Nel 1996 è stato distribuito nelle sale un film intitolato El dia que Maradona conociò a Gardel, pellicola in irreparabile contrasto con la verosimiglianza, che resterà nella storia come uno tra i più ingenui pasticci tra le sceneggiature della cinematografia argentina. Detto in due parole. Gardel è in Colombia e stringe un patto di quasi immortalità con un’avvenente diavolessa. Infatti l’incantesimo è soggetto ad una ipotetica scadenza, stabilita nel momento in cui il cuore degli argentini sarà conquistato con la stessa veemenza da un nuovo idolo. In tutto questo mercanteggiare allegorico, la scena di finzione è spezzata con una serie di filmati in cui si vede giocare Maradona o si sente la sua voce ripresa da qualche intervista. Nella seconda metà del film fa capolino di persona irrompendo nella finzione e presentandosi a Gardel, correndo il rischio di essere colpito da un proiettile sparato dalla diavolessa impaurita dall’eventualità che l’incantesimo fosse al capolinea. Vi risparmio il finale e vengo al punto. La colonna sonora del film è stata realizzata da uno tra i più speciali ed insieme contraddittori bandoneonisti che la scena del tango ha conosciuto: Rodolfo Mederos, il protagonista di questa nota. Contraddittorio perché la sua carriera musicale è stata punteggiata da colpi di scena estetici che ci raccontano come alla qualità del musicista, corrispondesse una implacabile inquietudine, canalizzata per molti anni in progetti di sintesi dove, su una base rock, si innestavano alcune influenze jazzistiche con il bandoneon che del tango era solo testimonial sonoro e non linguistico. Un fiato di insolente ribellione alla concezione tradizionale del tango che lo stesso Mederos si è rimangiato prendendo coscienza del valore essenziale di quella cultura per lui in quanto argentino. In breve questa sua traiettoria camaleontica, ha seguito un percorso opposto a quello che sarebbe il più ragionevole: è partito da avanguardista piazzolliano con smanie di liberazione dal tango, passa attraverso sperimentazioni fusion, si sviluppa fino ad oggi con il ritorno ad una forma di tango tradizionale che gli fa prendere le distanze anche dal suo primo amore Piazzolla. Ripartendo daccapo, Rodolfo riceve a cinque anni il suo primo bandoneon acquistato con i sacrifici del padre ferroviere, ne è incantato, lo studia, crea il suo Octeto de la Guardia Nueva di ingenua impostazione piazzolliana a Cordoba; Piazzolla lo ascolta, ne è colpito e gli consiglia di andare a Buenos Aires, ma il ragazzo sta studiando alla facoltà di biologia e non lo ascolta. Piazzolla ritorna a Cordoba per una trasmissione radiofonica e finalmente lo convince ad abbandonare gli studi universitari. Siamo nel 1965 e Mederos, da poco trasferitosi nella capitale dove era nato venticinque anni prima, incide il suo primo disco Buenos Aires al… rojo, con quattro brani, Mi refugio di Cobian e Lo que vendrà di Piazzolla e due sue composizioni, Triste Noviembre e La lluvia. L’organico ha un timbro particolare con il suo bandoneon, il flauto di Arturo Eric Schneider che ha inciso in diverse occasioni con Piazzolla, la chitarra elettrica di Juan Mehaudy, il contrabbasso di Fernando Romano, uno tra i più fedeli collaboratori di Eduardo Rovira. Gli arrangiamenti rimandano a certe soluzioni piazzolliane ma immerse in un clima armonico e sonoro che in lunghi tratti ricorda il trio di Eduardo Rovira. L’anno seguente ci sarà il colpo di stato guidato dal generale Juan Carlos Ongania che scioglie parlamento e partiti, con un impatto sociale repressivo e censorio. Nel campo artistico, ad esempio, le proibizioni colpiscono Blow Up che Antonioni aveva ideato partendo da Le bave del diavolo, un cuento di Cortazar. Per la musica non va meglio con la censura alla La sagra della primavera di Stravinsky, o gli insormontabili ostacoli alzati contro le attività all’Instituto Di Tella, il tempio delle avanguardie artistiche dell’epoca con una sezione musicale guidata da Ginastera che invitava compositori contemporanei quali Luigi Nono o Jannis Xenakis. Il tango è ai minimi termini in tema di popolarità, ma l’atmosfera è straordinaria per quanto riguarda la vitalità culturale, soprattutto nel campo degli spazi di resistenza gestiti da gruppi letterari di scrittori e poeti militanti. Cito ad esempio le esperienze di gruppi come El pan duro