Sono tempi duri questi per i Tanguisti Su Marte, per i Barbagli, i Freghieri, i Pini, i Fecchia, i Santodio del tango elettronico, o dell’electro-tango, che dir si voglia. Alla fine è durato poco e niente, il declino si è fatto irreversibile, l’ora delle applicazioni tecniche è finita. Così i Cuzzi, i Baffoni, i Chiurlo, i Follicato, i Cagnaro, le squadracce di arroganti musicisti che si proponevano di spezzare le reni alle piste, oggi suonano davanti a platee decrescenti, in posti sempre più piccoli, per cachet ogni volta più bassi. Lo show business, l’onnipotente mercato - che loro hanno venerato e servito per un decennio - li scarta come manzo avariato. La stampa specializzata stronca i nuovi dischi, una o due palle al massimo, le milonghe hanno rimesso la vecchia carta da parati, la messa vespertina degli happy hour è sciamata come le acciughe verso temperature più alte. I tanghi che dovevano cambiare per sempre il volto del tango si ascoltano nei supermercati e a bordo di ascensori poco informati e senza specchio. Hanno preso una patina da modernariato, fanno l’effetto di quei capannoni abbandonati dai rave che si vedono dalla tangenziale. Perché ritornare allora sul tango elettronico e rispolverare questo articolo scritto tra il 2001 e il 2006? Perché credo che nell’ascesa e nella caduta di questa piccola Mahagonny elettronica si vedano bene i meccanismi, le mistificazioni, la malafede del tango di oggi. Anche io, come Rock Hudson, mi vanto di conoscere Doris Day da prima che diventasse vergine.
Come il figlio dei Tre Moschettieri, il tango elettronico è nato già vecchio. Per i nostri tempi immateriali, elettronico è di fatto un aggettivo datato, di sapore artigianale, che si dà a oggetti vintage, da mercatino delle pulci. “La Electronica, il più moderno e progredito antiquariato”, diceva un’insegna a Plaza Dorrego. L’elettronica evoca le valvole, i transistor, il moog, le fibre sintetiche, la bachelite. E gli astronauti, i dischi volanti, i marziani, la puerile tecnologia di Eta Beta e del professor Enigm. Anche la musica fatta con le macchine è una signora che ha ufficialmente compiuto i settanta anni. E più di quaranta ne hanno il Conjunto elettronico di Piazzolla e il Libertango di Grace Jones. Per non parlare degli altri numerosi esperimenti di elettrificazione, da Saluzzi a Moles a Mederos, che ci sono stati fin qui. Il che dimostra la validità dell’aforisma di Adorno secondo cui la pacchianeria non è, come vorrebbe la fede nella cultura, un semplice prodotto di scarto dell’arte, bensì una sua attitudine dormiente, che se ne sta in lei aspettando l’occasione propizia per saltare fuori e atteggiarsi a interprete del gusto corrente. La pacchianeria elettronica dipende quindi da una mancanza di nervi: gettandosi nelle braccia del totalmente effimero, l’electrotango neutralizza e squalifica artisticamente proprio quei sentimenti e quelle materie prime che dice di documentare ancora incandescenti. La sua è un’adesione precipitosa alla moda del momento, un accomodamento ipocrita al massimario di tic dello show- business. C’è allora da chiedersi che senso abbia diluire Bristol nei cento quartieri di Buenos Aires, tradurre il trip-hop in lunfardo, insinuare la musica da ascensore in una città di case basse, intonacare di lounge dei bar che servono mondongo, convertire al tribale gli ultras bosteros, smorzare col chill-out gli ardori di gente che spende mezzo stipendio per procurarseli. Perché di questo si tratta: di musiche già scadute o in prossima scadenza sul mercato internazionale che, dopo una veloce rianimazione a base di vernacolo e piri-piri del bandoneón, vengono distribuite a un pubblico che da sempre spasima per sentirsi in regola con le parole d’ordine e i modi di comportamento dominanti. L’industria sa bene che i consumatori di merci culturali reagiscono alla moda come gli sciami d’acciughe reagiscono alle variazioni di temperatura delle correnti. Le trombette nazionaliste hanno finalmente di che vantarsi anche all’estero.
Questa è un’altra amara vittoria Guy Débord! Dopo aver molto guadagnato dai traffici digitali con il catasto musicale tanguero, ora le multinazionali discografiche guadagnano dalla sua frantumazione. Tutte le angeliche cattedrali che rendevano questo inferno abitabile, o perlomeno ballabile, sono state aggredite dai software e smantellate, e le fiabesche architetture orchestrali demolite e ridotte a materiali di spoglio. Al posto del Palazzo d’Inverno ci sono ora delle catapecchie contemporanee in lamiera. Perlomeno i pionieri della musica elettronica si preoccupavano di elaborare delle strutture compositive per i suoni che ronzavano in maniera insolita, e gli autori di musica casuale cercavano una legalità statistica nella mera evenienza dei materiali. I trafelati praticoni dell'electrotango, invece, sperano superstiziosamente che la musica scaturisca da sola dall'assemblaggio colloidale di macerie ingabbiate dalle stucchevoli inferriate dei groove BPM. Il Beat Per Minute. Ecco il bell'apporto di questi cervelli geometrici: una pulsazione rigida e quadrata che mai la storia del tango, nemmeno con D’Arienzo, aveva conosciuto; una prigione ritmica che intimidisce e mette fuori gioco ogni fraseggio, ogni possibile swing del tango, sia nella musica che nella danza. Tanto peggio allora per il tango. Come in una famiglia di cleptomani, non si trova più niente. Niente scampa alla riverniciatura computerizzata degli expanded-show di questi pivelli in terital e cappellino da travet che, appostati sulle macchine e sotto lucette da elettrauto, fanno gli audaci all'ora del cocktail.
Forse si doveva dare retta a Schönberg quando diceva che la strada che conduce dal radioamatore alla musica elettronica non è poi così lunga: perché dunque occuparsi di suonettini, se ancora così tanto rimane da fare in tonalità di do? Ma dopo cinquanta anni, l’abitudine alla tecnologia ha creato una complicità tale con i suoni delle macchine che l'electrotango oggi può trovare, tra i milioni di entusiasti per la tecnica, meno nemici di quanti ne trovi tra i ballerini l’orchestra di Pugliese. Del resto, è proprio ciò che manca all’electrotango a facilitarne la ricezione. Mezzo secolo fa, quando la musica e la danza erano ancora in rapporto di combustione, i pezzi di Pugliese accoglievano la troppa tensione pirogena di quel certo modo di essere tanguero; un modo che oggi, nell’era di tanto tango inerte, semplicemente non è, o addirittura non è considerato tanguero. La strada si è ulteriormente accorciata, radioamatore e musicista spesso coincidono. Meglio allora ballare con i suonettini, i loop, le drum-machine, i computer degli sfebbrati paesani di Marte che continuare a cercare nella tonalità di re minore, che è poi quella tutta terrestre del tango e, come diceva Troilo, dello stomaco vuoto.