"Le stravaganze di questo genio hanno raggiunto il colmo:
Beethoven è pronto per il manicomio!”
Karl Maria von Weber

Nell’ambito della musica rio platense non c’è stato nessuno come Eduardo Rovira a incarnare magistralmente la figura dello sperimentatore, in grado di conquistare esiti straordinari attraverso un’arte sottile, capace di contemplare qualità differenti diventando il crocevia di echi multipli, tradotti in misure esatte e lucide, trascoloranti e impalpabili, erratiche e sfuggenti, illuminate dalla luce senza perché della bellezza. Così le sue composizioni vibrano in una molteplice tensione espressiva e il tango vi traspare tra complicità e attriti, alleanze e sfide, acido e amore, denunciando in filigrana quanto siano radicate nella scia lunga della corrente evoluzionista che lui stesso ha splendidamente praticato e quindi esorcizzato per alleggerirsi dalla sua eredità. In questo quadro, al contrario dei fondamentalisti a senso unico del tango e contro il loro rifiuto drastico verso ogni novità, Rovira si è battuto con uno spirito politeista, anarchico, eccentrico, agendo nella zona di frontiera tra la musica popolare e quella colta, luogo di confronto e transito ricco non meno di dubbi e ombre che di sogni, di aloni enigmatici, di vertigini dell’anima. Nonostante un prodigioso curriculum di tanguero de pura cepa lo abbia visto direttore di una sua orchestra ma soprattutto in prima linea al fianco di illustrissimi direttori di orquesta tipica quali, Florindo Sassone, Antonio Rodio, Miguel Calò, Osmar Maderna, Orlando Goñi, Alfredo Gobbi, l’Octeto la Plata di Osvaldo Manzi, la sua fuga per la tangente di un sogno intellettuale da esplorare gli è costata il prezzo ingiusto dell’isolamento e i giudizi crudeli che toccano agli artisti in anticipo sulla loro epoca (l’aforisma di Karl Maria von Weber in esegro ne è un esempio lampante). Oltre ad auto relegarsi, nell’ aspro esilio degli incompresi che sono pronti a tutto per difendere la loro purezza, Rovira ha scelto di rifugiarsi nella quiete provinciale di Lanus prima e La Plata poi, piuttosto che immergersi all’atmosfera caotica di una metropoli come Buenos Aires. A dargli forza nello schiudere un orizzonte inaudito nell’ambito della musica popolare, oltre ai musicisti dei suoi gruppi che si sono abbandonati con adesione assoluta ai suoi progetti, pochissime persone di grande valore. Tra queste contiamo il suo agente Eduardo Parula, lo storico del tango Oscar del Priore, i protagonisti del Circulo del Buen Tango e soprattutto il manipolo di intellettuali riunito sotto il nome di Gente de Buenos Aires in cui, oltre a Rovira stesso, spiccano i nomi dei poeti Luis Luchi e Roberto Santoro, insieme a quello dell’artista plastico Pedro Gaeta. Sfidando anche l’oblio a cui la sua opera sembrava fatalmente destinata, a Rovira non è rimasta che la poesia del suo idealismo da esercitare in un ambiente segnato da piaghe insanabili, ricercando e quindi conquistando un’identità linguistica che superava la specificità del tango, incamminandosi verso una estetica tutta da costruire. Presto i frutti della sua solitudine e del suo sforzo, hanno offerto una musica icastica, lucente, ritagliata come un quarzo sul preciso fuoco ottico del rigore che gli è sempre stato amico e non solo per le questioni musicali. Pagina dopo pagina il suo stile compositivo si è fatto imprendibile, portatore di molteplici suggestioni tanto da diventare complesso come un labirinto, quintessenza mercuriale di un’esplorazione che ha avuto il carattere delle avventure trascendenti: quelle a cui non sanno rinunciare gli artisti che sentono il bisogno di mettersi in cammino fino all’ultimo orizzonte. Maestro di una diversità radicale nell’ambito della musica popolare rioplatense, Rovira insisterà per tutta la vita nell’ambizione di usare lo stile come strumento di rappresentazione, in armonia con la convinzione universale secondo cui lo stile è l’essenza dell’arte o, meglio ancora, la sua stessa plastica argilla. Il suo modo di plasmarlo si è dimostrato variegato e rutilante, irriducibile a qualsiasi retorica perché sempre ispirato dal soffio dell’altrove che lo ha aiutato a proseguire, gettando le sue interrogazioni dal fondo della sua anima verso il cuore oscuro della musica. Sappiamo come per conoscere