Il bello degli anniversari è che si vedono da lontano. L’anno che sta per arrivare è il settecentesimo dal ritiro dai gironi terreni di Dante Alighieri. Splendida occasione per rispolverare un articolo che era stato profeticamente scritto quindici anni fa, per il suo poco notato seicento ottantacinquesimo anniversario. Ne è autore un additato esponente della cosiddetta filologia impetuosa, un milonguero di Lugano, nel senso di Villa Lugano, conosciuto come El Moplo. L’aveva già detto a suo tempo Theodor Adorno, un milonguero della Francoforte vera, senza Villa: i tanghi sono opere d’arte che raccontano la Storia con più precisione dei documenti. Una sparata condivisa anche da Roberto Longhi: l’opera d’arte è sempre lì, diceva Longhi, presente e partecipe al suo tempo, immersa dalla testa ai piedi nella sua attualità. Compito dello studioso non è raccontare il visibile, ma far vedere ciò che visibile non è. Fin qui siamo d’accordo, ma come facciamo con la danza del tango? Persino i documenti scarseggiano. Ci troviamo cioè nelle stesse condizioni dei due re nei due labirinti di Borges, e il labirinto più efficace è sempre il deserto. Dunque, in mancanza di certezze, siamo condannati a inventarcela, la nostra filologia. E per avere un’ermeneutica di sana pianta non c’è che da ricorrere a El Moplo. In questo articolo El Moplo parte da una controversa terzina dantesca per poi scendere in pista, nell’aiuola che ci fa tanto feroci.
Qui nel mio barrio ci sono alcuni anziani milongueros a cui piace ignorare qualcosa di tutte le epoche. Qualche anno fa erano passati, con evidente scopo palpeggiatorio, al tango milonguero®; poi, visto che neanche così riuscivano a conseguire obiettivi importanti, hanno abiurato l’abbraccio appiccicoso per flettere i ginocchi nello stile Tango Nuevo®, che per essere appena più recente non è per questo meno sciocco. Ora frequentano La Viruta, hanno aggiunto al loro già anchilosato repertorio qualche passo insolito e, vantando trascorsi rivoluzionari, sperano di mettere finalmente le mani su qualche giovane importada. Di questi bacucchi, il tango è sempre stato pieno. Sono arrivati al punto di affiliarsi alla Dante Alighieri, la benemerita società che tanto ha fatto perché tutti in questo paese parlassimo il cocoliche, per impratichirsi nell’abbagliante lingua del Petrarca e dei Righeira, nel caso qualcuno dall’Italia reclami un bel giorno i loro servigi. Quando hanno un pomeriggio libero, cosa che capita sette volte alla settimana, si ritrovano al Caffè Letterario Ladislao Biro (l’inventore viveva proprio lì vicino), e danno la stura alla fanfaretta dei ricordi. Le riunioni vengono regolarmente interrotte da quello spilorcio del gestore che non capisce come degli espliciti milongueros possano arenarsi in rievocazioni della madonna e consumare una sola Refres-Cola in quattro. L’altro giorno alla Dante Alighieri si sono perfino annotati allo stage dedicato al kolossal del loro nuovo beniamino: già si vedono dall’altra parte del charco a spiegare, o ad ordinare, un sandwich nell’italiano del Trecento. Lo stage è partito, com’è logico, dalla meta più facilmente raggiungibile dagli allievi, l’inferno, ed ecco che immediatamente si presenta una terzina controversa. Questa, primo canto dell’Inferno, 28-30:
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso
Si tratta senza dubbio, hanno subito glossato quegli esegeti, di un gancho ante
litteram! Mi rincresce per gli amici dantisti, ma il pathos dell’approssimazione ha
dato loro le traveggole. Anche un principiante vedrebbe che il Poeta ha voluto
descrivere una sacada che, come tutti sanno fin dall’antichità, si esegue quasi
sempre senza passare immediatamente il peso. Mentre i contemporanei di Dante
potevano agevolmente cogliere il significato allegorico di questi versi, lampante
all’epoca ma misterioso oggi, noi non più. Se procediamo alla lettera, la “piaggia
diserta” potrebbe effettivamente essere la pista di una milonga - la piaggia è un
luogo non coltivato - dopo che è stata sparecchiata dalla cortina, e il “corpo lasso”
la pausa rilassata dell’uomo all’incrocio della donna. Resta però da stabilire la
faccenda dei piedi. Secondo la nota metafora di Agostino, un santo che mi è
affezionato dalla nascita, il piede ha a che vedere con l’anima: come il corpo ha
due piedi (ma chi va a ballare a La Ideal sa che c’è un’eccezione), così anche
l’anima: con uno va verso il bene, con l’altro verso il male. Il piede più basso, e più
saldo, rappresenterebbe l’affetto alle cose terrene; quello che avanza, l’intelletto,
tenderebbe esitando alle cose superiori:
Idest amor qui tendebat ad superna
Il “piè fermo” (pes firmior) era per gli scolastici, Alberto Magno in testa, il piede
sinistro. In definitiva, questa è una sacada all’entrata del giro in senso orario.
