La prima volta che mi è capitato di incappare nella parola cumbia non sapevo bene di cosa si trattasse, se di un cocktail o di una qualità di peyote; se di un modo esotico per indicare una donna particolarmente attraente o una parola da cui in Lombardia hanno derivato l’esclamazione una tipica esclamazione di sorpresa: ciumbia! La parolina l’avevo letta nel titolo sulla copertina di un favoloso, caotico, spaesante capolavoro che Charlie Mingus ha inciso per la Atlantic nel 1978: Cumbia & Jazz Fusion che sul vinile dà anche il titolo a una traccia travolgente di oltre 28 minuti, una giungla più caraibica che ellingtoniana a ritmo di cumbia, dove quando il jazz la sostituisce, sembrano apparire come in un miraggio i grattacieli della Quinta Avenue. Quando ho iniziato ad occuparmi del soggetto a cui è dedicato questa nota, leggendo alcune informazioni su di lui mi è ritornato in mente questo leggendario long playng, facendomi prendere coscienza del fatto che tra le informazioni preliminari, quattro hanno a che fare con lui. Il primo indizio è che stato bassista seppur elettrico; il secondo è che ha suonato la cumbia formando El Quintetazo de la Cumbia che proponeva cover dei mitici Los Wavanco; il terzo che ha suonato jazz con il sax alto nell’orchestrina del Maestro Marceletti. Come era d’uso nei locali da ballo d’allora per le formazioni meno dotate, la tipica aveva l’obbligo di essere double face, alternando con un programma di ballabili jazz il suo repertorio di tango in cui il nostro uomo suonava il bandoneon. Il quarto è legato al 1978, anno in cui un Santo Comunista strappa questo polistrumentista alla sua attività semiprofessionale, che lo impegnava in un continuo trottolare provinciale con base a Chacabuco. Quel pueblito dove nel 1936 era nato niente di meno che Raul Garello, il grande musicista di cui ci siamo occupati negli scorsi incontri. Garello che da bambino era partito seriamente con gli studi musicali e che presto si è trasferito a Buenos Aires iniziando il necessario apprendistato, quando ancora il suo visino era ricoperto di peluria adolescenziale. Ricordo che questa circostanza non è un’eccezione, anzi un destino che è occorso alla gran maggioranza dei musicisti di tango. Così Garello, che era nato solo quattro anni prima del nostro personaggio misterioso, nel 1978 era già un bandoneonista, compositore e arrangiatore affermatissimo. Al contrario, il nostro secondo chacabuqueano sembrava essersi rassegnato addirittura ad abbandonare il tango e il bandoneon, per imbracciare il basso elettrico accettando di seguire una carriera modesta e divertente, sostanzialmente slegata dal bisogno che si finanziava con una piccola attività commerciale estranea alla musica. Ma chi era questo outsider quindi? Al paesello lo chiamavano “el gallego” per via del fatto che il suo cognome era Alvarez, Roberto Alvarez; invece il Santo Comunista a Buenos Aires lo avrebbe soprannominato “el chacarero” riferendosi al suo luogo nativo. La storia del suo incontro con il Santo, di cui anche il plotone dei miei fedeli lettori neozelandesi avranno certamente indovinato il nome, è di una felicità così imprevedibile che se la dovessi catalogare in un genere letterario, finirebbe nel campo totalmente latinoamericano del realismo magico. Vado al succo. Osvaldo Pugliese va a suonare con la orchestra al Club Los Marinos di Chacabuco. Un conoscente di Alvarez informa Arturo Penón, l’erede di Osvaldo Ruggiero nel ruolo di primo bandoneon della cooperativa pugliesiana, che in paese c’è un bandoneonista. Penón lo vuole conoscere. Alvarez è restio ma infine accontenta Pilo, la fidanzata che lo spinge a presentarsi. Penón lo informa che l’orchestra cerca il quarto bandoneonista in luogo di Lisandro Androver. Finisce lì. Roberto, non toccava il bandoneon