questo cuore sia necessario approfondire il mondo dei suoni e delle loro relazioni con un lungo studio: Rovira ne ha percorso tutte le tappe con pazienza e costanza finchè è vissuto, sotto la tutela di un insuperabile didatta come Pedro Aguilar, anch’egli con un piede nel tango e l’altro nella musica che ancora molti insistono nel chiamare accademica. Seguendo la guida di questo prezioso Maestro, gli studi di armonia e contrappunto hanno avuto la funzione di una vera e propria iniziazione, spalancando le porte ad una specie di verità a cui Rovira si è abbandonato come chi si affida alle illusioni più pure. Al culmine di questi approfondimenti, dopo aver appreso l’arte della fuga, i criteri del contrappunto e tutta una serie di elementi caratteristici nel lavoro dei grandi autori classici da Bach a Stravinsky, Rovira era atteso dalla tecnica dodecafonica che con la serialità rappresenta un linguaggio intransigente e chiuso in regole impietosamente fredde, tanto da essere in grado di scatenare la “tragedia dell’ascolto” (Adorno dixit). Applicando le sue norme, si corre il pericolo di costringere la melodia nella gabbia del contrappunto, spostando fatalmente l’emozione verso l’emisfero cerebrale. Ebbene, anche nelle composizioni più rigorosamente dodecafoniche, Rovira riesce a non essere algido, distante, velleitario, facendoci sentire la voce libera dell’usignolo melodico. Nella sua polifonia discorde e turbativa, in cui una teoria di echi perduti sembra raccogliere i fantasmi del tango nel prisma di una scrittura musicale chiarissima, si realizza con naturalezza l’incrocio di linguaggi musicali palesemente diversi e storicamente indirizzati a destini inconciliabili. Naturalmente per riuscire in questa scommessa bisogna maneggiare con intima confidenza tutti i materiali che ascoltiamo convergere nel risultato finale. A questo proposito è necessario fare un passo indietro e ricordare con quale senso costruttivo e sensibilità architettonica si presentano i suoi arrangiamenti nell’ambito del tango classico, dicendoci quanto il suo atto creativo in questo ambito fosse fondato su una approfondita conoscenza di questo genere nobile: e del resto come si fa a intraprendere la rivoluzione di un linguaggio se non se ne conoscono i segreti? Rovira ne sceglie alcuni, utilizzandoli come una traccia con cui ci avverte che le origini del suo fervore creativo sono proprio lì, nel tango. Allo stesso tempo l’autore lascia che queste si intreccino con qualcos’altro così da prendere una sembianza sfuggente rispetto ai canoni conosciuti, realizzando il sogno estetico di una grammatica complessa capace di articolare una lingua liquida. Una liquidità musicale che è sempre libertà, differenza, movimento, terreno di sguardi incrociati tra il pragmatismo e l’idealismo, distanza dal senso che essa stessa vorrebbe esprimere e dalle radici che vorrebbe testimoniare. Come un cristallo liquido e vivo, incomprensibile e trasparente nei giochi d’incastro delle sue scatole cinesi, la musica di Rovira si offre in un diorama enigmatico che possiamo amare e frequentare a lungo senza sapere quali pensieri e quali visioni si annidano in lei: ma una volta dissipate le linee d’ombra conradiane che la attraversano, potremmo paradossalmente dire con un ossimoro che il tango nella musica di Rovira non c’è eppure la riempie. Per questo se strappiamo alla loro ineffabilità i tessuti musicali che Rovira dipinge sovente a tinte scure e misteriose, scopriamo che in loro agisce una sorta di filtro preventivo e necessario a sostenere, con la forza felina di chi lotta, la linea di una ferma chiarezza ideologica intorno a quello che il tango era stato e quello che sarebbe divenuto attraverso l’esercizio lacerante e necessario del distacco. Rovira si avventura in un terreno musicale dove agiscono campi di forza che rendono minacciosa la materia sonora, sia per l’indefinitezza della sua stessa massa che per la sua predisposizione a non essere ordinata secondo regolarità prestabilite. Tuttavia, nonostante le costruzioni sofisticate di una scrittura che è sempre così originale da morire e rinascere dalle sue ceneri in tutte le occasioni, la musica di Rovira conserva in superficie la grazia della semplicità, riuscendo a mettersi in comunicazione con l’ascoltatore a cui si rivolge, per