Cari ascoltatori di Radio Tango Macao, a seguito di una delle brillantissime conferenze di Marco Castellani, a cui ho partecipato giorni fa, mi è montata la curiosità di riascoltare uno dei capolavori che in quella occasione sono stati citati o, ancor meglio, inquadrati come un limpido esempio della scrittura musicale di Horacio Salgan, lodato dalle parole di Julio De Caro come “extraordinario pianista y director de orquesta de avanzada, representativo en grado sumo de la Guardia Nueva”. Il capolavoro di cui parlo si intitola A Don Agustin Bardi ed è evidentemente dedicato a questo personaggio della guardia vieja, che un dio benevolo ha dotato di una vena compositiva assolutamente imprevedibile se lo immaginiamo per quello che era dal punto di vista strumentale. Violinista, e quindi pianista inquadrabile nella schiera degli amateur di talento, probabilmente poco attrezzato per affrontare una carriera trascendentale. Assolutamente fuori sintonia con le biografie di tanti musicisti della sua generazione, Bardi si era piegato all’alienazione di un noioso lavoro d’ufficio, dove compilava a tempo pieno registri amministrativi con quella penna dall’inchiostro verde che ispirerà il titolo di uno dei suoi tangos emblematici: Tinta verde. Ma ripeto, lo spirito dei suoi tangos e la capacità di articolarli con melodie indimenticabili, hanno riscattato questo autore dall’oblio a cui sarebbe stato destinato come strumentista. Horacio Salgan è stato uno dei più attenti protagonisti del tango nell’interpretare diverse di queste pagine bardiane e, oggettivamente si può considerarlo come il musicista che insieme a Pugliese, è entrato in una profonda osmosi con il carattere della musica di Bardi, per aver attinto sentimentalmente ad un esprit dove la storia metropolitana del tango si intreccia con una matrice, lontana nel tempo e nello spazio. Quella campera che non riguarda esclusivamente la milonga come è accaduto in genere, ma include suggestioni rintracciabili tra i ritmi folklorici di cui l’Argentina è straordinaria fucina. A Don Agustin Bardi è una composizione che può riassumere emblematicamente questo concetto coniugato da Salgan come una specie di allegoria, per sottolinearlo più del solito nel luminoso arrangiamento realizzato nel 1947 e registrato tre anni più tardi con la sua orchestra, tanto prodigiosa quanto confinata ad un luogo marginale nel cuore settario dei tangueros offesi da sordità emozionale. E’ certo che l’operazione musicale realizzata con questo arrangiamento non si attiene alle regole consigliate a coloro che vogliono o devono ottenere un risultato adatto per il ballo sociale. Siamo di fronte a una musica che nel 1947 è progressista forse ancor più di quella che in quell’epoca componeva Piazzolla. E per arrivare a quel punto, Salgan attinge come tutti gli sperimentatori, alle origini, con quell’operazione strabica secondo cui certi oggetti sonori sono isolati, trasfigurati ed inseriti in un nuovo contesto. Anche in questa circostanza assistiamo a questo procedimento e non solo perché il protagonista della sua gouache è un musicista della guardia vieja. Salgan riesce ad essere sottile nell’utilizzare rimandi alla guadia vieja, esplicitandoli senza che questo risulti una rêverie con effetti più o meno anacronistici. Qui ne incontriamo sostanzialmente due. Che rispondono a due domande che