Aprile 1955. Astor Piazzolla rimette il piede sul suolo argentino reduce da un’esperienza parigina per certi versi traumatica, in quanto ha dovuto sopportare una lacerante ferita narcisistica: doveva rassegnarsi a non inseguire la chimera di una carriera da compositore nell’ambito pomposo della musica accademica. Il consiglio dell’inflessibile Nadja Boulanger da cui Piazzolla aveva approfondito i segreti della composizione, non lasciava spazi a repliche. L’obbiettivo auspicabile e realistico era quello di non insistere in una scrittura che finiva per ridurlo ad una brutta copia; basta scimmiottare Bartok, Stravinskij, e gli altri guru novecenteschi, ma piuttosto era necessariocodificare uno stile dove si potesse riconoscere il “vero Piazzolla”. E questo stile non doveva smarrire le tracce del passato favoloso del tango di cui Astor era un profondo conoscitore. Lo testimoniano la collaborazione quinquennale con Troilo e l’orchestra di Piazzolla stesso, guidata già con una certa personalità. E’ in una delle sue prime composizioni, El desbande, che verso la fine e nel giro di pochissime battute, si annuncia qualcosa che è ancora, e solo, una cellula impazzita in un organismo orchestrale con un suo stile ma certamente inquadrabile nel novero dell’offerta tradizionale di indirizzo decareano. Seguire i consigli della Boulanger non significava tornare al 1946 in cui El desbande e Piazzolla un’idea chiara, anzi chiarissima, verso dove indirizzarsi ce l’ha. Formare un ottetto con l’organico identico a quello del sexteto di Juluo De Caro, aggiungendo un violoncello ed una chitarra elettrica suonata con il linguaggio jazzistico di scuola cool. Anche i nomi dei musicisti sono ben chiari a Piazzolla e Luis Sierra è incaricato di contattarli per proporgli di entrare tra le fila del nascituro Octeto de Buenos Aires. I musicisti, tutti di primissimo ordine, accettarono, rendendosi disponibili a preparare un repertorio costituito da 19 temi, alcuni originali di Astor, altri appartenenti alla tradizione del tango. Non credo potessero immaginare cosa li aspettasse! Negli arrangiamenti del leader era riposto il sogno di dare un futuro dinamico al tango, realizzando una sintesi in cui alla radice popolare si doveva innestare un’influenza jazzistica e una serie di accorgimenti mutuati dalla musica classica, quindi inattuali. Cerco di spiegarmi meglio su quest’ultimo concetto. Se ascoltare l’opera di Piazzolla dalla sponda del tango equivale a considerarla d’avanguardia, quando la si analizza nel quadro della musica del novecento, si percepiscono le linee di un indirizzo neobarocco così come lo può utilizzare e tradurre un compositore come lui, capace di ridare dolcezza a sequenze armoniche abusate per via di un volo melodico di inesauribile traiettoria, di un lirismo bruciante ed unico nella scena del secolo dove gli autori (e la critica) sono rimasti sordi ai valori dell’emozione, del batticuore e dell’incanto. Nel bel mezzo delle prove dell’Octeto l’Argentina è scossa da un fatto storico che avrà ripercussioni dirette sul tango: Juan Peron è destituito da un golpe auspicato e applaudito dalla classe media. A seguito di questo avvenimento sconcertante, la politica culturale del paese cambia e il tango ne fa le spese, mentre è agevolata in tuti i modi l’invasione del rock and roll e di tutti i generi in voga fuori dai confini del paese. Il progetto politico è di ridimensionare radicalmente l’importanza identitaria che il popolo ha incarnato nel tango, nel cinema nazionale e nel football, seppure quest’ultimo è salvato in quanto non inerente ai commerci internazionali che invece riguardavano la musica e un’industria cinematografica fondamentale per importare modelli culturali utili al regime. L’effetto è travolgente e passo dopo passo le orchestre di tango si sciolgono o ridimensionano il proprio organico, diventando quartetti, quintetti, perfino duetti. Pochissimi idoli resistono: Pugliese e sempre in maniera travagliata perché su di lui pesano le limpide posizioni idelogiche che non sono ben viste; Troilo, che in ogni caso ha realizzato un piano B istituendo un quartetto con il chitarrista Roberto Grela; Carlos Di Sarli, Juan D’Arienzo, Francisco Canaro, Osvaldo Fresedo… I locali da ballo che non chiudono, ospitano le musiche alla moda tra i giovani