Ma cosa centra Rotterdam con il tango? Una canzone che Leo Ferrè ha scritto, ispirato dalla comedie humaine che sguazza nel grasso sottobosco di questo gigantesco crocevia marittimo, disegna un’affresco portuale dove il protagonista che non sa se “farsi il poeta o la puttana”, osserva la fauna costituita da “marinai nerboruti”, ”ragazze in appalto che si sciolgono sopra un’alcova di asfalto, rivestite di seta e di malinconia”, “banconote che frusciano sotto le minigonne e ruffiani che piazzano ogni sorta di donne”, “assassini nascosti nella loro acquavite”, “sciagurati a cui l’alba riaprirà le ferite”, … e tutto questo scenario non ricorda le atmosfere del barrio de la Boca di inizio novecento, quello della guardia vieja, di Arolas, delle milonguitas, dei bar scalcinati e mal frequentati, delle terapeutiche fughe notturne? Non sembra quindi così stravagante il fatto che in questo melanconico porto del nord, il tango abbia trovato diversi ingredienti sentimentali che glielo ha fatto riconoscere come una casa ospitale. Più in generale, l’Olanda si è dimostrata tutt’altro che un Paese frugale nei confronti di questa cultura articolata tra musica, poesia e danza. La principale testimonianza di questa sensibilità ha fatto sì che il tango fosse accolto con piena dignità nel luogo accademico per eccellenza, il conservatorio, e per l’esattezza attraverso la creazione di un dipartimento specifico al Codarts di Rotterdam. L’iniziativa ha preso corpo nel 1993, su iniziativa di Leo Verdelve e soprattutto di quell’adamantino bandoneonista che è Carel Kraayenhof. Parleremo di quest’ultimo in uno spazio meritatamente dedicato a lui, ma è necessario introdurre il suo nome proprio qui perché tramite il proprio contatto diretto con Osvaldo Pugliese, il Maestro di Villa Crespo ha accettato con entusiasmo di essere nominato direttore artistico di questo istituto, già dalla fondazione e fino a quando, dopo la sua scomparsa avvenuta nel 1995, non è stato sostituito da Gustavo Beytlemann. Questo cappello introduttivo ha tre punte, l’Olanda, Pugliese, ed evidentemente Roberto Alvarez, che avevamo lasciato la scorsa settimana tra le luci e gli onori, nella sognante favola del concerto al Teatro Colon. Per inserire quest’ultima punta dobbiamo lasciare il 1985, spostandoci quattro anni più avanti e precisamente nel momento in cui Roberto ha deciso di prendere il suo destino tra le proprie mani e iniziare un nuovo percorso musicale indipendente. In questi casi di dimissione era necessario affrontare il delicato compito di comunicarlo all’amato Don Osvaldo, facendogli rivivere a malincuore esperienze che lo avevano già toccato dolorosamente diverse volte. E sembra che Pugliese avesse stabilito un protocollo preciso per circostanze simili: il fuoriuscente di turno era cordialmente invitato al rituale che il Maestro aveva battezzato “el cafè de la despedida”. Un punto di non ritorno, analogo al raggelante “hoy tu va a entrar en mi pasado” intercorso tra i mareados di Enrique Cadicamo. Ma quale era il motivo che ha fatto decidere Roberto di lasciare l’orchestra adorata e affrontare rottura che sapeva definitiva? Una turnèe. E dove? Tutto ci farebbe supporre che la destinazione fosse particolarmente importante, New York, Tokio, Parigi, Mosca…: niente di tutto questo. La meta era l’Olanda. L’Olanda che da poco Alvarez aveva visitato con l’orchestra di un senescente Pugliese, per l’ormai mitologico concerto del giugno di quel 1989, sul palcoscenico del Royal Theatre Carrè di Amsterdam, condiviso niente di meno che con il sexteto di Astor Piazzolla. Un’altra serata entusiasmante per quel gruppo che Pugliese, con humor e umiltà defnisce come “rasca viruta”, di fronte ad un pubblico olandese che lo ha stupito per il calore dell’accoglienza. Anche questo era ormai alle spalle e, in fondo, alla cordiale e amara conversazione intercorsa durante il “cafè de la despedida” con Alvarez, Pugliese era preparato. Sapeva che prima o poi sarebbe successo e già nel 1981, in un’intervista sulla rivista Humor, dichiarava che Binelli e Alvarez erano pronti per dirigere una formazione propria. In ogni caso il tenace battagliero, dimostrando tutta la sua empatia, ha strappato a Roberto la promessa di impegnarsi far vivere l’orchestra oltre quella turnèe effimera, contrariamente ad altri che non hanno saputo dare seguito ai propri progetti da direttori. E questa promessa è stata mantenuta in pieno con un’orchestra che ha collezionato un’esperienza ormai