Grazie al cielo è lunedì, mi verrebbe da dire, se non fosse che questo è un giorno che non gode di molto prestigio, di un prestigio, diciamo, condiviso. Non ho mai visto nessuno andare a scrivere W il Lunedì sui muri. In compenso c’è una canzone di enorme successo dei Boomtown Rats che si chiama I Don’t Like Mondays, ispirata dalla più grande strage scolastica dopo quella di Columbine, la strage del college di San Diego, nel 1979, perpetrata da una ragazza sedicenne che non gradiva i lunedì. Ha sparato 30 caricatori. Perché l’hai fatto? I don’t like mondays, ha risposto. Forse la brutta reputazione del lunedì risale proprio agli anni della scuola dell’obbligo, un compito in classe il lunedì mattina semplicemente non si fa, è sleale, così come l’interrogazione alla lavagna. Il lunedì è inasprimento della pena, il lunedì prolunga e acuisce la malinconia della domenica sera, sentimento di palpito internazionale da cui il termine Sunday Blues. I puntigliosi americani sanno coniare una sigla standard per ogni possibile situazione umana. Il lunedì, specialmente il lunedì mattina, è un giorno di fil di ferro, segaligno, pieno di spini, cattivo come un peso piuma messicano, spigoloso come un terzino destro basco. Non è grasso come il giovedì, o venerato come il venerdì. Il martedì e il mercoledì sono due giorni inaffidabili, due doppiogiochisti, non si sa mai da che parte stanno, sono il poliziotto buono e il poliziotto cattivo della settimana.
Invece a me il lunedì piace. Mi ricorda quando arrivi troppo tardi al ristorante e ti vogliono mandare via. Le sedie sono ribaltate sui tavoli, la cucina è chiusa e invece viene fuori il padrone e ti dice: ma no, accomodatevi, ragazzi, ci penso io. Ecco sedetevi qui. E poi sparisce, va a prendere una tovaglia bianca di bucato, di cotone pesante, fresca, profumata di Marsiglia, e la sbandiera sopra la sua testa e con un gesto plateale la fa atterrare sul tavolo. E d’improvviso tutto s’aggiusta, come in una magia. Ecco, per me il lunedì è quella tovaglia sospesa nell’aria, lussuosa e promettente. Al contrario, ed è qui che volevo arrivare, non ho nessuna stima per il sabato. Sarà una reminiscenza di Buenos Aires, il sabato là è coniugale, i milongueros vanno a ballare con il proprio coniuge, nessuno si diverte, il solo brivido svogliato è quello dell’abitudine. In uno di questi sabati casalinghi ho scritto questa riflessione su Astor Piazzolla.

Heidegger e Fonzie Fonzarelli dicono che il sabato è la serata del pivello, quindi il dasein, l’esser-ci, è sconsigliato. Non me lo faccio dire due volte, me ne sto in casa volentieri, anche perché alla Comunella Baires, unica milonga a portata di bicicletta, c’è non so che spin doctor, Fulano, Mengano, Zutano o Perengano, con le loro orchestre marciabili. Io sono ballerino di tanghi ermetici, a me piace quello che per loro è Webern. E allora che alla Comunella ci vadano gli amanti delle tande ontiche. Io qui ho un bel bife di chorizo che arriva da Mataderos e i suoi giusti complementi d’arredo. Mi vedo una delle conferenze di Ignacio Varchauski sugli stili delle orchestre, vera miniera d’oro di frasi brillanti da ripetere a pappagallo nelle mie conferenze, se solo il grande Ignacio ne dicesse una. Deve sospettare il parassitismo transoceanico. Linguaggio aderenziale desemplicizzato, lo chiamano, ma a me va bene così.
Allo scoccare del centesimo minuto della sua lezione sullo stile dell’orchestra di Julio De Caro, Ignacio Varchausky fa una rivelazione chiave su Astor Piazzolla. Siamo nel 1988: in "Camorra I”, cioè in quella che sarà la sua ultima composizione per quintetto, Astor inserisce un passaggio di "Farolito de mi barrio" e lo suona esattamente come lo aveva suonato Pedro Laurenz con De Caro nel 1926. E' un passaggio con la mano sinistra del bandoneòn, eccola qui, quella di Laurenz ...