e per i tangueros le occasioni di lavoro si riducono implacabilmente, mentre i milongueros ricacciare nei barrios, si abituano ad un nuovo soggetto; il musicalizador che sostituisce le orchestre dal vivo per ovvi motivi di opportunità economica. Sostenuto da un temperamento inossidabile, incline a lanciarsi anima e corpo nelle sfide più disperate, Piazzolla attraversa questa crisi come Fabrizio del Dongo la battaglia di Waterloo. E come avrebbe fatto a continuare a credere che gli arrangiamenti del suo ottetto sarebbero stati accolti da un largo successo, se non in preda ad uno straniamento accecante? Niente da fare: il suo istinto gli dice che finalmente è maturo il momento di fare soldi a palate. Nel suo delirare, redige addirittura un decalogo in cui disciplina, ancor prima del debutto della sua nuova formazione, le attività ammesse e quelle no. Il documento è pubblicato nell’ottobre del ’55 sulla rivista peronista De Frente, informando che l’Octeto rifiuta di eseguire musica commerciale da ballo e il suo repertorio sarà esclusivamente strumentale. La sua attività sarà rivolta a presentazioni radiofoniche e televisive, a concerti, dischi e spettacoli. Su queste basi e dopo i sei mesi di prove necessarie a digerire le diavolerie piazzolliane, l’Octeto de Buenos Aires debutta alla sala Verdi di Montevideo nel novembre del 1955, invitato da un gruppo di appassionati che si riunisce sotto il nome di Guardia Nueva e tra i quali figura il giovane Horacio Ferrer, incaricato di presentare il concerto. L’accoglienza è trionfale ed esiste almeno un tema registrato in quell’occasione. Si tratta dell’arrangiamento di Tierra querida, un tango di Julio De Caro che lo stesso Piazzolla aveva già inciso con la sua tipica nel 1947. Invece con L’Octeto rimarrà tra i brani del repertorio non inclusi nei due dischi realizzati dal gruppo. L’arrangiamento dà un grande spazio alla chitarra suonata da Horacio Malvicino che qui oltre ad improvvisare a lungo espone anche il tema iniziale. Quello che traspare in questa registrazione, nonostante non sia di buona qualità, è la straordinaria testimonianza dell’energia erotica con cui suonavano questi otto fuoriclasse, assolutamente padroni di un fraseggio di impressionante poesia espressiva, eseguito con una tecnica esecutiva irreprensibile. Il tutto in un arrangiamento vertiginoso come del resto tutti quelli incisi nei due LP che l’Octeto ci ha lasciato. In due parole, cosa c’è dentro gli arrangiamenti dell’OBA? Innanzitutto, spogliata dei panni della maniera, la sua musica si è fatta permeabile a contenuti eterogenei e alla caduta di alcuni tabù. Per esempio quello che suggeriva ad un arrangiatore di manipolare solo lievemente una melodia originale, lasciando che quella scritta dall’autore fosse decifrabile. Qui questa procedura è quasi ribaltata da manipolazioni radicali che non hanno precedenti così estremi in tutta la storia del tango. Viene a cadere anche la consuetudine di mantenere un metro ritmico che in precedenza, seppur aperto al rubato, al ritenuto e ad altri dettagli ereditati dal linguaggio gardeliano, non doveva dar luogo a diversi e significativi cambi di tempo per intere frasi musicali. Alle pirotecniche variazioni a cui ci ha abituato il bandoneon, nell’Octeto si alternano quelle della chitarra elettrica che porta con se un timbro assolutamente nuovo e un linguaggio radicato nel jazz. Il marcado en cuatro e quello en dos che sono le figure portanti negli arrangiamenti del tango fino a tutta l’epoca d’oro, non hanno più la prevalenza di prima pur restando palesemente riconoscibile la natura ritmica delle interpretazioni che hanno la forza viva di una fiamma guizzante. Infine, in alcuni casi l’armonia viene spinta verso procedimenti stravinskiani che emergono anche nella giustapposizione tra le sezioni strutturali delle composizioni originali. Per concludere questo intervento di presentazione dell’Octeto, consiglio ai lettori che si sono incuriositi di ascoltare con attenzione almeno due temi incisi nel 1957 sul disco Tango Moderno. Il primo è un vecchio tango scritto a Parigi da Eduardo Arolas e dedicato alla memoria della devastante battaglia sulla Marne durante la Grande Guerra. Il suo titolo è El Marne e qui il senso della drammaticità di quella battaglia è colto in pieno dalla furia