che si separò nel 1964 e in cui figuravano Raúl González Tuñón, Hector Negro, Juan Gelman; le edizioni in cui ritroviamo González Tuñón e Gelman, come in La Rosa Blindada uscita tra il 1964 e il 1966 per nove numeri dove, per dirne una, viene pubblicato il materiale teorico del leggendario Ho chi Minh; la rivista Hoy en la Cultura, legata al Partido Comunista Argentino, pubblicata per 24 numeri dal 1961 al 1966, contenente numerosissimi articoli ed interviste sul tango che sottolineano soprattutto la sua natura di “poesia cantada”. In questo contesto si era formato il gruppo e l’edizione El Barrilete che pubblicava una rivista dove in epigrafe era riportata una frase più che indigesta al regime: “El hecho cultural por excelencia es la revolución”. La rivista, distribuita gratuitamente e guidata dal poeta Roberto Santoro tra il 1963 e il 1974, è stata particolarmente accogliente per il tango e in special modo per i letristas del tango, pubblicando oltre che i versi dei poeti del gruppo e diversi testi di Arlt, Unamuno, Machado, Huidobro, anche letras di tangos di Discepolo, Linyera, Manzi, Celedonio Flores. Una simile integrazione tra cultura accademica e cultura popolare mirava a promuovere una forma di modernismo che sintetizzasse quello di Ruben Dario con quello di Evaristo Carriego, in una letteratura “hecha de barro” per arrivare con facilità anche alla massa. L’interesse per il tango non si è fermato sulla carta della rivista ed ha cercato altre occasioni per manifestarsi: ne ricordo due. La prima iniziativa riguarda un reading organizzato nel novembre del 1965 con il titolo Buenos Aires, la ciudad y el tango, centrato sulla lettura dei versi di storici poeti di tango e completato con il concerto del Cuarteto de Tango Contemporaneo diretto dal chitarrista Alberto Nuñez Palacio. Tra i lettori c’era anche la giovane Susana Rinaldi e la lista delle opere recitate è piena di personaggi legati al tango: El Salón Lacavour di Enrique Cadícamo; Justo el 31 di Enrique Santos Discépolo; El ligador di Felipe Fernández (Yacaré); Guarda de ómnibus di Celedonio Flores; Barrio Once di Carlos de la Púa; El Rosedal di Homero Manzi; Elogio un poco cursi a las chicas de Flores di Luis Cané; Antiguo almacén ‘A la Ciudad de Génova di Nicolás Olivari; Profesoras de piano y solfeo di Baldonero Fernández Moreno; Los ladrones di Raúl González Tuñón; El tango di Jorge Luis Borges. La seconda iniziativa concerne la pubblicazione del disco Buenos Aires vuelta y vuelta da parte di Oscar Matus, il cantante cordobese produttore del primo disco di Mederos che abbiamo ascoltato e, nel 1967, titolare insieme al bandoneonista del long playng Matuseando, con brani originali ma nell’ambito di alcuni ritmi folklorici argentini. In questa strana produzione Mederos si occupa di arrangiare la musica e le parti di un quartetto vocale in cui, udite, udite, canta anche lui. Ritornando a Buenos Aires vuelta y vuelta, qui Mederos suona il suo strumentoi insieme al chitarrista Alberto Nuñez Palacio e al bassista Oscar Alem, che nel curriculum vanta collaborazioni non sporadiche con Rovira e Piazzolla. A loro si aggiungono le declamazioni di quattro poeti, Carlos Patiño, Rafael Vazquez, Margarita Belgrano e Alberto Costa. La musica è suonata benissimo e con discrezione, inquadrandosi nelle ricerche coeve e quindi manifestando tutti gli aspetti del tango vanguardia di quegli anni.
Purtroppo a molti dei poeti attivi nel gruppo El Barrilete che non sono fuggiti in esilio, è toccata la stessa sorte del suo animatore Roberto Santoro, il più coraggioso sul piano politico e il più attento sostenitore della poetica del tango. A proposito, in un’intervista del 1962 esprime la teoria secondo cui “la crisis del tango; crisis de poetas, ya que musicalmente hablando ocurre todo lo contrario. Nombres como Horacio Salgán, Roberto Panzera, Osvaldo Manzi, Astor Piazzolla y Eduardo Rovira dicen a las claras de una inquietud por renovar este atascadero que es el tango”. Attivista tra le fila del Partido Revolucionario de los Trabajadores, fu sequestrato nel 1977 entrando a far parte della lista dei desaparecidos i cui corpi non sono stati più trovati. Nonostante la serietà dell’impegno e il pericolo che questo comportava, Santoro non ha mai tradito la sua paradossale ironia. Per inquadrare il soggetto è interessante leggere cosa