Più di sessanta anni dopo, nella sua Camorra I, Astor lo esegue con esattezza letterale e identico fraseggio compadre, dolorosamente arrastrado e stracarico di swing tanguero, per poi stemperarlo nell’abisso del bandoneón. Sentite qua che roba ...

Nessuno dei musicisti di Astor ha saputo dire a Ignacio se questa fosse una citazione consapevole, una pulsione improvvisa della memoria emotiva o una riscrittura di Pierre Menard, sessanta anni dopo il presunto originale. Questo passaggio non l’hanno neppure notato. Voluto o meno, io ne sono rimasto commosso, e vi dico perché.
Dal 1974 al 1990, sono stato a molti concerti di Astor Piazzolla, compreso l’ultimo qui al Teatro Smeraldo, ora svilito a supermarket. Ho scambiato con lui qualche parola, gli ho smanacciato il bandoneón, l’ho visto mangiare una prosciutto e carciofini da Sandro a Venezia mentre Milva aveva preteso il Gritti. Conosco un milione di storie su di lui, ho letto le sue frasi sprezzanti, le sue interviste provocatorie, gli aneddoti che i suoi musicisti hanno commercializzato nei loro libri. So delle sue mostruose simpatie politiche e dei suoi compromessi. Ho partecipato, una volta da indiano e una da sceriffo, a pacate risse di musicisti e a disidratati dibattiti in furgone. Ho avversato la fatwa del califfato milonguero. Sono stato a cena col suo editore e in macchina col suo ultimo tour manager. Ho prodotto a César Stroscio e Pino Enriquez la prima esecuzione italiana di un suo concerto. Con la Compañia Tangueros abbiamo fatto spettacoli con le sue musiche, come “Gotán”, una coreografia di venti minuti per otto ballerini che chiamavamo affettuosamente il Piazzollazo. E in ultimo sono stato in giro con il Quinteto della Fondazione Piazzolla, con la vedova, con il direttore musicale responsabile dei suoi immensi archivi…
Perché, allora, dopo tutti questi anni e al cospetto di un’opera immane, basta un modesto tango del francesito Pollet a toccarmi e scompagnarmi? Non avevo già visto da altri pertugi la grotta incendiata di rubini? Cosa mi dice di nuovo l’eretico, l’additato, il non ballabile per capestro? Questo, mi dice:

Ormai mi resta poco tempo, davanti a me c’è l’oscurità. Questa è la mia ultima composizione. Sentite quanto tango ci ho messo dentro, sentite le sincopi, il fraseggio, l’intensità, il canto, la mugre… tutti i connotati del tango al massimo grado possibile. Sentite come sono moderno, come lascio svolazzare Suarez Paz tra i pipistrelli e frugare nella tastiera Ziegler. Geni che smetteranno di esserlo da orfani. Sentite come il bassista finge di essere Kicho. Ma fra poco tutto sarà finito, presto arriverà il chan-chan. Mi ritroverò con Troilo, Vardaro, Gobbi, Laurenz, De Caro… A proposito, com’era quel passaggio? Ah, ecco. Bello, no? Qua, sotto questo lampioncino di barrio, c’è già tutto il tango, io non mi sono mai mosso di qua, sono ancora quel ragazzetto con gli occhi di ossidiana che sapeva tutti i tanghi a memoria. Anche a me, come a Troilo, qualcuno una volta mi è venuto a dire che me n’ero andato. Però quando? Quando, se sempre sto tornando… perché quel Notturno, Troilo, l’ha scritto per tutti noi, un'indulgenza plenaria per tutti noi tangueros…
Anch’io come lui sono sempre stato qua… sono sempre stato qua…