PROLOGHINO

Sin dalle argomentazioni proustiane del Contre-Sainte Beuve, per eccesso e per paradosso, è diventata di senso comune l’idea secondo cui la biografia costituisce un genere letterario ambiguo e mendace. Per questo motivo tracciare una scheda sulla trinità laica formata dai protagonisti più significativi della linea evoluzionista del Tango, cercando di restituirne un profilo più verosimigliante possibile, è un’impresa complessa. In fondo è preferibile sottrarsi, agendo secondo quella maniera dissociata che prescrive di disporsi a una distanza giusta, con la speranza di ottenere il massimo nell’immaginazione dei lettori. Da questo punto di osservazione è plausibile mettere in relazione il senso dell’opera di un personaggio con il desiderio di chi la interroga, sulla scia di Merleau-Ponty, tralasciando tutta quella serie di informazioni ormai a tiro delle moltitudini in gita al mare wikipedista e degli ingenui che si nutrono di prelibate informazioni fatalmente deformate dal loro itinerario di terza, quarta e quinta mano. Del resto la trinità dei nostri eroi ci ha lasciato un’inconfutabile verità su cui riflettere per coniugare un pensiero dove il soggettivo e l’oggettivo allaccino una relazione dialettica. Sto parlando evidentemente della loro musica che parla come un oracolo di loro e delle vicende del tango in cui le loro creazioni sono implicate. Innanzitutto è bene soffermarsi per chiarire stenograficamente cosa si intende per tango “evoluzionista”, aggettivo migrato dalle teorie darwiniane per essere adottato dai musicologi argentini come metafora di un fenomeno che ha interessato la musica rioplatense dalla terza decade del ‘900. Innanzitutto i suoi antecedenti: l’inserimento del bandoneon nelle formazioni della guardia vieja e il suo timbro sonoro capace di cambiare carattere e colore, imponendo un ritmo più compassato di quello da cabaletta del tango arcaico; le composizioni perfette di Eduardo Arolas con pathos e venature di nera malinconia, e le melodie perfette di Agustin Bardi con le loro curve lievi e nitide; Carlos Gardel creatore di un fraseggio ornato da imprevedibile elasticità, modalità a cui attingerà felicemente anche il tango strumentale; Juan Carlos Cobian, scapestrato femminaro che per una gonnella nordamericana ha lasciato proprio a Julio De Caro il compito di gestire il capitale umano e stilistico che formerà l’organico del suo sestetto; Osvaldo Fresedo che, per una necessità involontaria, si trova costretto a introdurre i primi veri arrangiamenti, quando a Cadmen (New Jersey) dirige il quintetto Tipica Select dove, oltre a Enrique Delfino e Tito Roccatagliata, ci sono due musicisti statunitensi di scuola accademica e incapaci di suonare alla parrilla. Questi semi assolutamente disarticolati germoglieranno a metà degli anni ’20 nella prima guardia nueva che li metterà a frutto, ordinandoli e metabolizzandoli per costruire un modo di pensare, uno stile, un’estetica.