da due anni preso com’era con la cumbia, ma per una serie di coincidenze si trova a Buenos Aires in una serata in cui Pugliese suona al Michelangelo. Fortunatamente con lui c’è Pilo che per la seconda volta esercita con successo la missione di convincere il fidanzato a sfidare il destino: con la morte nel cuore e l’assoluta certezza della sua inadeguatezza, Roberto si presenta con il bandoneon e all’intervallo si decide ad affrontare il provino che in fondo nessuno gli ha chiesto. Infatti Pugliese resta interdetto, non sapendo nulla del suo arrivo. Superato il primo momento di perplessità, decide di premiarlo almeno ascoltandolo. Deve essere stato come salire sul patibolo per Alvarez: non era atteso; doveva suonare da solo e per di più per un piccolo auditorio di divinità: tutta quell’orchestra degna di crestomazia insieme al suo direttore. C’era solo un punto a suo favore, ma lui non lo sapeva: Pugliese voleva che I’orchestra fosse formata da musicisti poco conosciuti, per così dire stilisticamente vergini quindi pronti ad apprendere il linguaggio senza dover togliere abitudini incrostate e quasi sempre ineliminabili. I due temi che Roberto ha scelto erano una carta sicura, perché è molto difficile offendere la loro espressività: Los Mareados e una bellissima pagina poco conosciuta di Piazzolla. Pugliese lo sa e sa anche che un bandoneonista poco attrezzato, può fare una bella figura, pur potendosi permettere un fraseggio tecnicamente elementare. Quindi seppur suonati bene, sono materia insufficiente per trarre una conclusione sulle qualità dell’interprete, o meglio, sull’espressione del suo temperamento di tanguero. Perciò la Volpe comunista, guardandolo con quello sguardo acuto degli engagè di professione, gli chiede di eseguire qualcosa dal carattere più ritmico, un tema qualsiasi ma che deve essere… “de rompe y raja”…. : sono proprio le sue parole, identiche a quelle scelte da Julio de Caro per un suo tango e che ho avuto la fantasia di usare come titolo per questo intervento. Da un polveroso punto in fondo alla memoria di Roberto emerge El pollo Ricardo che l’autore aveva dedicato ad un ballerino coevo di El Cachafaz, l’uruguayano Ricardo Scandroglio….un pollo longevo che ha attraversato il ventesimo secolo sfiorando per poche decine di giorni l’allegria di essere centenario. Pugliese ascolta e approva, ma non basta, c’era da soddisfare un’altra richiesta: una variazione. Con uno sforzo mnemonico sovrumano ecco quella di Mal de amores, e suonata anche discretamente, secondo i ricordi dell’esaminando. Nel frattempo il tempo dell’intervallo è scaduto e Pugliese deve riprendere posto sul palcoscenico. Tolti i convenevoli, il congedo è celebrato con una frase che a tutte le latitudini, nell’ambiente musicale, equivale a dire non c’è nessuna speranza per un ingaggio: e la formula diabolica è “le facciamo sapere”! Ma forse noi siamo stati educati alle empatie graziose, da un mondo del lavoro dove l’ipocrisia ha sostituito la schiettezza, mentre nel pensiero-Pugliese non c’è posto per i minuetti verbali, quindi un “le facciamo sapere” non è la manifestazione di un arrière-pensée, ma la verità di un’intenzione. Qualche settimana dopo Penón telefona al Club Los Marinos di Chacabuco per convocare al Michelangelo Alvarez che, non avendo il telefono, viene informato da qualcuno del Club. Si presenta per iniziare le prove all’A.P.O., in Sarmiento y Rodriguez Pena, tra colleghi che, come di prassi, accoglievano i novizi con spirito di pedagogica severità. Prestissimo ci sarebbe stato il debutto in tre serate da ballo in un club arrabalero popolato da quel quarto stato fanatico di Pugliese, come simbolo di coerenza sociale, non meno che come musicista. Neanche in tempo per confezionare l’uniforme dell’orchestra e quindi, bisognava