Honorio Bustos Domecq! Dietro questo nome da brandy si nascondevano nientemeno che Borges e Bioy Casares, due illustri scrittori o forse sarebbe meglio dire due illustri ragazzacci, anzi, già che ci siamo due bulli delle giostre. Per più di trent’anni, il quadrumane Bustos Domecq ne ha combinate di tutti i colori. Ha cominciato nel 1942 con una serie di racconti polizieschi il cui intento parodistico era evidente fin dal nome del detective, Isidro Parodi, un detenuto che risolveva gli enigmi senza uscire dalla cella numero 273 del carcere di Devoto. In realtà i casi di Parodi erano solo una scusa per mettere scherzosamente alla berlina gli usi, i costumi e la parlata di praticamente tutti, da un’alta società di maneggioni, a un demi-monde letterario di pedanti, agli insetti che tormentano altri insetti, come diceva la citazione in esergo. Tutti presi in giro attraverso la precisione mimetica del lessico, la vertigine dei tic e delle espressioni, l’intreccio babilonese dei modi di dire, così come venivano captati dai quattro orecchi più millimetrici della letteratura argentina. Se volete sentire come parlava un milonguero degli anni ’40, ascoltate Tullio Savastano mentre racconta il fatto di sangue dell'hotel El Nuevo Imparcial ne “La vittima di Taddeo Limardo”.
Negli anni ’60 Bustos Domecq ha poi scritto e discusso la vita e le opere di letterati, scultori, architetti, gastronomi, pittori e drammaturghi che al momento non esistevano, ma che erano pericolosamente possibili. I testi hanno ancora lo spumante leggero dell’ironia, come si addice alle indagini serie, e ricorrono ancora alla parodia, che tra le tante vie della conoscenza è la più gentile e la più fiorita.
Molti di quei testi critici sono stati raccolti e pubblicati con il titolo di “Cronache di Bustos Domecq”. Altri, invece, erano talmente pieni di riferimenti e di allusioni a personaggi reali, e forse vendicativi, che hanno circolato soltanto in forma semiprivata, come i samizdat in Unione Sovietica.
Così, nel 1996, quando si trattava di scrivere il libretto di presentazione a “Milonga Boulevard”, il nostro balletto di tango ispirato a un racconto di Julio Cortázar, ho finto di ritrovare uno di quei testi clandestini e ho fatto un bel pastiche di Bustos Domecq, ossia ho fatto la parodia di una parodia.
Mi sono immaginato il ballerino più colto di Buenos Aires, battezzato lì per lì Juan Luis Borges, Juan e non Jorge, che racconta l’inaugurazione di una certa Milonga Boulevard, avvenuta nel 1956 a Boedo. Perché proprio a Boedo? Perché trenta anni prima questo barrio, allora periferico e operaio, era stata sede di un gruppo di scrittori che la faciloneria critica aveva contrapposto al gruppo altolocato di Florida, in cui Borges era stato pigiato dentro a forza. Forse è superfluo precisarlo, ma tutti i milongueros che appaiono nella mia cronaca sono dei letterati e viceversa. Come si dice in questi casi, il libretto mise a tacere la critica: nessuno ne parlò. Un solo quotidiano, di cui non dirò nulla tranne il nome: Il Resto Del Carlino, pubblicò un estratto del racconto presentandolo come un inedito del famoso maestro argentino Juan Luis Borges. Siamo messi così: chi di parodia ferisce… Dal racconto ho ricavato per voi una mini-serie radiofonica in tre episodi dal titolo Milonga Felix. Felix, aggettivo latino che significa felice, fortunato, ricco, gradito, che porta bene, foriero di felicità, di buon augurio. Come se ne avessimo bisogno. Eccovi dunque la prima puntata con il verboso preambolo di Bustos Domecq, alias Juan Luis Borges.

