto. Una bella rivincita della cartapecora. Di buono c’era, ovviamente, il ritorno della democrazia in Argentina e un aumento del lavoro in Europa. Luis mise su un trio, il primo con il suo nome, che diventò la formazione stabile al Trottoirs de Buenos Aires. Aprì, aiutato da un clamoroso intervento di Osvaldo Ruggiero su Julián Plaza, una posizione alla Sacem, la società degli autori francesi, e si dedicò a scrivere la sua musica. Nel 1986, dopo una tournée con l’Octeto di Osvaldo Piro, arrivò finalmente l’occasione per incidere il primo disco con gli arrangiamenti di alcuni classici e un paio di composizioni originali. Tangos d’hier et d’aujourd’hui uscì per la Circé, l’etichetta del suo amico e produttore Robert Prudon. Un altro amico di Luis e del tango, Michel Anfrol, conduttore di Radio Latina, contribuì alla sua diffusione. Durante la registrazione, Luis si trovò a fronteggiare quello che è sempre stato il grande problema fuori da Buenos Aires: la scarsità di musicisti idonei. Il bandoneonista uruguaiano Daniel Cabrera, soprannominato il Farmacista, lo piantò in asso a metà del lavoro. Questa volta Mosalini intervenne da par suo e risolse la questione in un solo pomeriggio professionale. Di più: gli diede il telefono di un bandoneonista vero. César Stroscio, troileano, rovirista, poeta e libertario del bandoneón, già dal 1976 si trovava esiliato a Parigi. Con il Cuarteto Cedrón aveva cambiato i connotati al tango d’autore, ma dal Tata si era appena separato dopo un sodalizio durato venticinque anni. Alla chiamata di Luis, si portò dietro il bassista Carlos Carlsen. Nacque così il Luis Rizzo Cuarteto, un gruppo che nel decennio successivo avrebbe giocato un grande ruolo nel tango concertistico. E proprio l’Italia ne sarebbe stata il principale campo d’azione.
Perché qui da noi di tango, semplicemente, non ce n’era. Negli anni 70 c’era stato sì Piazzolla, che qui aveva anche abitato e persino trovato un editore non più avido degli altri. Ma Piazzolla non era il tango: Piazzolla era Piazzolla. Fuori da Buenos Aires, nessuno riusciva a sentire quanto Troilo e quanto Laurenz ci fossero nel suo bandoneón, quanto Goñi e Pugliese nel suo pianoforte e Vardaro nel suo violino. Era anche una questione generazionale: quando la mamma di Astor accompagnò il suo figliolo diciottenne al suo primo giorno di lavoro nell’orchestra di Troilo e con parole accorate lo raccomandò alla protezione del nuovo principale contro i pericoli della notte porteña, Aníbal, che dei pericoli della notte porteña era un dirigente, di anni ne aveva ventiquattro. Neanche sette anni separavano Troilo da Piazzolla, e ventiquattro Piazzolla da Luis Rizzo, ma una distanza siderale separa oggi la generazione di Luis dal cinismo mercantile dei tango-boomers. A cavallo tra gli anni 70 e 80 c’erano poi state le sporadiche apparizioni del Cuarteto Cedrón, culminate nel 1984 alla Fenice di Venezia. Ed era passata anche la cometa Tango Argentino, avvistata a Milano, Venezia, Bologna e Roma. Del tango insomma, Meri Lao a parte, nessuno allora ne sapeva niente. Di dischi, neanche a parlarne: le case discografiche dovevano ancora escogitare la world-music. Però non c’erano nemmeno preclusioni ad ascoltare una musica che riconoscevamo senza conoscere e che ci commuoveva senza spiegarsi: il cielo d’Italia, per quanto rovescio fosse, si poteva ancora raddrizzare. Il primo concerto fu al Teatro Goldoni di Venezia. Con il Luis Rizzo Cuarteto debuttò la cantante Susanna Rizzi. Il solito destino sincronizzatore procurò che il treno notturno da Parigi avesse un incidente con feriti e non arrivasse mai a Venezia. Ma anche che il Cuarteto giudiziosamente lo perdesse per il taxi imbottigliato di Susanna. Il concerto, nato sotto simili stelle, non poteva che essere trionfale. Ho una fotografia di Luis che guarda il teatro gremito; è immobile, eppure sembra Tardelli dopo il goal della finale 1982. In quel momento dovette intuire che la sua musica aveva finalmente trovato qualcuno disposto ad ascoltarla. Tra questi primi qualcuno ci furono Giampiero e Giancarlo Bigazzi, fondatori della Materiali Sonori, la più longeva e blasonata etichetta indipendente in Italia. Bastò ai due fratelli ascoltare dal mangianastri della macchina qualche minuto dei Tanghi di ieri e di oggi, per dare fiducia a Luis anche per quelli di domani. Una fiducia che non è certo commensurabile agli appena quattro dischi prodotti in nove anni: allora, per il tango, non c’erano parole nella parlantina dei rappresentanti, né spazio nelle playlist radiofoniche e nelle rastrelliere dei negozi. La musica di Luis avrebbe dovuto farsi largo senza usare i gomiti, a forza di concerti e di dischi distribuiti dai postini. E così è stato.
