Nel settimo libro dei Miserabili, Victor Hugo si ferma a riflettere sul gergo dei
derelitti e dei criminali. Mancano ancora cinquanta anni alle manfrine sul lunfardo e
più di cento a quelle dello strutturalismo, ma Hugo già intuisce che più che parlare,
siamo parlati dal linguaggio. Il gergo è due furti, dice, la lingua e il popolo. La
lingua non domina interamente il senso, pur se determina, o meglio, mette in
scena il soggetto che lo persegue. E il senso anima di vita la parola, pur se la
parola cade immediatamente nell’ordine morto della lingua. La vitalità degli umiliati
dalla società e dei colpiti dalle leggi degli uomini è l’incessante forza biologica che
colma di senso la parola gergale. I vocaboli sono sempre in fuga, esattamente
come gli uomini che li adoperano. Il gergo è una scappatoia dalla macchina
modellatrice, una scappatoia sempre provvisoria, ma efficace e fantasiosa. E fa più
strada il gergo in dieci anni che la lingua in dieci secoli, conclude Hugo. Molti sono gli esempi che porta, perché fermarsi è compito dello scandaglio, non certo
dello scandagliatore. Quello più toccante ce lo illustra tramite il bracconiere
Survincent. E’ un bracconiere occasionale, amatoriale, un bracconiere della
domenica, potremmo dire. Ha rubato, e probabilmente mangiato personalmente,
una lepre che apparteneva al re. Chi ricorda il contributo del giovane Marx al
dibattito sulla legge contro i furti di legna, saprà che i padroni di tutto non
gradiscono che dai loro boschi sacri gli si porti via anche un solo legnetto e che
tantomeno gli si mangi una lepre di proprietà. Survincent viene condannato con
lettre de cachet, ossia senza processo e quindi senza la possibilità di difendersi, a
sei mesi di gogna nel carcere di Châtelet. Hugo ce lo descrive bene: è uno
stanzone a tre metri sotto il livello stradale, umido, irrespirabile. Non c’è nessuna
apertura tranne la porta inchiavardata. Per terra, ci sono due palmi di fango e tre
decenni di escrementi. Sul soffitto, c’è una trave da cui pendono le catene con i
collari, studiate in modo da non permettere ai detenuti di piegare le gambe. Chi ce
la fa a dormire, dorme in piedi, a intermittenze di pochi minuti. Ma la maggior parte
si abbandona all’impiccagione rateale. Una volta al giorno, la porta si apre e pezzi
di pane vengono lanciati ai prigionieri. Seguono le manovre pedonali per riuscire
prima a trovare il pane nel fango e poi a portarselo alla bocca. Ebbene, potete
crederlo?, in questo luogo verosimile all’inferno, gli sventurati cantano. Il più delle
volte sono canzonacce oscene, o inni religiosi adeguatamente modificati, parole
che non stentiamo a immaginare gonfie di un odio grandioso e irreparabile. Ecco,
questa è la musica da camera dei Miserabili, le loro romanze, il salotto buono, il
pied-à-terre dei bisnonni dell’underground. Survincent si oppone a tale
conformismo culturale e per sei mesi intona una sola canzone in argotico: “Icicaille
est le théâtre du pétit dardant”, questo è il teatro del piccolo cupido. E il
grandguignol delle catene, del potere, dell’arbitrio, della violenza, in una sola
parola della realtà, cede il passo alla comédie larmoyante della tenerezza
nonostante tutto. Nessun freddo repentino d’autunno, direbbe Emily Dickinson,
sgomenta il petto tropicale di Survincent. L’angioletto dardeggiante fa del suo
cuore un facile bersaglio e un teatro caldo e luminoso. Lo stesso capita al mio di
cuore, qui, su questo pavimento perlomeno sgombro, quando ascolto un tango e
un vals che condividono lo stesso titolo, Berretín. Berretín in antico lunfardo vuol
dire innamoramento, passione o capriccio d’amore, un sentimento così lampante
che quando ce l’hai non lo puoi nascondere, proprio come un berrettino. Nei primi
anni ’70, all’epoca degli ardori in petti maldestri, noi esserini della provincia di
Ferrara avevamo un nostro piccolo gergo. Ancora troppo timidi per usare i paroloni
dell’amore, chiamavamo “imbarcarsi” il cadere sotto l’imperio cocente
dell’innamoramento. Quando qualcuno di noi s’imbarcava, o per meglio dire, si
prendeva un’imbarcata, perché come sulle galere veneziane l’imbarco non era un
atto volontario, gli altri lo guardavano dalla riva mentre s’allontanava impavido
verso il sicuro naufragio. Il verbo era fantasiosamente transitivo e, qualora si
volesse e soprattutto qualora si riuscisse, consentiva d’imbarcare anche l’altro
passeggero. Dal linguaggio nautico prendevamo anche “scuffia”, cioè il
ribaltamento completo dell’imbarcazione. Infine, il berretto, anzi la berretta,
equivalente ferrarese di Berretín. Era un termine gergale già più radicato, lo usava
per esempio anche mio papà. Nonostante il promettente nome di Eros, mio papà
ebbe le prime berrette ostacolate da un conflitto mondiale, dalle durezze di un
padre padrone e dall’inferno del lavoro minorile. Eppure quando diceva berretta,
questa parola vibrava di giovinezza, risuonava dei pensieri acrobatici e criminosi
dell’innamorato povero in canna.
