In questa nota che ha come protagonista Raul Garello, vorrei iniziare riportando un breve frammento da un’intervista rilasciata alla famosa radio 2X4 dove le sue parole ricordano, commuovendolo fino alle lagrime, come andarono le cose nella seduta d’incisione che nel 1977 lo impegnò per la realizzazione di El Gordo Triste. A cantarlo è la voce dolente di Roberto Goyeneche, a suonarlo l’Orquesta Tipica Porteña che ha sui leggii l’arrangiamento di Garello in cui figurano due strumenti singolari il flauto che intreccia una incantevole linea melodica con la prima esposizione tematica contrappunto e la batteria che accompagnerà il bandoneonista fino alle sue più recenti produzioni. Troilo era mancato due anni prima restando nel cuore di tutti coloro che lo avevano ascoltato, conosciuto casualmente, amato come amico generoso, temuto come direttore in cui la dolcezza era proporzionale all’esigenza. In questo El gordo triste che regala al cuore dilatazioni trionfali, la musica di Piazzolla, incontra Horacio Ferrer, il suo consueto poeta d’illuminazioni per così dire a strapiombo, con il surplus dell’interprete che un principio di decadenza fisica benediceva, insinuandosi nelle corde vocali, per scavare una solenne drammaticità elegiaca. La galvanizzante combinazione realizza in una suite d’immagini è l’esempio emblematico di quel capzioso maquillage che la retorica nominava, e forse chiama tutt’ora, ipotiposi: tant’è che la percezione di Anibal Troilo è visiva, esattamente nei termini fisici (gordo) e in quelli ontologici (triste) annunciati nel titolo. La registrazione sta andando avanti commossa, siamo arrivati quasi al traguardo, il film sta finendo, ma mancano ancora un verso “amado por nosotros”. Lì Garello inserisce alcuni rintocchi di campana che travolgono di emozione El Polaco, facendolo esitare nella chiusura. Il cantante appena terminato esce dalla saletta dove stava registrando, va svelto alla sua giacca, la infila, dice “non verrà mai meglio di così”, e a sorpresa esce in strada per andarsene senza riascoltare. E qui nel raccontarlo anche Garello scoppia a piangere ricordando il pathos umano e artistico che vibrava in quel momento di quasi quarant’anni prima. E personalmente sono molto imbarazzato ad aggiungere qualcosa a questa trepidante miniatura di bellezza spirituale che, attraverso l’ispirato quartetto Piazzolla, Ferrer, Garello e Goyeneche, esprime gli ipogei troileani avvicinati da un enigmatico verso di Julian Centeya nel suo poema dedicato a Troilo, dove Pichuco “està en el misterio de la cosa”. Forse l’unico dettaglio che anch’esso rimarrebbe avvolto “en el misterio de la cosa”, riguarda le due battute iniziali proposte dal “mago di Chacabuco”, Raul Garello. Lì l’arrangiamento di Garello lascia di proposito una traccia che riprende esattamente le prime due batture di un altro tango dallo spirito commemorativo. Milonguero triste, il tema strumentale e lastricato di malinconia che Troilo ha dedicato ad Alfredo Gobbi, registrandolo nel 1965. Raul Garello, dopo essere entrato nell’orchestra di Troilo del 1963, è rimasto per quasi quattro anni occupandosi solamente di suonare il bandoneon, mentre già arrangiava per altri direttori. Incuriosendosi su chi fosse arrangiatore di Ese muchacho Troilo che Enrique Francini scrisse con Homero Exposito in suo onore, Troilo scoprì il talento del suo giovane bandoneonista. Incrociandolo nel caffè adiacente alla sede di Radio Splendid dove l’orchestra suonava, gli chiese informazioni in merito, venendo a conoscenza di tutta la feconda esperienza che aveva già accumulato come arrangiatore. Epperò Garello di fronte di Troilo si seyyyyyntiva assolutamente inadeguato come orchestratore, ma Pichuco aveva insistito convocandolo per l’indomani nel pomeriggio a casa sua. La cucina sarebbe diventata la sede del laboratorio creativo in cui Troilo proponeva, Garello creava le idee, Troilo le discuteva, Garello le rifiniva, Troilo le correggeva. Tutto nell’avvolgente profumo di un non meglio identificato “sugo alla siciliana” preparato da una greca di Rodi: Zita Dudui Kalacci , l’amata moglie greca di Troilo che era anche chiamata ad un parere su come stavano procedendo i lavori di Raul e Anibal. Garello si presentò per la prima volta in quello studio improvvisato, alle 14.30 di un lunedì, secondo l’appuntamento fissato. “Te gusta Los mareados? Que te parece?”