JULIO DE CARO

Se dovessi riassumere la mia impressione sulla relazione tra il tango e Julio De Caro, userei il verso annidato in una poesia intitolata Ébauche d’un epilogue, dove Baudelaire scrive “mi hai dato il tuo fango e io ne ho fatto oro”. Infatti, con lo stesso “fango” arrabalero in cui ha sguazzato l’entusiasmo della cosiddetta guardia vieja, De Caro declina un inedito alfabeto musicale, disegnando aurei oggetti sonori, inauditi nel tango degli anni ’20 e articolati in un linguaggio vibrante di significato. Qui sta l’essenza della scuola decareana, forse l’etichetta più convincente per nominare le ripercussioni che ha avuto la musica di De Caro: una scuola senza aule, senza classi, senza allievi ma semplicemente un prisma magnetico di influenze da interpretare in libertà sulla base di un atteggiamento mentale condiviso. Chi ha aderito al suo sistema non ha fatto altro che accogliere una selezionata eredità archetipica, senza assumere un atteggiamento d’inerzia immobilizzante, bensì incoraggiando il proprio spirito dialettico a ricreare, riorientare e perfino tradire. Con questi presupposti e con l’indispensabile contributo del fratello Francisco, Julio De Caro è avanzato come l’Angelus Novus di Benjamin, reinventando il tango attraverso i significati ulteriori trasmessi dai frammenti di passato che sono stati la materia prima da trasformare. Alcuni di questi sono addirittura sovraesposti con buffi gesti che verrebbe da dire dadaisti, come fossero allegorici segnali che ci ricordano il “fango”, con effetti percussivi semanticamente inquadrabili in quel campo che l’accademia nomina “rumoristica”, mentre l’ambito del tango specifica con una nomenclatura ad hoc: chicharra, guiro, tambor, strappata, golpeo, efecto canyengue, arrastre…. residui di negritudine emergenti in arrangiamenti organizzati dai De Caro alla luce della loro franca solidità scolare. Inserti che, in un tripudio di vivacità picaresca, entreranno con precisione, grazia, ironia, nella principale novità introdotta da De Caro: l’arrangiamento, questa volta sistematico ed espressione di una chiara volontà organizzativa all’interno del quale orchestrare i contrasti e le nouances, suggerendo l’articolazione del fraseggio agli eccelsi membri del sexteto. Sin dagli esordi di questa mitica formazione, quello che stupisce è l’equilibrio con cui sono distribuite le parti strumentali, veicolando eleganza mentre l’architettura armonica e contrappuntistica che le lega, disegna deliziosi piani sonori intrecciati e trasparenti, senza necessità di ricorrere ad ardite complessità armoniche o a stravaganti costruzioni formali. Le pagine composte dai De Caro sono gioielli dove sono incastonate l’eleganza di un Cobian, la forza di un Arolas, la misura di un Bardi, e si prestano in maniera emblematica ad essere modellate con l’argilla molle dell’arrangiamento. Scrigni di verità, emozione e gioia! Nel respiro pensoso di un dominio proteiforme, elargiscono incanti immaginativi, volando secondo traiettorie funamboliche e avvincenti che indicheranno il tango del futuro a coloro che sentiranno la necessità di sfidarne le incognite.