immagino essersi fatto Salgan. La prima: quale è l’elemento ritmico che è subentrato come portante dopo l’epoca aurorale i cui Bardi scriveva i suoi capolavori? La risposta l’ha facilmente trovata: il marcado en cuatro! Questa figura ritmica inizia ad essere assimilata all’epoca in cui il tango smarrisce, o sottomette, il pattern dell’habanera cubana ripresa tale e quale nella milonga. Borges mi benedirà dall’alto ascoltando quello che sto per dire: sì, sembra che Borges segua Macao non foss’altro che perché il nome di questa città gli fa tornare in mente quell’antiquario di Smirne Joseph Cartephilus che parlava una con una misteriosa mescolanza del greco di Salonicco con il portoghese di Macao. Scusate la divagazione alephiana ma uno come me che sta studiando per l’immortalità, anche se biologica e non metafisica, il racconto di Borges lo sa a memoria. Insomma ecco Jorge ci sono: il marcado en cuatro rappresenta l’ordinamento che ha inquinato il tango attraverso le tradizioni musicali europee importate in Argentina dagli immigrati. Borges lo intuiva e lo sosteneva, per sapienza infusa, ma in fondo è proprio così. Altra cosa è dire che i contributi dei “piagnucolosi italiani”, così si inquadrava il vate secondo lo stereotipo del nostro sentimentalismo, ma anche delle altre etnie accorse nell’Eldorado argentino, sia equivalso alla fine del tango. Più concretamente, riprendo il titolo di un libro pubblicato dalla Citè de la Musique all’epoca in cui la dirigeva Boulez: Du noir au Blanc. Solo il titolo basta a visualizzare uno slittamento del linguaggio del tango da musica di prevalente origine afrocubana a genere triplice e più radicalmente urbanizzato che sfuma l’ingerenza della musica europea in tre coniugazioni: la milonga ancora schiettamente afrocubana, il tango che ingloba elementi dalla cultura musicale europea finendo per renderli preponderanti, il vals di lampanti natali mitteleuropei a cui l’inserimento nel trittico dei generi non ha comportato particolari trasformazioni musicali se non un colore criollo delle melodie.
Quindi cosa fa Salgan in A Don Agustin Bardi con il marcado en cuatro ereditato come si è detto? Gli riserva un ruolo marginale facendolo entrare in campo solo in alcune chiusure di frase per calcare con forza l’accompagnamento alla melodia. E cosa inventa per sostituire questa figura che ha fatto la fortuna di intere generazioni di orchestre perché è una guida potente e chiara, generosa offerta ai milongueros duri d’orecchio? Niente. Utilizza ampiamente un elemento emblematico della cultura afrocubana che è la sincopa, evita in qualsiasi momento di inserire la figura della milonga, sottolinea i passaggi ritmici con un’articolazione del fraseggio che dimostra una spiccata personalità e, per quanto riguarda il suo pianismo, emerge tutta la felicità e facilità tecnica apprese alla scuola di Vicente Scaramuzza, un grandissimo maestro di pianoforte, anzi il maestro di pianoforte che insegnava a Buenos Aires e a cui, tra i moltissimi, si rivolse una timida bimbina che in seguito tutto il mondo ammirerà e ammira ancora, Martha Argerich. Dopo aver deciso di iniettare un importante utilizzo della sincope nell’accompagnamento coniugato ad un fraseggio sincopato sviluppato nelle parti ritmiche e staccate della melodia, arriviamo alla seconda domanda che sembra essersi fatto Salgan.