nichilista di Piazzolla che giunge a frantumare in tema originale con l’obbiettivo di renderlo praticamente irriconoscibile se non per alcuni brandelli che portano in primo piano piccoli frammenti della melodia di Arolas. Da brividi è l’incantevole assolo del magico violino di Enrique Mario Francini con quel suo suono teso e così dolce da ammorbire tutte le tensioni tumultuose che hanno accompagnato l’ascoltatore fino a questo punto dell’arrangiamento, senza cadere nelle trappole del sentimentalismo a buon mercato. Lo stesso vale per la drammatica variacion fraseada di Piazzola, inequivocabile dimostrazione dell’eredità troileana ed infine la variacion corrida della chitarra che vola imprendibile sul tessuto ritmico melodico degli altri strumenti. Il secondo tema che vi consiglio è un tango che Piazzolla ha scritto anch’egli, come El marne di Arolas, a Parigi e che prima di registrarlo in Argentina con l’Octeto incide nel 1955 in Francia nel disco Sinfonia de Tango, con un gruppo di archi dove figurano 8 violini, 2 viole, 2 violoncelli, un’arpa e gli indispensabili, contrabbasso, pianoforte e bandoneon. Il titolo di questa composizione è Marron y azul, scritta à la diable, tesa, compatta e abrasiva. Sempre attentissimo alle novità, a Buenos Aires Osvaldo Pugliese la registrerà nel 1956, ancor prima dell’Octeto di Piazzolla. Molto diversa sia dalla versione parigina che da quella di Pugliese, la registrazione dell’Octeto de Buenos Aires parte già fisionomicamente tagliente, con un rilievo sonoro di pregnante rilevanza ritmica. Una tensione rabbiosa che si placherà solo nel primo adagio del bandoneon che parafrasa una delle linee melodiche costitutive del tema. Poi di nuovo a mille, … quindi tiempo matado e solo di violino, come sempre ispiratissimo di Francini. Arriva il momento della chitarra che inizia in maniera lenta e malinconica mentre sotto il ritmo è incalzante con il bandoneon che porta alle stelle la tensione facendosi, come dice Ramos de la Serna: “navigatore e audace, che lancia inaspettatamente pugnalate sicure”. La chitarra ne segue le intenzioni e aggiunge i suoi acidi graffianti al carattere impetuoso dell’accompagnamento. La sua variazione diventa corrida, fitta fitta di note portando insieme agli altri la tensione al massimo fino al lungo accordo tenuto dal bandoneon per il finale. Qui jazz e Tango danno luogo ad un ossimoro: una contaminazione pura! Astor Piazzolla primo bandoneon, Leopoldo Federico secondo; Enrique Francini, Hugo Baralis secondo; Josè Bragato violoncello; Horacio Malvicino chitarra, Atilio Stampone pianoforte e Juan Vasallo contrabbasso. Questi sono i nomi degli artisti riuniti nel funambolico Octeto de Buenos Aires, per provocare il linguaggio del tango a scoprire la sua porosità, mettendosi in discussione per aprirsi un varco tra i suoi procedimenti che il tempo e l’uso avevano laureato canonici. Se questi obbiettivi sono ancor più che centrati, tutto il resto che riguarda questa esperienza è un meraviglioso fallimento. Piazzolla ne è molto amareggiato e decide di sciogliere la formazione per partire alla volta di New York dove fallimenti ancora più cocenti lo attenderanno. Ma il bandoneonista di Mar del Plata, è un personaggio selvatico che difende la sua coerenza etica con una risentita, esplicita veemenza e possiede lo slancio prometeico dell’eroe romantico. Un idealista che crede fermamente in sé, sapendo il prezzo da pagare per il viaggio nel futuro del tango: quello così ben descritto nell’aforismo ideato da Woody Allen molti anni dopo: “se di tanto in tanto non hai degli insuccessi, è segno che non stai facendo nulla di innovativo”. Ritornerà a Buenos Aires all’età di quarant’anni e ci riproverà ancora con testardaggine. Nonostante la ferma ribellione di cui è stato artefice, con il passare degli anni, il piacere e l’apprezzamento estetico per il tango è cresciuto dentro di lui nutrendo la fenomenologia del suo repertorio retorico che lo disarticola in formule costantemente riprese come autocitazioni. In un’intervista il grande eretico confessa che “el tango se lleva dientro de la piel” come una forma d’amore intramontabile. E lui lo custodisce come una conchiglia custodisce l’eco del mare.
13 luglio 2020
Volver 55
di Franco Finocchiaro
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