ANIBAL TROILO

Proseguendo nel gioco di descrivere un artista con un verso poetico, in questo caso Anibal Troilo, la scelta è orientata a Paul Celan che scrive “silenzio cotto come oro”. E’ in questi momenti magici di silenzio rapinoso che il sabor troileano si manifesta come una categoria esistenziale e il suo artefice raggiunge la perfetta rappresentazione di se stesso. Proprio in quegli stessi anni quaranta in cui Pichuco si abbandonava alle sue contemplative, struggenti, estatiche variaciones fraseadas, in nordamerica si sperimentava la sottrazione come acceleratore dell’intensità emozionale nella musica popolare: la predicava Thelonius Monk sentenziando “less is more”. Entrambe, nella loro estrema differenza di linguaggio, prospettiva, cultura, avevano a disposizione una tecnica strumentale precaria che proprio dai suoi difetti, traeva la luce di quella unicità che è il traguardo più ambito, e il più delle volte irraggiungibile, indipendentemente da quale sia la disciplina di un artista. Immagino sempre una scena al rallentatore in cui Troilo ingaggia una sorta di lotta per involucrarsi nel silenzio, mentre attorno a lui ruota come un triste anello di saturno, la miriade di note possibili che ha deciso di sottrarre, attendendo quell’unica che in quel momento di segreta intimità, saprà risuonare all’unisono con la sua anima. Una scena che nella realtà dura il tempo di un batter di ciglia in un’istante di sublime malinconia, così intenso da assomigliare persino alla manifestazione di una forma di innocente felicità o di un’erotismo elementare che trasforma la musica in odori e sapori profusi. Troilo con gli occhi chiusi in cerca di “quei suoi silenzi che sono più che eloquenti”, come disse Lenin a proposito di Tolstoj. Troilo con le mani come “imbelli e volitivi gigli di raso” (questa volta è Pasternak) che sfogliano il suo dizionario di umanità, per propagare attraverso il fueye note di verità straziante. E poi l’orchestra: “vorrei che la mia orchestra cantasse come Gardel” diceva! E come? Guidandola con istinto infallibile come un arcigno e aristocratico filologo di sè stesso, verso il cuore della sua idea di tango che racchiude un nocciolo decareano ma a livello subliminale. Presente ed insieme quasi impercettibile, come prescrive il “prisma magnetico di influenze da interpretare in libertà” (autocitazione). In questo esercizio di indipendenza Troilo si indirizza, molto più che De Caro e Pugliese, alla celebrazione della parola poetica che occupa un posto centrale almeno in due terzi della sua luminosa carriera. Chi più di lui è riuscito a irradiare per i propri cantores un’atmosfera così corrispondente allo spirito del testo che subentrerà dopo una rêverie strumentale, dove l’arrangiamento è il castello dei sogni che nutre la fioritura di una grazia commovente? Se il Troilo 1 e il Troilo 2 hanno palpitato insieme alle parole dei migliori poeti della generazione del ‘40, Manzi, Castillo, Exposito…il Troilo 3 non ha cercato o non ha trovato nuovi partner. Così l’ultimo meraviglioso tratto della sua carriera, sgombrato il campo dai vincoli richiesti per offrire un buon servizio ai milongueros che ormai si stavano accontentando di ballare con i dischi….o le musicassette di Felix Picherna, è un’apoteosi strumentale che ha la limpidezza di un’acquaforte. L’orchestra, i suoi arrangiamenti, la perfezione di tutte le sezioni strumentali, un sistema di scintille e cortocircuiti che accompagnano lo spirito troileano al suo zenit. Come dice Paperon dè Paperoni “l’oro non è tutto, c’è anche il platino”. E questa ultima fase, iniziata ben dopo la fine della decada de oro, per l’orchestra di Troilo è stata di platino.