indurlo ad un abbandono di carattere evocativo, palpitante di emozioni. Questo pubblico ristretto non lo si trova e non lo si è mai trovato tra gli appassionati di tango se non in minima parte. Principalmente appartiene a quello più aperto e curioso del milieu intellettuale e gauchiste che lo stesso Rovira ha frequentato con assiduità, scambiando e soprattutto ascoltando opinioni, teorie, concetti estetici anche se non direttamente inerenti alla sfera musicale. Così seppur quasi esclusivamente strumentale, nell’opera di Rovira esiste un fortissima influenza poetica, non più diretta e legata al canto come era accaduto tra il compositore e il letrista nel tango della tradizione e stava accadendo in una forma inedita tra Astor Piazzolla ed Horacio Ferrer: la poesia in Rovira non dà luogo ad una nuova versione del tango cancion ma va molto più in là scoprendo due possibilità alternative. La prima di carattere evidentemente evocativo con una serie di titoli ispirati ad una certa categoria di letterati, quella più popolare e militante in cui figurano Evaristo Carriego Roberto Arlt, Luis Luchi. Per inciso e per collocare l’ambiente culturale in cui agiva Rovira, è necessario ricordare che le tre opere finirono in un disco realizzato dalla mitica casa editrice La Rosa Blindada, palesemente schierata con i movimenti di sinistra e il cui nome è il tributo in onore ad una storica raccolta di versi del poeta Raúl González Tuñón, dedicati ad una rivolta operaia nelle Asturie durante l’epoca della Spagna repubblicana. La seconda verso l’esperienza del reading, come nel caso in cui il poeta Fernando Guibert è stato chiamato a declamare i versi del suo poema Tango, scoccando il loro lampo dolce e violento durante la presentazione della suite Tango Buenos Aires-Opus 4 nell’Aula Magna della Facoltà di Medicina di Buenos Aires, o quando alla sala del Nuevo Teatro partecipò con la sua Agrupacion de Tango Moderno ad un recital del poeta Luis Luchi che con lui condivideva l’adesione ai principi del comunismo. Più in generale, anche se la musica sembra governata da una priorità di ricerca armonica e da un pensiero che non si riduce ad automatismo formale, l’atto creativo di Rovira è mosso da impressioni visive in cui egli cerca di immedesimarsi restituendo un quadro della propria dimensione interiore con le relative attitudini psicologiche, le proprie inquietudini artistiche, il proprio marchio estetico che in lui ha sempre coinciso con quello etico. Quindi non è possibile cadere nell’equivoco di catalogare le sue opere nel capitolo della musica a programma, descrittiva di un evento naturale come quella che potrebbe essere derivata da una icona figurativa: esse custodiscono significati che, in senso estetico e non teologico, possiamo definire “esoterici”, esprimendo una Stimmung secondo cui sono suscitati sentimenti che ancora non hanno un nome, sottoforma di emozioni sottili, inesprimibili a parole. In un modo del tutto personale, forse inconsapevole, Rovira iscrive umilmente il suo stile nella scia heideggeriana, applicando la nozione di arte come linguaggio dell’essere, per condurci in quella regione dove le esperienze musicali non sono solamente acustiche ma hanno un importante versante psichico. Prestando l’ascolto a quest’ultimo e alla sua energia spirituale, quasi mistica, viene spontaneo pensare che la leva creativa di Rovira sia stata quella dettata dal principio kandinskiano della “necessità interiore”, un desiderio iniettato nella musica in generale e nel tango in particolare, attraverso diversi strumenti tecnici coniugati con una costellazione di dettagli grammaticali. Provando a farne un succinto elenco, innanzitutto è fondamentale ricordare come le sue conoscenze dell’armonia e del contrappunto, hanno consentito a Rovira di aggirare i canonici movimenti delle voci che ascoltiamo nei migliori arrangiamenti del tango tradizionale seguire il parallelismo di terza o sesta: negli arrangiamenti e nelle composizioni roviriane, il trattamento delle voci melodiche avviene secondo linee indipendenti che intrattengono tra loro una palese relazione contrappuntistica. Gli approfondimenti delle tecniche armoniche non si sono fermate qui, portando Rovira nel cuore della dodecafonia, ed è noto come comporre musica sui precetti dodecafonici