Giacomo Noventa diceva che il poeta non ha d’aver casa, perché alloggia nella
sua opera. Secondo questo dettame catastale, i quattro album italiani
rappresentarono per Luis il mondo abitabile. Da allora in poi, l’olimpo rasoterra dei
cortili di Buenos Aires, che pure ebbe molti cantori, non ebbe mai un così accurato
cartografo. Tristesse del 1990 ne tracciò le fondamenta, la Suite El Barrio del 1995
la mappa in scala 1:1, Opustango del 1999 la definitiva trasfigurazione. In mezzo,
Desde el andén del 1993, una di quelle cose che si fanno da soli, da uomo a
uomo, come un commiato o una resa dei conti. Luis convocò nella zona di riporto
alcuni fantasmi, Grela, Pichuco, Astor, affrontandoli nella scabra sincerità del duo
di chitarre, con Adrián Politi a fargli da secondo.
Il pezzo che diede il titolo al disco lo dedicò invece a sua moglie Laura, per i tanti
sguardi che si erano scambiati nella stazione di Liniers e in quella di Moissy-Cremayel.
Dal treno, un saluto al rimasto. Ma di saluti, e di rimasti, nell’opera di
Luis ce ne furono molti, a cominciare da quella Piecita del fondo, la stanzetta in
fondo al patio da cui tutto ebbe inizio, che poi è il vero titolo di Tristesse. O Agosto
y final, dedicato al padre, che chiudeva come un rimorso tutti i suoi concerti. O
ancora la suite Imagenes porteñas composta in ricordo di Osvaldo Manzi e Vals de
abril per Roberto Grela. Se in questi dischi c’è quasi tutto Luis, dal vivo c’era
anche di più. Trenzas, ad esempio, che una volta lacerò il sipario del Maurizio
Costanzo Show, ‘O core tuje di Totò, Una canción per soli voce e chitarra, un
malinconico e trasparente Yuyo verde: tutti pezzi inediti, nati tra le lacrime dolci dei
sobremesa o negli affumicati mate dei trasferimenti in furgone. Quando nel 1993,
César, Carlos e Susanna lasciarono in un colpo solo il Cuarteto per dar vita a
Esquina, Luis rilanciò formando un quintetto di soli giovani: di nuovo la Guardia
Nueva. Aggiunse un violino a sostenere le sue irrinunciabili melodie e riscrisse tutte
le orchestrazioni. Suonò nell’impensabile Londra, in Spagna, in Giappone, paesi
dove le sue composizioni erano pubblicate e apprezzate. Una volta a Tokio trovò
l’inattesa edizione giapponese di quel disco del 1970 che aveva dato a Troilo la
chance di un whisky in un’epoca in cui non si firmavano contratti. Ma Adorno era
stato tradotto anche in Argentina e il produttore Ben Molar aveva saputo come
interpretare gli strani meccanismi di un’industria culturale che lucrava anche sul
tango d’avanguardia. Negli anni recenti, Luis compose per il cinema e per il teatro.
Nuovi gruppi giovanili gli chiesero qualche tango che si potesse suonare
onestamente. Aveva anche ripreso il duo di chitarra, questa volta con suo figlio
Luis Alberto, diplomatosi, in quel lungo frattempo francese, buon chitarrista
argentino. Un ultimo disco, altri concerti. Duo del Sur, si facevano chiamare. La
nostalgia è ereditaria e ti sorprende non appena metti piede nel mondo inabitabile.