In quali contenitori strutturali si scrivevano i tangos prima del 1920? Rispondendo a questo interrogativo l’esimio musicista “representativo en grado sumo de la Guardia Nueva”, intuisce come strutturale il suo tango che in qualche modo deve alludere alla guardia vieja senza pasticciare con il revival: riprendendo una forma desueta e quindi paradossalmente nuova nel quadro di quel 1947. Facciamo insieme un sintetico ripassino storico. Fino a Milonguita il tango cancion che esattamente un secolo fa inaugurava la futura struttura del tangos in due parti o bipartita (A, tema principale, B, ritornello o estribillo), il tango che (escludendo i couplet alla Villondo come ad esempio El Portenito 1903, o La morocha, 1905) nasceva esclusivamente come brano strumentale, su una struttura tripartita A tema, B estribillo, C trio. Tutti i tangos di Arolas, Firpo, Greco, Porzio, Saborido, … e 1 Rosendo Mendizabal, il capostipite che inaugurò formalmente questa struttura nel 1897 con El Entrerriano, compongono i tangos in tre parti. E anche tutti gli altri fanno lo stesso, compreso Agustin Bardi. Salgan che non ha mai scritto tangos in tre parti come durante l’epoca della guardia vieja perché, lo abbiamo detto con De Caro, è “representativo en grado sumo de la Guardia Nueva”. Ma per l’omaggio al musicista che ha avuto una parte così importante nella codificazione del suo stile, fa un’eccezione ponderata. A Don Agustin Bardi riprenderà come detto, la struttura tripartita. Però dentro quelle tre vecchie scatole cari ascoltatori, si vola! In sintesi, ogni parte ha un carattere diverso sia dal punto di vista melodico che da quello ritmico e timbrico e tutto è governato da un utilizzo del pianoforte che è per così dire concertante, dimostrando la pertinenza di una dichiarazione rilasciata da un autorevole musicista che ha sostenuto come in Salgan si manifesti un certo rococò mozartiano. Il musicista è Arturo Penon, primo bandoneonista dell’orchestra di Pugliese che di A don Agustin Bardi registra una versione vertiginosa che pur essendo sostanzialmente apparentabile a quella dell’autore contiene elementi che Salgan non utilizza. Due esempi rapidissimi, il rubato che in certi passaggi dilata l’esposizione melodica che è anche manipolata e il tres tres dos, l’apparizione di qualche compas con la clave dell’habanera e il tipico bordoneo chitarristico affidato al pianoforte e al contrabbasso che monta vertiginosamente in un incastro ritmico con i bandoneones sotto i violini tutti per arrivare al finale.
Ecco, io restando nella sfera germanica, per questo arrangiamento di Victor Lavallen per Pugliese parlerei di Wunderkammer, perché attraversando con l’ascolto il suo sviluppo, si resta incantati dai riflessi multipli che scaturiscono da tutte le sfumature, i capricci, le traiettorie cristalline che si misurano con i codici del tango in un’impalpabile scherma di sottigliezze. Dall’altro lato Salgan non è da meno e in poco più di tre minuti, la sua straordinaria orchestra è messa nelle condizioni di distillare sequenze di gnomica sapienza, capace di far risuonare gli archetipi del tango con raffinata leggerezza e contemporaneamente invitarlo all’ebbrezza di nuove aporie, esprimendo una giostra di idee musicali nuove, cangianti e coerenti, con echi e specchi, cambi di carattere e flessibilità ritmica, colorate varietà timbriche e intrecci melodici. E’ un Agustin Bardi diverso da quello di Pugliese e ancor più diverso da quello che lo stesso Pugliese ha salutato con la sua composizione intitolata Adios Bardi del 1944, realizzata con un arrangiamento che ha forti influenze troileane. Devo però confessare che qualsiasi mio tentativo di descrivere con le parole la musica, aldilà di alcune informazioni circoscritte alla superficialità e le immagini metaforiche più o meno riuscite, mi sembra veicolo di una comunicazione soggettiva che cerca di avvicinarsi alla verità con un mezzo improprio, senza coglierne l’essenza. Per questo motivo in questo caso, in cui il mio intervento è focalizzato su un brano, mi sentirei più a mio agio trasmettendo agli ascoltatori un contenuto più strettamente musicologico e per questo più ostile alle ragioni di una fruizione leggera che condivido e che è una legittima aspirazione per un prezioso appuntamento radiofonico come questo da cui vi parlo. Pertanto, volendo stanare i curiosi, i conneisseurs, i professionisti, senza sprofondare nel tedio gli altri, ho pensato di realizzare un’analisi un po' più dettagliata del brano di cui vi ho descritto le meraviglie, proponendo la modalità on demand. Vale a dire che la redazione della radio si presta a mettere a disposizione questo ulteriore contributo a chi lo richede. Anche dal Paradiso Borges!!!!
22 giugno 2020
Volare con Salgan in nome di Bardi
di Franco Finocchiaro
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