Ringrazio la professoressa Anna Maria Chiavacci Leonardi per la sua involontaria
consulenza.
Naturalmente, queste sono le conclusioni di un filologo amateur: a ben guardare, un tettino di pochi coppi, che non offre un gran riparo. Se è vero che la storia ha bruciato molto di quel che doveva essere salvato e troppo ha preservato della vecchia infamia, allora la tradizione deve essere cercata. Purtroppo, nel tango, ermeneutica e filologia sono discipline poco praticate. Nelle nostre spensierate province non abbondano gli studiosi. Il tanguero professionista ha in genere di meglio da fare che risalire alle brumose scaturigini di un passo o approfondirne le modificazioni storicamente sedimentate; e trova superfluo chiedersi quale sia l’interpretazione autorizzata di una sequenza perché questo lo sa già: è la sua. Indifferente agli etimi, freddino alle dispute teoriche, tutte le prassi cognitive di norma lo lasciano apatico. A che gli servirà mai sapere che la colgada è un effetto nato sugli infimi palcoscenici dei cena-show per turisti, che il tanto magnificato traspié è l’involontaria specialità di un ballerino con una gamba di plastica o che è puro sarcasmo chiamare milonguero lo stile nato in un locale dove di milongueros non ce n’è mai stato mezzo? A parziale discolpa dei nostri svogliati eruditi, devo concedere che qui a Buenos Aires è obiettivamente difficile seguire le impronte della Musa d’Asfalto dacché quest’ultimo, almeno fino al 1983, è stato dilavato dai sanguinosi acquazzoni militari.
Comunque: Franco Fortini ci ha insegnato che il tango, come del resto la poesia, lo si fa o lo si manca con i “mezzi di bordo”. Ermeneutica e filologia possono dunque contribuire alla riconoscibilità delle forme, a far sì che queste risuonino correttamente “a bordo” dei ballerini. Fuori dal loro bios, non c’è nulla di scritto. Al contrario della parola, che non ha alcun rapporto ontologico con la cosa, il movimento ha un fondamento nel corpo: in esso trova, o manca, la sua verità. Ogni passo, nel tango, è stato sottoposto a prove di resistenza del materiale: raddoppiando o dimezzando il tempo d’esecuzione, deformandolo arbitrariamente, pronunciandolo secondo varie cadenze dialettali, traducendolo in finlandese e in romagnolo. Quello che arriva fino a noi non è di fatto un semplice passo, ma la convergenza di più esistenze; nostro compito è semmai quello di illuminarlo e incarnarlo. La fiducia nella costanza del suo senso lo carica di una qualità tanto maggiore quanto più la coerenza coreografica parrebbe voler smentire l’autosufficienza interpretativa del ballerino. “Le vere creazioni - dice ancora Fortini - non chiedono altro che di venire applicate, come si applica uno smalto o un regolamento; ma ciò deve avvenire al di là di esse, nel rovesciamento del quel che è a quel che dovrà essere, novità necessaria e insostenibile”. Insomma, senza sapere da dove veniamo, e questa è una banalità millenaria che nemmeno il grande Lukàcs si è stancato di ripetere, difficilmente sapremo dove stiamo andando: saremo davvero in tanti a brancolare come turcos en la neblina nell’aiuola che ci fa tanto feroci.
In attesa di ritornarci presto, e porgendovi i miei più affettuosi auguri per l’anno nuovo, mi congedo da quello vecchio con un tango di Dante A. Linyera, dove A sta ovviamente per Alighieri: Pajarito. E Buon Anno a Tutti.