L’ultima volta che ho visto Luis è stata a Venezia, nell’estate del 1998. Lo andai a prendere alla stazione con la Milonguera, la barca sulla quale era già stato molte altre volte, incluso la prima. Come allora, navigammo a remi fino a casa e parlammo di tango per tutto il tempo che rimanemmo svegli. Gli feci ascoltare il disco del Sexteto Canyengue, gli olandesi che da qualche mese erano la nuova orchestra della Compañia Tangueros. “E’ come andare a casa di un altro e scoprirci dentro tutti i tuoi mobili fino all’ultimo portacenere”, fu il suo modo di dirmi che li riteneva degli imitatori. Non ne faceva una questione di nazionalità: anche coloro che si dicevano continuatori di Pugliese erano per lui dei meri supplenti. Il giorno dopo andammo nel Valdarno a registrare Opustango, l’ultimo lavoro che facemmo insieme. Già dal 1996, Mariachiara ed io passavamo la maggior parte dell’anno a Buenos Aires. Tutta la nostra energia era destinata alla Compañia e le occasioni di lavorare con Luis si erano diradate. Mi ricordo di un pomeriggio del gennaio 1997 a Buenos Aires. Luis era venuto a trovarci al Torcuato Tasso dove Mariachiara stava montando Milonga Boulevard. Seduto sotto un ventilatore, guardava i poco ergonomici arredi di quel club fondato dai Massa Lubrensi nel 1856. Più che esaminarli, li ripassava. Tutto era così tipico: le piastrelle per terra, i mulinelli di mugre, gli scaffali di bottiglie vuote, il rombo cingolato del 29, perfino l’indifferenza al tango dei tre giovani gestori, non meno ignari di Negracha che della Gerusalemme liberata. A prove terminate, seguì una regolamentare picada al Bar Británico e poi una passeggiata per una San Telmo in via di tanghizzazione. In quel periodo, tutti i vecchi quartieri del tango si stavano professionalizzando. Usciti dal Café Bar, percorremmo uno dopo l’altro tutti i movimenti della Suite El Barrio: la Calle, la Esquina, la Plaza, perfino la Bronca, la rabbia, quando giù nel bajo arrivammo a quel luogo sinistro dove un ponte era stato costruito in fretta per coprire le fosse comuni. Proprio lì, a duecento metri dagli spensierati turisti del tango, c’era stato un campo di detenzione illegale. Luis ci raccontò di questo suo ritorno, il primo dopo 15 anni d’Europa. Gli amici della giovinezza, l’immancabile parata degli asado, gli scherzi risaputi sui panni dei bigliardi, la spugna orrenda che il tempo passa sugli uomini: più tango di così. “Il problema è che le cose che abbiamo cantato per tanti anni, ora non cantano più noi”. Aveva fatto un’intervista alla Radio 2x4 con un conduttore che di lui e della generazione degli “arrabbiati” non voleva sentir parlare. “A questi tipi qua, del tango interessa solo il successo, la risultanza. Mi chiedono di Parigi. Sono contenti della sconfitta, di questo tango decorativo, ristrutturato e riadattato”. A sera fatta, cenammo nel patio della casa che affittavamo da Maria Villalobos. Gli avevamo preparato un bagliore di candele, un cielo di stelle nazionaliste, una pioggia di gelsomini. Due paradossali promoter della notte porteña volevano convincerlo dell’eternità del barrio, della verità della sua musica. “Non credo di voler tornare. Non ho mai lavorato da argentino in Europa e non voglio certo farlo qui.” A un’ora impossibile per le capitali del mondo civilizzato, lo accompagnammo al colectivo. “Cualquier nabo, qualunque fesso può prendere un taxi”. Luis invece voleva degnamente tornare a casa su un vascello illuminato.
Ho saputo che è morto da Internet. La reticenza del comunicato stampa mi lascia immaginare anche per lui quell’inquadratura di Francis Ford Coppola, quel piegarsi attenuato tra i grappoli amichevoli del fondo, accanto alla piecita. Adesso che non c’è più, il vuoto che lascia riesce facile alla penna. Vorrei che queste righe dicessero ciò che molte volte gli uomini hanno taciuto. E io fra loro. Di quel poco che so del tango, molto lo devo a Luis. Questo non gli ho mai detto: con la sua musica, i suoi racconti e il suo esempio mi ha fatto amare una città che non è la mia, l’unica che abbia mai sentito abitabile e per cui provo nostalgia. Cadano dunque su Luis gli infiniti gelsomini di questo tango involontario di Borges, perché
i fiori accompagnano quelli che morirono
senza offenderli con superbia di vita
senza essere più in vita di loro.
foto di Lucia Baldini, 1996