accontentarsi di una goffa divisa fuori taglia, lasciata dal bandoneonista che Roberto ha sostituito. Ancora prima del debutto, all’improvviso Pugliese gli comunica con fare sornione che si parte una turnèe di tre mesi in Giappone e quindi negli Stati Uniti per quindici date. E tutte le parti devono essere a memoria! Insomma, Roberto è catapultato in un firmamento dorato dove la gavetta si fa giocando da titolare in coppa Libertador, con la formazione più celebre e soprattutto quella amata da sempre. Ma, lo avevo detto anche quando abbiamo parlato di Lavallen, con Pugliese era necessario scrivere almeno arrangiamenti. Roberto non si sentiva affatto all’altezza, ma quando Pugliese gli propose di arrangiare Berretin, con l’aiuto di Daniel Binelli lo portò a termine, lasciando la parte di piano che avrebbe dovuto suonare il Santo in uno stato embrionale di traccia: esisteva ancora l’aureo concetto di rispetto con il suo portato di reverenza che gli suggeriva di lasciare a lui la libertà di intervenire come voleva. Pugliese non era stato molto tenero in questa proposta, perché il tango aveva almeno un trittico di precedenti che sembravano insuperabili e parlo di Julio de Caro nel 1928 con il suo sestetto in cui figurava l’autore Pedro Laurenz che a propria volta lo registrava da leader nel 1966, ma soprattutto la vertiginosa versione di Piazzolla nel 1961 con il suo quintetto con Simon Bajour al violino, Jaime Gosis al pianoforte, Kicho Diaz al contrabbasso e Horacio Malvicino alla chitarra elettrica. La prova è sintomatica di un sottilissimo equilibrio nell’alternarsi tra desarrollo e fractura, con lo sfoggio di virtuosismo necessario che mette in luce tutti i musicisti. Cosa può fare Alvarez di fronte a queste versioni annichilenti? Lui non ha studi approfonditi di armonia come un Piazzolla, prima dell’improvvisa fortuna di cui giorno dopo giorno meriterà il bacio, cosa aveva fatto nel tango? Si fa in fretta: ha suonato con l’orchestra di Marceletti che riproduceva gli stock arrangements, scritti un dollaro a battuta per le case editrici; ha suonato alla parrilla con un trio che accompagnava grandi cantanti giunti nella sua regione per qualche serata… ne nomino tre, Alberto Marino, Floreal Ruiz, Roberto Goyeneche. Basta. Dalla sua però aveva una dote importantissima: era geneticamente pugliesiano, amando e conoscendo nel dettaglio il linguaggio dell’orchestra. Inoltre poteva vantare di essere membro di un’orchestra dall’impostazione cooperativistica che non era solo economica, ma anche di mutuo sostegno che in questa circostanza gli è valsa la supervisione di un collega più esperto e le sistemazioni collettive in fase di prova. Il 27 dicembre del 1979 il brano fu registrato ed era la seconda volta che Alvarez entrava in sala d’incisione con l’orchestra di Pugliese. C’era stato la settimana prima per registrare quattro temi, El japanga, El africano, Mato y voy e Parlamento che Julio De Caro ha composto e registrato 52 anni prima nel 1927. In quegli anni difficili in cui l’Argentina e il tango sembravano essere precipitati in una notte da incubo dove tutte le vacche sono nere, Pugliese continuava con ostinazione, orgoglio, coraggio a dirigere la sua orchestra e ancora una volta mette la titubanza del suo chacarero di fronte a un terrorizzante dilemma da perderci il sonno. Ma Roberto ha una sua Artemisia, consigliera e consorte: vi ricordate Pilo, la fidanzata del bassista di cumbia? Nel 1984, quando aveva già sposato Roberto, il suo intervento fu un’altra volta l’elemento decisivo che indirizzò il destino artistico di Alvarez, come sempre molto restio a coglierne le opportunità. In quell’anno Arturo Penón aveva lasciato l’orchestra in cui era entrato nel 1968 e Pugliese ha proposto a Roberto di prendere il suo posto di primo bandoneon. Se