dichiara quando gli chiedono di scrivere una sua presentazione da pubblicare in testa a un reportage sulla rivista Rescate, nell’ottobre 1973: “Sangre grupo A, factor RH negativo, 34 años , 12 horas diarias a la búsqueda castradora, inhumana, del sueldo que no alcanza. Dos empleos. Escritor surrealista, es decir, realista del sur. Vivo en una pieza. Hijo de obreros. Tengo conciencia de clase. Rechazo ser travesti del sistema, esa podrida máquina social que hace que un hombre deje de ser un hombre, obligándolo a tener un despertador en el culo, una boleta de Prode en la cabeza y un candado en la boca”. Faccio fatica ad uscire da questi meandri di passione civile, resistente, gloriosa e tragica, diramati in mille rivoli anche se possomno apparire marginali o addirittura sconclusionati rispetto allo storytelling che ha protagonista Mederos. Faccio penitenza per il disorientamento, riportando l’estratto di una poesia intitolata proprio Penitencia, tratta dall’ultima raccolta pubblicata da Santoro nel 1975. Ed è proprio un atto di sfacciata ironia articolata come quelle penitenze laiche o mistiche che mi ricordo aver patito nell’infanzia, dall’inclemente maestra in forma scritta o dal laido confessore in forma orale. La Penitencia immaginata da Santoro con tutto il suo sense of humor della serie “una risata vi seppellirà!”. Recita così: no debo tocarle el culo al general, no debo tocarle el culo al general, no debo tocarle el culo al general…e così via per una prescrizione di dieci ripetizioni. Anche Mederos, per via di queste frequentazioni, termina sulla lista nera con tutta una buona compagnia di artisti e non solo, e la sua musica registrata nei dischi futuri sarà oggetto di proibizioni in merito ai consueti passaggi radio televisivi previsti per le novità. Per di più nel 1968, di ritorno da un lungo soggiorno a Parigi e a causa della contingenza che ha determinato la fuga di sei musicisti, Mederos trova posto nell’orchestra di Osvaldo Pugliese restando per circa sei anni nella fila di bandoneones guidata da Arturo Penón e completata da altri due giovani irrequieti come Daniel Binelli e Juan Josè Mosalini. Pugliese lo mette subito al lavoro affidandogli l’arrangiamento di un suo brano che ha la freschezza solare del modo maggiore ed è intitolato La biandunga. Nel marzo del 1969 la nuova formazione ha già le ali e Mederos, in occasione di una seduta d’incisione, fa trovare sui leggii dei colleghi i pentagrammi temerari di La Bindunga, facendoli volare in un cielo di impareggiabili preziosismi, fra intrecci e spirali trasparenti, allacciando con fili invisibili la successione delle sezioni e lasciando uno spazio solitario di sei battute per il pianoforte del direttore che con sacralità oracolare scandisce, sincopandola e bordoneoandola, la felice petit phrase del motivo principale, vale a dire l’esquisse divenuto pretesto per tutto l’arrangiamento. Tra i molteplici temi registrati in quegli anni vorrei citarne uno che riguarda anche Hector Negro, un poeta citato nel sintetico bollettino elencato all’inizio di questa nota e riguardante le riviste di letteratura e poesia non allineate con l’idea di società a cui aspiravano i dittatori, ma anche i precedenti governi che definirei democratici per pochi. Nel 1972 con un piede dentro e un piede fuori dall’orchestra i tre barbudos registrano con Pugliese Ni triste ni solo, un tema a lui dedicato proprio da Hector Negro, collaboratore di El Barrilete e anche lui militante del Partido Comunista, come del resto l’autore della musica Arturo Penón. Lo interpreta Abel Cordoba e come nello stile del poeta i versi hanno un tono positivo. Si tratta di una chiacchierata rassicurante tra lui e Osvaldo. Hector, tramite Cordoba, dice a Pugliese: la notte, l’esquina, il cielo, la luna, la rabbia ci uniscono come il percorso stanco e sofferente che abbiamo fatto insieme. Ti sento più vicino e amico e guardando questo cielo argentino ti costringo a non arrendersi, perchè restando fedeli alla speranza non si è nè soli nè tristi e il nostro sogno raggiunge la gioia che aspetta ad ogni porta ed è su ogni balcone. E la rabbia svanisce se alla fine ci sono così tante persone che ci stringono la mano e sono fratelli come noi due. Se questi versi potevano rasserenare Don Osvaldo in merito al destino delle lotte sociali che lo coinvolgevano, la sua