Il tango Berretín lo scrive il giovane Pedro Laurenz negli anni ’20. Lo registra due
volte, la prima con il sestetto di Julio De Caro nel 1928 e poi con il suo quintetto
nel 1966, quando ha già 64 anni e i suoi berrettini di gioventù sono ormai appesi
all’attaccapanni, sotto le lobbie della maturità. La versione di De Caro è come una
foto al magnesio, ci fa vedere l’andirivieni di un imbarcato con l’abito buono e un
cravattino, in spasmodica attesa dell’incontro, magari con un mazzo di fiori
noleggiati dietro la schiena. C’è un assolo compìto di violin-corneta, un contro
canto amichevole del secondo violino, il commento panoramico del pianoforte e il
ribollire cardiaco e viscerale dei bandoneón. Nel testo scritto da Enrique Cadícamo
per la versione cantata nel 1928 da Agustín Magaldi, abbondano i termini nel
lunfardo antiquato dell’epoca, come “sabalaje”, “chifladura” “papusa”. Qui il
berrettino lo indossa la ragazza, però non è un berrettino d’amore, lei non è
innamorata di nessuno. Il suo berrettino è il lusso che cercava quando se n’è
andata dal barrio. Lui la vede sconfitta, abbassa delicatamente l’ala del “gris” per
non incrociarle lo sguardo e non metterla in imbarazzo. Cadícamo usa la parola
gris per non appesantire il tango con un altro copricapo. Ci pensa la musica della
Tipica Victor a farci smagliare le calze autunnali. Migliore è la versione strumentale
che ne dà nel 1930 l’orchestra Brodman-Alfaro, nel tentativo di riprodurre a Parigi
l’arrangiamento di De Caro. Juan Alfaro in realtà è lo pseudonimo argentinizzante
di Jean-Max Lévesque, un violoncellista e concertista classico convertito al tango
per ovvi motivi. Ai bandoneón non se la cavano male i due piemontesi Héctor e
José Colombo, alias Ettore e Giuseppe Colombo, due fisarmonicisti convertiti
anche loro al tango e per gli stessi motivi. Seguono trenta anni di oblio, poi
Berretín cade finalmente nelle mani furiose di Astor Piazzolla e del suo nuovo
fiammeggiante Quinteto. Sentiamo insieme questo capolavoro d’esuberanza e il
mirabolante assolo di violino di Szymsia Bajour, un polacco vero, gitano e
funambolico. Chi di noi non si è mai sentito così? Il cuore in tumulto, la vita ci
sorride in ogni dettaglio, il mondo paga il suo debito in oro zecchino.
Facciamo ora un salto di altri trenta anni, fino al 1993. Siamo a Buenos Aires, negli studi discografici della Melopea. Roberto Goyeneche sta registrando “Amigos”, che sarà il suo ultimo disco. Il chitarrista Esteban Morgado lo va a prendere tutte le mattine sulla sua Peugeot 404. La macchina è un rottame, piove dentro dalla capote, gli sportelli non chiudono bene, il fondo è così pieno di buchi che è stato sostituito con un assito di legno. Ma a Goyeneche non importa: l’accendisigari funziona e può finalmente fumare le sigarette che il medico gli ha proibito e che lui nasconde sportivamente nella tuta da jogging. La routine è sempre identica. Arrivato in studio, Goyeneche si fa portare una Esperidina o un Cinzano, fuma e racconta le storie di Troilo, Salgán, Piazzolla. Tutto il tango è lì intorno a lui. Poi comincia ad accennare a una melodia, a canticchiare le parole di un tango e, poco a poco, convoca il pezzo che inciderà quel giorno. Gli arrangiamenti sono costruiti sul momento, i musicisti sono tangueri sperimentati, conoscono il suo repertorio, basta prendergli il tono, come si dice. Del resto il Polacco, che è tale non per nascita ma per biondezza, ha l’orecchio assoluto e un’intonazione di cui persino Troilo gli era grato. Sembra che le sue due ultime incisioni siano state Los Mareados in duo con Mercedes Sosa e lo straziante Viejo Ciego, con il violino di Antonio Agri. E la commozione sia stata così forte che lo stesso produttore Litto Nebbia doveva uscire dalla cabina di regia per poter piangere in santa pace nel parcheggio. Ma in questo giorno particolare tocca a Berretín, un vals che nessuno conosce. Lo ha scritto un duo di cordobesi, la musica è di un gentiluomo orgogliosamente privo di biografia e connotati come Juan Armando Freyre. Il testo è invece di un personaggio benvoluto dal pubblico della televisione e del teatro, Juan Carlos Mesa. Per la verità Goyeneche questo vals lo ha già inciso nel 1967 con l’orchestra di Baffa e Berlingieri, ma oggi, quando mancano soltanto pochi mesi al buio definitivo, l’affioramento si carica di altri significati.
Berrettino, non è un amore di quelli carnali, non è un peccato di quelli mortali, è un
capriccio appassionato o un castigo che mi hanno dato. E’ il primo berrettino.
Forse è stato quel bacio di carminio o quel ricciolo castano sulla tua tempia. Non è
un amore di quelli stupidi, è’ un berrettino. Non è dire per dire che sono pazzo di
te. E’ una strana frenesia, più trepidazione che desiderio. E’ un semplice e ostinato
berrettino.
Roberto Goyeneche, mistura irripetibile di aedo e fine dicitore, voce di broccato e
di straccio, di tran tran e rock’n’roll, ha reso vero tutto ciò che ha cantato, virgole
comprese, più doloroso il dolore, più tenera la tenerezza, più assente l’assenza.
Attraverso i suoi tanghi ci ha fatto sentire l’abisso e la ferocia degli uomini, o
l’innocenza e il candore di cui sono ancora capaci. Ora è lì, nel suo inferno finale,
appeso a catene invisibili, ai collari spietati del tempo. Ma nessun freddo repentino
d’autunno sgomenta il suo cuore tropicale. Icicaille est le théâtre du petit dardant,
questo è il teatro del piccolo cupido.