San Juan e Boedo antico e tutto il cielo
Pompeya e più in là l’inondazione.

Queste naturalmente sono le prime parole di Sur, di Homero Manzi e Aníbal Troilo. Un inno nazionale, anzi un inno sacro, del tango. Parole sacre che sono state cantate e ricantate, fuse nel bronzo, imparate a memoria dalle scolaresche, ricamate sulle federe degli sposi. Parole gnomiche, geolocalizzate, come vuole il ricettario di Tom Waits: in ogni canzone devi mettere un luogo, un profumo, qualcosa da mangiare, se vuoi dare concretezza al miraggio sonoro. Dice Borges che non appena Carriego nominò la calle Honduras nella Canzone del Barrio, i suoi abitanti si sentirono più verosimili, più vivi, come beneficiati da questo incremento di realtà. Ma Sur fa molto di più che rendere concreto Boedo. Ci fa sentire il rimpianto di averlo perduto. L’arrangiamento di Argentino Galvan del 1948 parte con la baldanza di un quartiere infiocchettato che aspetti una visita presidenziale, ma Troilo risucchia subito la fanfara dentro il suo mantice. Tutta la musica di Troilo gravita sul suo bandoneón, è lui che dà sempre la linea, come un piano quinquennale. Dà la tonalità emotiva all’orchestra, regola le tensioni. Qui ci fa sentire che c’è l’intimità di un pensiero, una visione assorta sotto le deflagrazioni del cielo, un ricordo amaro ritagliato nel tramonto western, nell’imminenza oceanica dell’erba. Così quando Rivero attacca con la semantica, abbiamo già sotto gli occhi i due panorami, il dentro e il fuori. C’è un nome che fiorisce in un addio. Rivero invece, d’accordo con Manzi, lo fa fluttuare nell'addio. E arriva l’incrocio fatidico, e poi il maniscalco, il fango, il fosso, la pampa. A dir il vero, il maniscalco potrebbe anche essere un generico fabbro, ma il quoziente equino nei testi di Manzi suggerisce il cavallo, come nel Pescante e in Manoblanca. Del resto nemmeno nel Corano ci hanno messo i cammelli. Il colore locale non serve a chi ci vive dentro. Ed ecco il profumo esatto e botanico dell’erba medica, l’erba di Spagna, l’alfa-alfa, profumo che ci riempie il cuore. E poi il muraglione, la lampadina da otto watt di una bottega generalista, la vetrina d’appoggio per le attese serali. Tutto questo è andato perduto con la giovinezza, come rena che la vita ha portato via. La luna suburbana, il balcone, il terrapieno, tutto è morto, già lo so. Eppure il cuore non muore quando sembra che dovrebbe. Venti anni prima, Boedo era già un barrio di tango, prima ancora di essere un barrio, prima ancora che il suo nome s’impadronisse delle vicinanze, Ci abitavano i Castillo padre e figlio, e lo stesso Homero Manzi che scrive Sur nel caffè El Aeroplano. Ed era un ducato letterario, come vedremo fra poco. Julián Centeya ce ne parla con la meticolosità di una Pro Loco, come se dovessimo sostenere un esame:

Sono qui per farmi il certificato di nascita. Io vengo dal Boedo leggendario, quello del caffè Le Baleari e dell’Aeroplano, di Eufemio Pizzarro, della Scrofa che fu ammazzato in una sparatoria sulla porta del Biarritz. Vengo da Boedo, sì, dal Boedo del caffè Dante, della rumorosa stazione dei tram davanti al Bar Los Andes, dove il mio sguardo di stupore intrecciava Massimo Gorky con Leonida Barletta.