trentennale, superando tutte le vicissitudini connesse agli inevitabili cambi di formazione che una simile longevità comporta. Il primissimo organico vedeva Roberto Alvarez con una schiera di musicisti eccellenti come Victor Lavallen secondo bandoneon, il violinista Carlos Piccione di provenienza troileana, il pianista Roberto Cicarè che aveva suonato con Calò e Juan Carlos Zununi che era un giovane arrangiatore impiegato anche come tastierista. Sì, tastierista, con il compito oscuro di rinforzare la sonorità della fila degli archi utilizzando i suoni sintetici campionati in quel nuovo strumento. Ho lasciato da parte gli altri due musicisti perché costituiscono, insieme ad Alvarez, il trio che ha lasciato Pugliese per fondare questa nuova formazione. Sono il secondo violino Fernando Rodriguez e il contrabbassista Amilcar Tolosa, impegnato in prima persona a condividere con Roberto le attività organizzative del settiminio. La turnèe era alle porte ma mancava il nome dell’orchestra per la comunicazione pubblicitaria delle serate. Chi propose il nome? Una ballerina. Olandese. Lei scelse Color Tango che piacque alla troika, pronta insieme agli altri musicisti ad iniziare iniziava la nuova avventura musicale. In un primissimo momento il profilo stilistico risultava di una certa instabilità: Lavallen ci teneva ad andare in una direzione più prossima al Sexteto Tango; Alvarez era propenso ad un apostolato di filologia pugliesiana. Lavallen uscì dall’orchestra e l’apostolo ebbe via libera. C’è di più. La fiammante Color Tango registrò prestissimo il suo primo lavoro. E dove lo incise? In Olanda naturalmente e precisamente a Munster nel celebre Studio 44 diretto dal fonico ed ex batterista jazz Max Bolleman, che lì, al suo esordio del 1982 aveva realizzato un album strepitoso di Warne March per l’etichetta Criss Cross. Tra i temi registrati, uno chiude idealmente il triangolo Olanda-Pugliese-Alvarez. Il brano si intitola Clavel rojo, lo ha arrangiato Alvarez, lo ha composto l’olandese Carel Kraayenhof dedicandolo a Pugliese attraverso la mediazione simbolica del garofano rosso appoggiato sul pianoforte, quando il Santo era impossibilitato ad esserci per via di motivi si salute o di politica. In seguito anche Roberto Alvarez si è aggiunto al diluvio di dediche che ha meritato Pugliese, come musicista e come uomo, con un tema che si intitola Tango a Pugliese in cui l’autore, come gli chiedeva il suo ex direttore, si è dedicato a ensuciar papeles….. vale a dire a idearne l’arrangiamento che registrerà nel 2003 sul cd omonimo. Le cose si stavano sistemando anche con Lidia, la moglie di Pugliese che in un primo momento avrebbe voluto mettere del cianuro o almeno un lassativo nel cafè de la despedida che ha concluso la collaborazione di Alvarez con il marito. La tensione si era manifestata anche con l’intransigente divieto di unirsi al debutto dell’orchestra dei tre ammutinati alla figlia Beba, pianista come il padre. Ma il tempo, pur continuando ad essere implacabile tiranno, a volte guarisce e si scopre persino gentiluomo. Così per le ricorrenze del centenario della nascita del marito, Lidia incaricò Roberto di occuparsi delle partiture inedite che giacevano in un cassetto, insieme a brani incompiuti e a semplici abbozzi. Nacque il cd Obras ineditas de Osvaldo Pugliese dove, tra gli altri fa capolino il tema A los obreros graficos, dedicato ai lavoratori che sarebbero stati suoi colleghi se avesse continuato nella professione di linotipista, praticata in giovanissima età. Ad occuparsi di arrangiarlo è stato Roberto Alvarez in persona che interviene sul materiale composto con la bizzarra strategia di una sorta di dislocuzione (rubo il termine ad uno studioso di Joyce) che Pugliese utilizza in una fase evoluta della sua attività di compositore. Questo comporta una scrittura musicale che, spostando repentinamente il suo asse armonico, cambia paradigma non solo tra le sue sezioni strutturali ma anche all’interno delle medesime. Insomma quando tutto sembra indirizzare un’idea melodica verso la sua precisa risoluzione, ecco che slitta repentina da un’altra parte. La confidenza con questo approccio certamente innovativo nel tango, influenza in qualche misura anche la musica di Alvarez. Vi ricordate Pilo? La personal influencer di Alvarez, la fidanzata che lo spinge ad affrontare il provino con Pugliese malgré lui che aveva ingaggiato una lotta con la sua stessa vocazione, quindi la moglie che lo rassicura convincendolo