Non c'è che dire: la prismatica realtà produce meraviglie a nastro continuo. Sorprendenti come le capriole aeronautiche di Raúl e Torquato, i Temerari Senza Rete del Circo Palumbo (dal mese scorso solo Raúl), mi giungono oggi notizie sul tango “milonguero” che sarebbe tornato di moda.
Per nulla intimidita dagli omogenei alti e bassi del peso argentino, la valanga turistica ha escogitato un'ennesima forma di divertimento. In attesa di tempi più favorevoli, anche Batman prende l’autobus.
D'altra parte è bastato che circolasse la voce che il miglior ballerino della città, il cui applaudito nome il buon gusto mi vieta di rivelare, consolidasse il progetto di scrivere un manuale di tango che avrà per titolo, se non cambio idea, “Il tango da seduto”, perché i miei colleghi passassero, rapidi come torpedini umane, dalle tavole del palcoscenico alle scrivanie dell’Ente Turismo. Ben fatto, ragazzi! Non me la prendo certo calda per questo. Da un bel pezzo ormai ho appeso le scarpe da ballo al fatidico chiodo e la mia celebre andatura, perfezionata oggi dalla sedia a rotelle Relámpago, non è più marcata dal diabolico ritmo di Canaro, ma da un monotono gnik-gnik.
Non si rattristi l'impulsivo ascoltatore: una volta anche per noi milongueros il sole splendeva alto, per lo meno ogni martedì pomeriggio nell’ateneo intermittente del Caffè El Escabio.
Glielo dicevo sempre a Cortázar, ideatore del sopravvalutato passo Rayuela: non lasciarti ingannare dalle apparenze, l’Escabio sarà anche metà della Chacarita, ma è morto il doppio. E poi, vuoi mettere la posizione! Abilmente piazzato all’incrocio di Sarmiento e Rodriguez Peña, a due passi dall’insonne Avenida Corrientes, l’emiciclo non è del tutto indegno di ospitare gli acuminati fioretti dei Sultani del Tango e le loro asperrime dispute incoraggiate dal maraschino.
Il profumo di cotoletta della casa che per tutto il resto della settimana albergava nella mia giacca di tweed, non ci impediva di ingolfarci in discussioni della madonna, durante le quali la rievocazione di episodi mai accaduti non escludeva l'esercizio della memoria inventiva.
Il tango, muchachos, e il suo plasmabile passato sono qui, nelle nostre mani, sentenziava ogni due minuti quel mammalucco di Piola Casares, proprio lui! che quella volta che tentò di emulare il mio labirintico enrosque triplo gli si annodarono le gambe come uno scubidù.
Le dolorose sanzioni amministrative promulgate dalla cassiera dell’Escabio sotto forma di scontrino, ostacolarono non poco i lavori della commissione morale presieduta da Lugones. Come dirlo a un disinfestatore che il suo slogan “Ammazziamo tutto ciò che striscia, sobbalza e saltella” non ci avrebbe spalancato le porte di nessuna milonga.
Al contrario non ci nocque il prevedibile scisma, seguito dall’espulsione reciproca, con il movimento "New Gaucho" di Hernández e Güiraldes. Quei due passatempi per cavalli si erano intestarditi nel voler annoverare tra i passi base i loro loffi giochini con i fazzoletti. Noi dell'Internazionale Porteña, baluardo dell'Indigenismo, non potevamo certo accettare simili annacquamenti stilistici e le distrazioni del colore locale, inorgogliti come eravamo dal compito di dotare la contemporaneità di un’opera definitiva e soprattutto plausibile.
Incentivammo quindi la defezione della corrente capeggiata da Ernesto Domingo, che alla milonga è sempre stato un bagonghi e accogliemmo senza pensarci due volte le dimissioni del Loco Arlt e dei suoi squilibrati, del resto, anche loro, duri come brodo, all’ora di formare una barriera.
Finalmente, dopo mille notti nella solida tipografia di don Vicente Rossi le prime trecento copie numerate delle "Conversazioni dell’Escabio - Prolegomeni del Tango Milonguero" vennero alla luce, a cura del sottoscritto.
In elegante carta uso mano, sobria rilegatura in cartoncino Bristol e arricchita da un inconsueto grattage di Carnaza, la tiratura andò esaurita nell'arco di un pomeriggio, diventando ipso facto la chimerica pepita che ancora oggi alcuni idealisti sperano di ritrovare nella silenziosa libreria antiquaria o nel bric-à-brac polifonico di Plaza Dorrego, a San Telmo.
Da quella silloge di erudizione e fantasia, e grazie alla benevolenza della direzione del’Escabio, depositaria di trecento esemplari a titolo cautelativo, provengono le traversie che mi dispongo a narrare.
Ma prima di cedermi la parola, voglio farvi sentire un telegramma testé arrivato dal vasto futuro, con tariffa a carico del predecessore. C’era da aspettarselo. Il mittente è un poeta che si nasconde dietro l’intercapedine trasparente del suo nome vero: Alfredo Rubín, bardo dei bassifondi, rapsodico cronista di crimini e cuori infranti. Ci canta del Regín, la pista che solo i romantici sanno eleggere a domicilio. Forse diceva bene quel tale, se la felicità non esiste, saremo felici senza di lei. Ma a quanto pare la dura, la caparbia felicità del Regín è condannata a perdersi nel giro di pochi anni, a sparire come un pugno quando si aprono le dita. La perdita di grazia è sempre irreparabile, quell’arietta d’innocenza non tornerà più.
Statemi a sentire che so cosa vuol dire tenersi informati: saremo presto assediati da tutto ciò che ci mancherà.

Regín,
ti ho conosciuto nella Buenos Aires della festa insensata degli anni ’90 quando la stanchezza e la miseria cominciavano a girare per le strade oggi sprofondate.
A volte penso se non sia stato un miraggio per la mia pazzia, per il mio cuore quel vento febbrile di ballare sempre faccia a faccia con la tua sporcizia di tango, col tuo scintillio da milonguero in calore, macho, compagnone, vecchio, ridicolo…

La notte ha già spiccato il suo balzo d’arlecchino.
Si staglia alla tua luce la sagoma grigia di un ballerino
e nelle piroette della mattina
una nebbia di fantasmi premono per tornare.
Ma tornare a che cosa, Regín?
Devo averti voluto bene, o aver bevuto anche di più,
devo essermi molto divertito per odiare questo dolore. La milonga ruota e si divora ogni cosa.
Va bene, hai girato, Regín, e allora?
Quanti balli hai indetto, madre coraggio di tutti i balli?
Sempre oltre i confini del possibile, e ancora più in là,
quando le altre milonghe morivano una per una.
Mattinate del Regín, chi mai le ricorderà?
Chi mai, quando i veterani non ci saranno più,
custodirà la fama del tuo nido di splendore,
dei tuoi bicchieri tra le lampadine colorate
che facevano gli spavaldi con la morte, Regín?
Ci si dovrà immaginare un nuovo innamoramento,
sopportando la tristezza che tutte le cose hanno una fine.
Milonga che regnavi sui miei amori
il tuo destino si è perso negli abissi della notte.
Ascolta il mio addio, Regín!
Mi fa male non ricordare quell’ultima notte.
Il tango intrecciato sui fianchi, quell’abbraccio,
due cuori uniti che giravano e giravano e giravano senza un domani.
E adesso cosa facciamo Regín?