pazienza era messa a dura prova dal look da contestatori dei suoi barbudos, e soprattutto dai loro gusti musicali, eterogenei ed estranei all’estetica dell’orchestra come più in generale del tango. Ma in fondo erano validi, sostanzialmente disciplinati e soprattutto in grado di contribuire con composizioni e arrangiamenti: questa ripeto è stata una caratteristica essenziale nella gestione della cooperativa di Pugliese che in questo modo faceva tutto in casa, non dovendo acquistare arrangiamenti e aggiornando costantemente il repertorio anche con opere originali. Non so come e se ci fu un cafè de la despedida per Mederos, sta di fatto che lui aveva accettato quel posto nella fila dei bandoneones di Pugliese esclusivamente perché gli dava da vivere, alias nessuna empatia con l’evoluto linguaggio del tango che l’orchestra proponeva. Per Mederos il tango era da considerarsi esaurito nel suo incolmabile anacronismo che si aggravava ogni giorno di più. Perciò, secondo lui non aveva più senso né suonarlo, nè credere di rinnovarlo perché in quel campo ci si poteva solo accontentare di un ruolo epigonico, sulla scia delle lievitazioni eretiche di Piazzolla o delle spericolate imprese di Rovira. Esclusi questi sentieri troppo connotati dalla personalità musicale dei loro artefici cosa ci poteva essere? C’era il jazz, il rock, il patchwork tra questi stili, alcune attrazioni anodine per il folklore, i suoni elettrici e i decibel che identificavano quell’epoca. Prima di dimettersi senza sbattere le porte da Pugliese per volare, o sprofondare, affrontando una catarsi lontano dal tango, Mederos compie un passaggio intermedio nel 1972, quando scrive due arrangiamenti per il Quinteto Guardia Nueva dove suonano i due barbudos che erano insieme a lui nella fila aurea, Binelli e Mosalini: la formazione era completata dal chitarrista Luis Rizzo, da Alfredo Bellomo al basso elettrico e da Renato Meana alla batteria. Un gruppo solido con temperamento da vendere e un approccio che include riflessioni socio politiche apertamente schierate a sinistra, soprattutto da Mosalini, Rizzo e Bellomo. Se nelle dichiarazioni di Mederos l’inattualità del tango era causata dalle gabbie stilistiche del genere, quindi completamente afferente alla musica; per Mosalini e compagni il tango deve essere rivoluzionato anche perchè intriso di machismo e coinvolto in valori perfino reazionari, con un danno culturale generale e l’incapacità di coinvolgere le giovani generazioni. Però nel repertorio del loro bellissimo long playng c’è una contraddizione rispetto a queste posizioni: nel repertorio figurano solo due temi originali mentre gli altri bellissimi arrangiamenti sono elaborati da titoli classici come Nostalgias, El Marne, La Bordona e persino il gardeliano Anclao en Paris. A Mederos sono affidati Lo que vendrà di Piazzolla e un tango di Julio De Caro che l’autore non ha mai inciso e ha intitolato …Piazzolla. Per la verità l’arrangiamento ha più rifrazioni attinenti allo stile di Eduardo Rovira in certe originalissime funzionalità armoniche che legano i denti, nelle dissociazioni melodiche, nel trattamento generale e nella sonorità, al netto della batteria che nella seconda parte assume un ruolo di primo piano. Al dépouillement restano due questioni che possono orticheggiare l’orecchio del tanguero de ley. La prima è quella del ritmo che è articolato con figure sostanzialmente affini allo spirito del rock progressivo di colore autoctono, mentre di evidente estraneità al mitologema del tango. La seconda è quella dell’invenzione melodica che ha caratterizzato anche il tango più emancipato, e che qui è clamorosamente ridimensionata sotto il profilo lirico. Dal punto di vista dei cinque musicisti in rivolta, l’obbiettivo di agire liberamente scardinando il fraseggio del tango già a partire dalla sua natura ritmica e melodica, è raggiunto nella perla segreta di De Caro, ancor più che negli altri temi registrati. Mi domando se Piazzolla e Julio De Caro, all’epoca un elegante maestro settantatreenne, abbiano ascoltato questa versione, torbida e spavalda nel suo fiato di insolente ribellione. Mi domando anche se Piazzolla abbia riconosciuto in questa interpretazione la musica de la ciudad de Buenos Aires che era l’etichetta con cui ridefiniva il suo tango in quegli anni. In fondo gli enigmi insolubili mi affascinano.