OSVALDO PUGLIESE

“Ieri quando il tuo nome è stato pronunciato, mi è sembrato che una rosa sbocciasse dal selciato”: a quanti di noi accade quello che scrive Wislawa Szymborska, quando in una conversazione o per un motivo qualsiasi, qualcuno fa il nome di Osvaldo Pugliese? Immediatamente fare il nome del pianista, come ascoltare la sua musica, trascina in una dimensione poetica che travalica l’immagine deleuziana vera e fredda del “dispositivo”, secondo cui la musica è un sistema percorso da idee e linee di pensiero che coesistono in febbrile equilibrio. Tutto questo in Pugliese vale ma c’è dell’altro. Il suo dispositivo ha qualcosa di metafisico che sembra ubbidire alle regole di una galanteria quasi arcadica, secondo cui i florilegi del suo gusto e la sua sapienza apodittica dialogano in un vertiginoso sistema di vasi comunicanti. Osando le parole di Baudelaire, l’opera di Pugliese si manifesta come “alto catechismo di estetica” che porta alle estreme conseguenze il tango evoluzionista, volendo comunque restare fedele al sacro spirito popolare. Pugliese, come Troilo, resterà emblema della seconda guardia nueva, quel milieu effervescente dove i due direttori hanno scritto storie molto diverse seppure affini alla mentalità decareana. Mentre Troilo ha sviluppato la sua adesione al raffinato pensiero evoluzionista in maniera indipendente e quindi del tutto personale, Pugliese lo ha fatto radicandosi nell’essenza dogmatica della poetica di De Caro. Lo ascoltiamo nelle prime incisioni del 1943, con arrangiamenti quasi parafrasati che hanno valore di romanzo formativo scritto sul pentagramma. Un passaggio obbligato si semina che raccoglierà una lussureggiante fioritura di doni. Da quegli esordi Pugliese prosegue spedito con puntiglio e meticolosità, insistendo e insistendo ancora, fino a cesellare una metamorfosi dello stile decareano in opere da antologia, se non addirittura degne di figurare in un trattato erudito: La yumba, Malandraca, La mariposa, Negracha, tra tutti. Arrangiamenti, composizioni, esecuzioni leggendarie si sono susseguite senza sosta per più di quattro decenni con la coerenza di un militante comunista e l’energia di squadra condivisa con la sua orchestra cooperativa. Anche dopo il fatidico ’68 che ha segnato un terremoto traumatico dell’organico, a causa della fuoriuscita dei giganti che formeranno il pugliesiano Sexteto Tango. Le forze nuove continueranno a garantire arrangiamenti fantasmagorici, rigore nel linguaggio, compattezza nei respiri sognanti e nelle zone di alta densità poliritmica, virtuosismi nelle individualità solistiche, anche se rinunciare a un primo bandoneon come Osvaldo Ruggiero e a un violinista come Oscar Herrero è stata durissima da metabolizzare. Da quando l’orchestra di Pugliese è stata fondata, il modello decareano ha sempre avuto una funzione di punto di riferimento dinamico, di forza centrifuga che ha innescato una scrittura sempre più esplosiva, millimetrica e affatto decorativa nell’esercizio delle correspondances. Questa maquina tanguera produceva bellezza e incanto, sentendosi perfettamente a proprio agio nel maneggiate tutta la varietà di risorse che riconosciamo come specifiche del linguaggio del tango, ma con una forza plastica inaudita nel genere e con combinazioni di assoluta unicità: continui cambi di scena; apparizioni di episodi sonori che poco dopo spariscono per riapparire improvvisamente in un passaggio successivo; piani contrappuntistici che stratificano il tessuto con trasparenze sovrapposte; forme piegate all’assoluta priorità del sentire; passaggi di nudità liturgica dove la musica è come se cambiasse di stato facendosi porosa, melica, addirittura lattea; inesauribile fantasia ritmica con tutto un corollario di deformazioni e poliritmi; momenti di effuso lirismo in arcate melodiche di appagante voluttà; manipolazioni delle melodie originali in una progressione sempre più evidente; una provocatoria inclinazione per lo spostamento degli accenti dalle loro abituali caselle; un sensuale utilizzo del rubato che nella sua indeterminatezza metrica crea parentesi di echi gardeliani; dissonanze, seppur non troppo aggressive in un contesto armonico affatto avventuroso; fratture fraseologiche contrapposte; atmosfere che includono quell’aria pampeana così significativa e sincera nelle pagine di Bardi. Insomma, chiavi fenomenologiche che testimoniano di un lavoro prodigioso, complesso, sempre più creativo nel modo di “trasformare il linguaggio sonoro in simbolo cosmologico” (Schopenhauer). Nonostante questo “alto catechismo di estetica” (popolare), in osservazione della sua discrezione e della sua modestia, Pugliese ha sempre smorzato nell’understatement il valore del suo “dispositivo”. La sua dimensione etica si nutre di umiltà e militanza, riflettendo un’ambiente che sembra essere riassunto perfettamente in alcuni versi scritti da Homero Exposito nel tango Farol, il primissimo tango cancion registrato da Pugliese nel luglio del ’43 con Roberto Chanel: “Un arrabal con casas /que reflejan su dolor de lata” … allí conversa el cielo / con los sueños de un millón de obreros”. Arrabal e i sueños de obreros , il luogo e l’uomo che lo abita, punti cardinali della visione popolare con cui Pugliese entra in simbiosi senza mai allentare la presa, senza separarli mai dalla sua missione di musicista. Tant’è che si ascolta l’ardore della sua orchestra mille e mille volte, assaporandola come un vino celestiale che supera qualsiasi prova di invecchiamento. Così a distanza di tanti anni, il turbamento e il piacere mantengono, o addirittura moltiplicano, il senso di eccitazione della prima volta, con impressioni che scorrono tra le frasi musicali mettendoci in comunicazione con la nostra anima: l’anima…quell’anima che secondo la nostra Wislawa Szymborska “la si ha ogni tanto” perché “nessuno la ha di continuo e per sempre”.