necessita di tutte le cautele. L’introduzione di queste norme ha bisogno di svilupparsi come una lenta, paziente avventura, non può fiorire se non su un arazzo di immagini capaci di coniugare insidie e compimenti, difficoltà e fiducia nei doni della conoscenza, liberata dalle briglie delle stesse formule cruciali che la nutrono. In diverse circostanze le sue opere fanno uso di una dodecafonia per così dire impura, utilizzando in maniera non consecutiva la serie dei dodici suoni ma, giungendo allo scopo di proporre rapporti enigmatici tra gli intervalli delle note che manifestano soluzioni impossibili da decifrare sul piano della loro tonalità e quindi sono sostanzialmente politonali. E’ l’intelligente mediazione necessaria a conciliare l’inconciliabile e quindi a creare un tango inaudito che attinge agli insegnamenti della Seconda Scuola di Vienna e, attraverso essi, ripensa il colore locale che la musica rioplatense aveva continuato ad esprimere meravigliosamente, anche senza quelle discontinuità che con un termine mutuato dalle scienze sociali, chiamiamo rivoluzioni. Detto ciò, le frasi musicali non esauriscono certo la loro impostazione in un’ennesima variante del canone dodecafonico, ma trovano sempre il modo per farsi veicolo di una garbata ars combinatoria. Attraverso questa modalità, ascoltiamo le sue opere scorrere in bilico tra sezioni tonali/modali e sezioni in cui la forza gravitazionale della tonalità sembra svanire nella polvere argentea di suoni dissonanti che incrinano il cuore dell’armonia fino a sbriciolarlo. Il procedimento fa distinguere alcune tessere ricorrenti che oltre alle diverse sfumature del tango riguardano gli elementi autoctoni di tipo folklorico e le suggestioni ispirate dalla cosiddetta musica colta. In quest’ultimo campo Rovira attinge ad influenze di diverso segno senza mai farsi brutta copia, pastiche, arazzo manieristico, bensì molteplicità di risonanze. Come non riconoscere quelle della musica romantica; quelle di un barocco greve seppur con speciale riferimento a Johan Sebastian Bach e all’uso di accordi diminuiti o di finali con la quarta sospesa; quelle di autori russi come Dmitri Schostakovich o Igor Stravinsky di cui viene ripresa la sonorità in certi trattamenti armonici per quinte parallele; quelle di Beethoven o Mozart in alcune tessiture contrappuntistiche imitative a tre voci che ricordano passaggi emblematici delle loro sinfonie. Ascoltando con attenzione analitica i manufatti musicali usciti dalla sua officina creativa, ci sono senz’altro altre particolarità che si possono cogliere di frequente nel lavoro di Rovira, amalgamate nel suo stile di compositore ricercato che ci risparmia comunque qualsiasi leziosità. Sono il ricorso al cambio di metrica, anche utilizzato più volte in uno stesso tema; l’utilizzo di poliritmi, di pedali armonici dal sapore barocco, di contrappunti imitativi che articolano fugati; di dissonanze, di cadenze frigie, di tempi dilatati o sospesi, di cromatismi melodici; di forme polimetriche duttili e porose in cui si sovrappongono differenti linee melodiche; di linee del contrabbasso che sovente alternano in tutta semplicità la tonica e la quinta, mentre in altri casi insistono ipnoticamente nel gesto ritmico di uno schubertiano pedale di tonica sul quinto grado. A tutto questo bisogna senz’altro aggiungere una puntualizzazione sul suono d’assieme che utilizza i timbri strumentali per alimentare la tensione con cui si sviluppa il fraseggio. In questo capitolo si iscrive il tentativo di introdurre nuove sonorità tra le quali quella del bandoneon elettrificato e dotato di un pedale che introduce un vibrato differente da quello naturale consentito dallo strumento. Impura e cretosa, lacerata da una passione irriducibile, illuminata da illusioni capaci di sostenere il lavoro dell’autore di fronte alla minaccia della loro vanità, nella musica di Rovira si annida un quid difficile da esprimere. E’ come se una volta afferrato un concetto la musica ci rigettasse sempre oltre, verso un orizzonte inattingibile dove intarsi di fumo coniugano un corteo di mezze oscurità e chiarezze sfuggenti, di piccole ellissi e diffrazioni ondeggianti. Questa scrittura iperbolica custodisce i segreti e l’essenza dello stile che l’autore ha coltivato con un sentimento di fedeltà, attenzione