. Garello si mise subito al lavoro, sedendosi al tavolino della cucina di Troilo con il bandoneon, per realizzare una versione strumentale del capolavoro firmato da Juan Carlos Cobian. Pichuco non era nuovo all’interpretazione di questo tango che aveva registrato nel 1942 con Fiorentino, ma soprattutto proprio lui è stato il protagonista del cambio di titolo. Secondo una prassi che non è inusuale, Troilo aveva chiesto una nuova letra a Enrique Cadicamo e coerentemente con questa, il titolo sarebbe stato convertito in Los mareados, sostituendolo a Los dopados, quello originario con cui il brano era stato presentato nell’omonima opera teatrale. Un tignoso studioso di tango ha scandagliato innumerevoli raccolte di poeti minori della letteratura novecentesca francese, scoprendo che Cadicamo ha in qualche maniera ricostruito nel suo testo il clima della poesia intitolata Final di tal Paul Géraldy, dove il parigino testimonia la rottura con l’attrice Germaine Lubin, scrivendo il verso tremendo che sancisce un final irrevocabile: Ainsi, déjà, tu vas entrer dans mon passé. Lo stesso amaro commento definitivo che l’uomo un po' alticcio seduto al tavolino di un cafè di Buenos Aires fa direttamente all’interessata: hoy vas a entrar en mi pasado. Al contrario, seduto al suo tavolino domestico, Troilo stava facendo entrar en su futuro Garello, mettendolo alla prova con una versione strumentale di Los Mareados che aveva un precedente analogo realizzato da Fresedo nel 1922, per certi versi facilitata dalla perfezione formale che nobilitava la scrittura di Cobian, cioè la base di partenza. Per altri resa complicata dal dover mantenersi in stretta osservanza con la regola dell’estilo troileano, squisito, sorvegliatissimo e parsimonioso. Il 10 di agosto del 1967 questa prima orchestrazione fu registrata e con una formazione che timbricamente ricalca esattamente la classica formazione di una tipica, ma qui è allargata nel numero, cinque bandoneones, 7 violini, una viola, un violoncello, pianoforte e contrabbasso. E bisogna dire anche qualche nome per far uscire dall’oscurità i talenti misconosciuti di cui si avvaleva l’orchestra. Oltre a Troilo e a Garello, gli altri bandoneon sono Ernesto Baffa, Domingo Mattio e Eduardo Marino; tra i violini, Aquiles Aguilar, Fernando Suarez Paz, Josè Votti, David Diaz; Osvaldo Berlingeri al pianoforte e un limpidissimo, poderoso Rafael del Bagno al contrabbasso. La riuscita è incantevole e, mi sento di dire che se esistessero i Meridiani per le orchestre di Tango, uno dei più significativi e corposi non potrebbe essere che quello dedicato a Troilo, il quale continua a lasciare momenti musicali di smemorato abbandono e non solo ai suoi assidui ascoltatori. Ma aldilà di questa esternazione appena un po' esaltata, vorrei sottolineare il trattamento della melodia che, nonostante un arrangiamento evoluto, interviene solo marginalmente nel modificare la creazione di Juan Carlos Cobian che nonostante la lunga stagionatura non ha perso il suo odore di vernice fresca. Quindi il desarrollo è applicato a tutti gli altri elementi dell’accompagnamento. Piazzolla invece, che lo registrerà in forma strumentale nello stesso anno inserendolo nel secondo dei due dischi intitolati Historia del tango, ha anche lui molta cura ad intervenire intorno alla melodia, lasciandola praticamente identica all’originale anche se solo nella prima parte, per manipolarla nella seconda: ma lui al contrario degli altri che cito in questo minimo regesto, non inizia l’arrangiamento con il motivo principale perché dopo una introduzione di stampo piazzolliano fa entrare il brano nell’estribillo esposto dal violino di Antonio Agri. Dieci anni dopo il tema in versione strumentale lo affronta anche Osvaldo Pugliese e qui le modificazioni melodiche fanno capolino anche per la forte interconnessione con le altre parti dell’arrangiamento che rende il tessuto armonico profondo su un fondo ritmico ondeggiante. Nel nostro secolo esiste una meditata versione di Marconi che ha dichiarato di avere un debole per questo tema di Cobian. Il suo desarrollo è molto spinto anche dal punto di vista della ricostruzione melodica che è soggetta a piccoli cataclismi che agiscono in diversi punti lasciando in altri intatta la riconoscibilità della melodia originale. Ancora più estremo è il trattamento che riserva a Los Mareados l’arrangiamento del pianista Emiliano Greco, del valoroso quintetto di giovani che si fa o faceva chiamare Viceversa. Qui la ricostruzione iniziale gioca su un fitto omoritmo a più voci in contrappunto, eseguito con precisione di note, di intonazione e di carattere. Un carattere che trovo reinventato anch’esso