non ci fossero stati gli incoraggiamenti di Pilo, è molto probabile che il 26 dicembre 1985 quando le porte del Teatro Colon si aprirono all’orchestra di Osvaldo Pugliese, Roberto Alvarez non avrebbe ricoperto quel ruolo delicatissimo che era stato di Osvaldo Ruggiero e quindi di Arturo Penón. L’occasione suprema appartiene a quel genere di fatti straordinari che hanno ripercussioni a lungo termine nella memoria familiare: qualche futuro discendente di ognuno dei partecipanti potrà dire inorgogliendosi, che il nonno del nonno ha suonato al Teatro Colon. In quella sera da sogno ad occhi aperti, si celebrava Pugliese che all’inizio di quel dicembre aveva concluso brillantemente il suo ottantesimo giro intorno al sole. Nella scaletta il festeggiato aveva inserito Chacabuqueando, con l’enorme soddisfazione di Roberto qui in veste di compositore e arrangiatore dalla penna assolutamente persuasiva. Infatti, pur restando fermamente coerente alla sacra evoluzione dell’estilo Pugliese, quell’arrangiamento parla il linguaggio originale e lungimirante, che lo stesso Pugliese si attendeva dai suoi collaboratori, per conferire sempre nuove sfaccettature ai diamanti musicali prodotti dall’orchestra. Alvarez organizzata la partitura dividendo in tre gruppi l’orchestra, ognuno dei quali agisce in corrispondenza di un piano sonoro, con l’agio di acrobatici slittamenti ad un piano all’altro: è la ricchezza barocca di un tessuto musicale, rigoroso ma duttile, che non riposa mai l’ascoltatore per via delle continue metamorfosi a cui è soggetta la sua trama. Nella fila dei tre bandoneones, Alvarez, Alejandro Prevignano e Fabio Lapinta si compenetrano con naturalezza e organicità, identificandosi in questo fraseggio prismatico, come posseduti da un demone d’eccitata esuberanza che guida il loro interplay, esaltandolo con la precisione degli incastri nel ritmo sincopato, la profondità sonora del marcato e la rotolante asimmetria del tres tres dos di atmosfera campera, la veemenza coriacea delle strappate e degli arrastre, i contrasti creati dagli accenti e dalla loro posizione nell’articolazione delle frasi, gli scatti poderosi che intrecciano tessere rigorosamente ritagliate con la medesima stoffa della grazia, del languore e dell’abbandono. Non di meno la sezione degli archi, con un primo violino come Osvaldo Monterde che dal 1974 ha contribuito all’aura numinosa delle registrazioni dell’orchestra. Perfettamente intonati, i loro disegni erratici sono tenacemente graffianti negli staccati e angelici nei legati commoventi. Poi c’è Pugliese che in questo Chacabuqueando, sta nel piano di mezzo con l’atletico contrabbasso di Amilcar Tolosa. Il suo pianoforte è presente come uno spirito che aleggia discreto, signoreggiando la fiammeggiante materia quando si manifesta distintamente negli omoritmi, nella scansione swingante della yumba, in alcuni ornamenti tra una frase e un’altra che si fanno funzione come quelli del Borromini secondo Benjamin. Le due idee motiviche che costituiscono il tema, sono i soggetti di un discorso musicale presentato secondo un inafferrabile traiettoria a zig zag, elastica e serpentina. In questo modo Alvarez mette deliberatamente in pericolo la dimensione strutturale che, per così dire, si fa apparentemente porosa. Ed anche il carattere dei due motivi che si manifesta limpidamente durante la loro prima esposizione è piegato a declinazioni che ne modificano la natura, il primo alludendo ad una atmosfera di rêverie del paese natio e il secondo invece, sviluppando un anelito di appartenenza a quel luogo. Il tutto alternando e transitando una penetrante forza espressiva, da affondi erculei a delicatezze di piuma, come prescritto a quell’ultima generazione di opere che Pugliese avrebbe riconosciuto come tangos de rompe y raja.