e rispetto. Molto più accessibile è l’analisi musicale sul piano strutturale, dove l’approccio consueto di Rovira è quello di giustapporre, repentinamente e senza preparazione, spigoli vivi di sezioni che essendo palesemente differenti tra loro, creano cortocircuiti armonici imprimendo scosse nervose alla metrica, alla velocità, alle coloriture dell’atmosfera evocativa e perfino alle sovrapposizioni sonore che sanno ridursi al pathos malinconico di magiche trasparenze. Il ripetersi di questo metodo organizzativo nella composizione, ci fa pensare che il suo modo di lavorare così felicemente generoso, non segue lo sviluppo di un’idea ma pone fianco a fianco idee differenti che si susseguono senza alcuno smussamento o consequenzialità, imponendogli di ricorrere alla ripresa della parte fondante della composizione come espediente da offrire all’orientamento dell’ascoltatore: chi è catturato dal fascino di questo labirinto, non può che trattenere il respiro per riaffiorare alla fine dei suoi incantesimi musicali come dall’acqua di un sogno. Questa poetica così rigorosa che sembra corrispondere in pieno al carattere di questo piccolo uomo introverso, riservato e bohemien che non ha mai indossato nessuna maschera per apparire diverso da ciò che era, non manca di un lato ironico, per intenderci alla Satie. Lo incontriamo con sorpresa quando intitola Para piano y orquesta, una delle sue più interessanti composizioni, mentre l’orchestra è solo un piccolo gruppo d’archi (2 violini, viola, cello e contrabbasso) ed addirittura il pianoforte non figura nell’organico se non in una maniera metafisica: infatti, tutto fa pensare che il titolo rimandi alla struttura del brano, sviluppato come un classico movimento del concerto per pianoforte nel periodo romantico. Per completare il suo ritratto musicale è d’obbligo accennare anche al Rovira vulcanico polistrumentista, abilissimo nel destreggiarsi con il pianoforte, l’oboe, il corno inglese, il fagotto e la chitarra, oltre che essere un virtuoso del bandoneon. Questo magico strumento dagli esorcismi potenti e fantasiosi, per lui non aveva segreti tanto che lo suonava con disinvolta agilità, anche quando le trascinanti cascate di note presenti nelle variazioni più vertiginose erano particolarmente ostili. La sua tecnica eccelsa, che non ha alcun bisogno di didascalie, gli consentiva una perfetta sincronizzazione della differente diteggiatura da utilizzare in apertura e in chiusura del mantice, come del resto riusciva a fare Piazzolla, ma superando il maestro di Mar del Plata nell’arte dell’improvvisazione, sfoggiata con fluidità e senza indugio né risparmio durante le sue performance dal vivo. Ribattendo il tasto delicato della relazione con Astor Piazzolla, credo che dopo un’analisi obbiettiva pochi musicologi penserebbero a situare il nome di Rovira sotto la sua ombra gigantesca, e in effetti i due autori sono lontanissimi tra loro e non solo per la natura delle loro creazioni: l’unica cosa che li accomuna con certezza è la furiosa, acre e indignata necessità di scavare la materia musicale sostenuta dall’incrollabile, appassionata, caparbia fiducia nella loro ricerca musicale. Nell’attrito continuo tra i pensieri e i fatti, tra i sogni e il reale, Rovira ha covato instancabilmente la sua musica per quanto all’epoca potesse essere incompresa. Inoltre, come se pesasse su di lui la lacerante angoscia di un presagio terribile, il febbrile desiderio di completare la sua opera ha raccolto tutte le energie dei suoi ultimi anni. Sicuramente il compito che si prefiggeva non è stato portato a termine, al contrario del presagio che puntualmente si è avverato nel pieno della sua maturità artistica. Eduardo se n’è andato improvvisamente così come è vissuto, confitto in un mistero che ha qualcosa di profondamente doloroso. Da quell’inatteso giorno del 1980, Rovira continua ad essere un imprendibile autore di culto, più trasparente e puro di un angelo: la sua figura non è rientrata neppure nella casistica dei talenti straordinari, quelli riconosciuti pienamente solo dopo la morte, perché ancor oggi, si resta in attesa che la sua musica memorabile sia ripescata dal mare dei capolavori sommersi, interrompendo d’incanto il trentennio che è stato un lento, amaro distillato di silenzio su queste pagine.