ad accettare il posto di primo bandoneon lasciato da Arturo Penón? A lei, innamorato e riconoscente, Roberto dedica un suo mirifico idillio musicale intitolandolo semplicemente Pilo e svolgendolo fluidamente tra gli impasti porosi e materici di un’orchestrazione dinamica dove, in alcuni passaggi, traspare la dislocuzione pugliesiana. Questo metodo nel trattamento musicale non manifesta negli arrangiamenti e nelle composizioni di Alvarez quelle artificiosità in cui incappano gli autori che hanno scarsa dimestichezza con il linguaggio dello stile di Pugliese. Tutto si sviluppa con naturalezza transitando da una melodia all’altra per segmenti, tra un’agogica e un’altra secondo il dettato di un comportamento ritmico flessibile e coeso. A questo approccio è stato sottoposto anche un vals di Alvarez intitolato Ma y pa, ancora una volta una mimési idealizzante sugli affetti familiari. La sua melodia di gentilezza francese trasporta in una malinconia da salotto proustiano, con sospiri ritmici singolari rispetto alla scansione regolare comunemente prevista nella letteratura del vals criollo. Siamo di fronte ad una forma evoluta del vals, secondo una impostazione originale che è un unicum, perché anche nell’estendersi dell’offerta creativa divampata con il tango contemporaneo, pochissime composizioni ternarie hanno osato esperimenti di questa portata: se me ne viene in mente una intitolata El balsamo del chitarrista Martin Vazquez di El Arranque. In ogni caso la popolarità internazionale di Color Tango e di Alvarez non è certo passata da queste composizioni singolari, ma attraverso la capacità di riproduzione degli arrangiamenti e dello stile dell’orchestra di Osvaldo Pugliese. In questo caso, a differenza di altri epigoni, Alvarez e i suoi compagni sono legittimati dall’adesione direi spirituale a quel repertorio e a quella maniera di interpretarlo che li qualifica come gli unici messaggeri in grado di trasmetterlo nella sua vera natura. Unici insieme al Sexteto Canyengue che ci fa ritornare da dove siamo partiti, in una Olanda dove il loro deus ex machina Carel Kraayenhof si distacca oltre che come strumentista, anche come arrangiatore e compositore. Rispetto quest’ultimo aspetto della sua attività e della sua affinità elettiva verso Pugliese, oltre a un motivo mistagogico come Clavel rojo, Carel, ne ha scritto un altro dedicandolo all’apostolo di cui ci stiamo occupando. Il titolo è A Roberto Alvarez che Carel ha registrato sul cd Tango Royal con il suo Sexteto Canyengue, unito allo sfarzo teatralizzante della Concertgebouw Chamber Orchestra. Un brano decisamente riuscito che sembra essere stato ideato con gli strumenti più sensibili del laboratorio pugliesiano, back ground incoercibile e maneggiato con autorevole disinvoltura dall’autore. Beninteso che Carel utilizza gli ingredienti necessari ad identificare lo stile di Pugliese, li approfondisce uno ad uno, ma dopo un apprendistato di messa a fuoco, riproduzione e scavo anche certosino, il suo lavoro tesse un dialogo evocativo con Pugliese e non mira affatto a realizzarne una copia filologica. Il suo approccio negli anni della maturità musicale è quello di redigere una specie di atlante personale in cui traduce a suo modo quel serbatoio di informazioni illuminanti che è stata la scuola pugliesiana. Seguendo questa linea di filiazione distaccata, Kraayenhof dimostra di aver superato la stagione in cui approfondiva il linguaggio di Pugliese con un meticoloso lavoro da falsario sopraffino come lo fu il suo connazionale Van Meegeren che dipinse una serie di Vermeer tarocchi, piazzandone uno anche a….Hermann Göring. E forse il coraggio di filtrare il suo essere pugliesiano attraverso una memoria fluida che non si irrigidisca in scelte dogmatiche, glielo hanno dato alcune composizioni e alcuni arrangiamenti che Roberto Alvarez ha realizzato con Color Tango, emancipandosi con rispetto dal modello intramontabile. In questi titoli che non facciamo fatica ad etichettare come imbevuti di spirito contemporaneo, tutto il magnetismo che rimanda a Pugliese agisce senza inibire una demarche che sposta agilmente il loro asse in un prisma creativo sicuramente personale. Anche A Roberto Alvarez è già su questa strada, facendoci prendere atto che Carel, come ogni artista che si rispetti, ha sentito l’esigenza di sorseggiare un immaginario “cafè de la despedida”, liberandosi dal padre per scoprire il proprio tango…a Rotterdam che per questa musica è un luogo di chimere.