E’ il 1928. Un tango di nome Boedo elettrizza il barrio fino a renderlo riccioluto. La sera dell’8 ottobre, al cinema Rinascimento, se ne inaugurano quattro: Orgullo Criollo di Pedro Laurenz, Loca Bohemia di Francisco De Caro, Mal de Amores sempre di Laurenz e Boedo di Julio De Caro. Scusate se è poco: il mondo è ancora nuovo, c’è del posto per la fornitura simultanea di quattro capolavori. Julio De Caro, nato nell’Once e cresciuto a San Telmo, dedica il suo tango agli amici d’infanzia di Boedo, per incrementare la loro realtà, o almeno per convincerli ad esistere. E’ un tango ritmico, una specie di carillon trasparente che mostra con orgoglio i suoi ingranaggi, i suoi pizzicotti nel sedere, le sue piazzole fiorite di bandoneón, le sue belle sviolinate. Negli anni a venire lo incidono tutti, Demare, Francini Pontier, Pugliese, Salgán, Los Astros del Tango, Piazzolla con l’Ottetto, persino Canaro, che De Caro non l’ha mai potuto vedere. Tutti prendono casa a Boedo, se non altro per tre minuti. E Máximo Mori lo arrangia in un solo di bandoneón per le dodici dita delle mani.
Sempre nel 1928 su Boedo viene applicato come una vernice anche un testo del poeta stradale Dante Alighieri Linyera. Sono questi gli anni della presunta polemica tra i gruppi letterari di Boedo e di Florida. Là, in centro, tra i cristalli e le querce della confetteria Richmond, si riuniscono Borges, Girondo, Palacio, Marechal, la Ocampo, Scalabrini Ortíz. Qua, in periferia, tra i paraventi di bambù del caffè El Japonés, ci sono Olivari, Mariani, Yunque, Castelnuovo, Barletta, Roberto Arlt e Raúl González-Tuñón. Là lo stile, la metrica, i suonettini, l’élite, l’avanguardia. Qua il lunfardo, l’impegno, il realismo, i proletari, la rivoluzione. Ma l’osmosi tra i due gruppi è continua. Si picchiano per iscritto sulle stesse riviste e non scorre mai una goccia di sangue. Lo stile è una promessa e i contenuti bisogna meritarseli, dicono di là. Il tempo di studiare il lunfardo non ce l’abbiamo, risponde di qua Roberto Arlt, noi abitiamo tra i malfattori. Invece Dante Alighieri Linyera la sua scelta la fa, si arruola con Boedo e nel testo lancia una provocazione pirotecnica: cosa vorrebbero fare quei “fifì” di Florida, quei fighetti di Florida? Mai nessuno, tra i pochi interpreti del Boedo cantabile, si azzarda a cantare i versi originali. Anche oggi, che pur ci sarebbe la distanza di sicurezza, Guillermito Fernández opta per “Cosa vorrebbero fare gli eleganti di Florida?”. Meglio non guastarsi con la Richmond, che un giorno potrebbe riaprire i battenti. Pure io quando andai in pellegrinaggio all’Aeroplano di Boedo, trovai al suo posto il caffè Nippon e un barista di Nagasaki. Tutto fu morto e già lo seppi.
Ma insomma, con tutto questo tango che ancora gira crudo per le strade di Boedo, che cosa spinge Alfredo Rubín a scrivere un blues? Nel suo caso gli spingitori sono i destini invisibili dei malnati, una città che ha perso la grazia, i giorni disfatti dalla droga, la nuda vitaccia. Nel Boedo di ottanta anni fa, Raúl González-Tuñón poteva innamorarsi di una ragazza nasale, lentigginosa, occhi cilestrini, amante del cinema muto, fidanzato idraulico, forte somiglianza con il divo Nils Asther, detto IL Greta Garbo. E poteva scriverle “Vorrei fare con te un film sonoro”, un poemetto a ritornelli brevi che è un blues. Lo cantò da estraneo Juan Cedrón, e si sente che non ci credeva neanche lui a questo blues for import. Alfredo Rubín, invece sì. Canta il suo blues di Boedo con la voce direttamente dentro il braciere, tra i reticolati di filo spinato degli accordi, una pentatonica sfasciata nel marcato in quattro, le sincopi e gli arrastre acidi di un Pugliese del Delta. Il risultato è un artefatto, tango o blues poco importa, che fra altri settanta anni forse sarà venerato come oggi noi veneriamo Sur.

Nochecita. Nochecita, è quasi notte - dice una voce che fuoriesce dal citofono
Con le ossa fottute dai postumi della sbornia
senza figurare nei supplementi delle riviste
trascina i piedi per i tre isolati che lo separano dall’incrocio - San Juan e Boedo, ovviamente.

La radio sputa e strilla il suo marketing di bava
la droga non fa progressi, si lamenta il vecchio pusher hippie
fischiettando una milonga vado in giù per la mia strada
i blues di Boedo attraversano il mio cuore.

Altre due isolati per arrivare all’incrocio - ci aggiorna un altro citofono.

Il tossico della colla stavolta si è preso un tetto
nel bigliardo dei coreani brillano luci di bambù
altri inverni verranno, forse non mi crederete,
il mio addio a quella finestra dalla bianca luce è un blues.

Nell’aria si respira una brutta aria
gli infami e gli infiltrati fingono di rigare dritto
e si stringono al distintivo come spie della polizia.

Ah, Boedo,
la tua luce canta un blues cieco di dolore
Ah Boedo,
il tuo blues è una frattura scomposta e senza perdono.

Scendendo quella scala il cielo si è disfatto
la luna gira in falso, la partita è finita.
Non importa quanto fumo mandi dentro al petto
i blues di Boedo ricopriranno il tuo cuore.

C’è un’altra Buenos Aires a quell’incrocio
quella che non esce sui giornali, che non parla con gli sbirri
due mani che si stringono, la spiata che ti rovina.
i blues di Boedo ne han vissuti di tradimenti.

Ah, Boedo,
la tua luce canta un blues cieco di dolore
Ah Boedo,
il tuo blues è una frattura scomposta e senza perdono.