rispetto la natura di romanza che Cobian ha dato alla sua melodia. Lo spirito, mi riecheggia certe soluzioni omoritmiche che saranno caratteristiche del Sexteto Tango, negli arrangiamenti di Julian Plaza che già nel 1967 era al lavoro sul repertorio di questo gruppo quando ancora fungeva da arrangiatore principale con Troilo. L’anno seguente di dimise e Troilo trovò la soluzione in casa, sostituendolo con Garello che, lavorando con furia e ostinazione, fece passare dalle sue mani 25 temi in cinque anni. Solo cinque anni perché il 1971 sarà l’ultimo anno in cui l’orchestra di Troilo entrerà in studio di registrazione. Ma, ritorniamo nella cucina di Pichuco. Dopo timidezze e tentennamenti Garello decide di far ascoltare col suo bandoneon un brano composto da lui. Anibal ascolta con le sue “orejas gigantes” (dice Garello) che fanno sembrare più proporzionate “las manos como patios” (scrive Horacio Ferrer). Pocholita gira il sugo alla siciliana, alla fine il padrone di casa chiede il titolo. Che Buenos Aires: Zita approva e Anibal incarica: “escrivalo, pibe, escrivalo”. E qui c’è la contraddizione tra l’Usted, terza persona a cui appartiene la coniugazione di escrivalo e il pibe che universalmente è trattato con il tu, nella fattispecie è Vos. Era il modo di intrattenere le relazioni con i suoi musicisti, Troilo usava il rispetto dell’Usted e la tenerezza del pibe. Fatto sta che il brano curato dal pibe anche nell’arrangiamento verrà registrato nell’agosto del 1969 allo studio Parisienne di Saavedra, e sarà il primo in cui l’autore è solamente Raul, perché Mas allà… bandoneon, che aveva preso la via del vinile nel 1967, figurava in comproprietà autoriale con Ernesto Baffa. Ma ad attendere Garello ci sarà una piacevolissima sorpresa. Troilo intitolerà il suo 33 giri, Che Buenos Aires. Il nostro chacabucheano, se si dice così, se lo merita mostrando il gusto derivato dalla sicurezza quasi infallibile che hanno gli uomini felicemente impegnati nel mestiere per cui sono nati. Il caleidoscopio di dettagli che si apre a partire da tre piccole ideuzze è un crogiuolo di limpide risonanze che appaiono, si intravedono, scompaiono per riapparire ancora, in empatica sintonia con il repertorio di arnesi musicali che nel loro insieme codificano uno stile: quello di Troilo. Come dicevo, nel 1971 Pichuco non gode di buona salute, ma ha il desiderio di proporre l’impresa conclusiva al produttore della RCA Aquiles Giacometti. Un’impresa che poteva mettere d’accordo il risultato artistico con quello commerciale. Lui e El Polaco ancora insieme a riprendere dall’album dei ricordi, una selezionata scelta di tangos con diversi arrangiatori tra cui Garello. Il titolo dell’Lp testimoniava con chiarezza di slogan il progetto: ¿Te acordás Polaco? Forse questa domanda intendeva rimandare Goyeneche a quel periodo, tra il 1956 e il 1963, quando il cantante aveva trascorso un periodo artisticamente magico alle dipendenze di Troilo, lasciandoci 26 temi nonostante l’agra congiuntura del tango in quegli anni. E in questo ritrovarsi per la seconda volta, i due erano entrambe così altrettanto popolari, da condividere in parti uguali il progetto. Dico ritrovarsi perché già nel 1968 collaborarono per il disco Nuestro Buenos Aires, con musiche di Armando Pontier e letras scritte da un cacciatore seriale di nostalgie, l’uruguayano Federico Silva con quel suo piacere per le metafore, palpita come un Homero Exposito minore: ricordo agli ascoltatori milongueros che Silva è autore del testo di Que falta que me haces, portata al successo da Alberto Podestà e Miguel Calò in piena decade d’oro. In questa registrazione Garello si occupa di tutti gli arrangiamenti e nell’orchestra debutta discograficamente il pianista Josè Colangelo che ricorda: El Maestro nos decia, “l’orquesta siempre al frente pero cuando aparece el cantor, cuerpo a tierra!”. E’ veramente difficile scegliere quale a quale tema accennare, individuandolo in questo tempio di idee, officina di musica, poesia e luce. Vorrei affidarmi a un folle coup de dés mallarmeano, se non ricordassi la rima con cui si conclude quella decadente poesia simbolista, insegnandoci che, in fondo, in ogni atto del pensiero si annida il caso di un colpo di dadi. Chissà quale sarà quello per cui sono arrivato a decidere per Para poder volver. Forse perché ci sono un paio di macro elementi da sottoporre. Il primo riguarda l’approccio alla struttura rispetto all’intervento del cantante. In questo caso Goyeneche si ritrova nello schema in cui agivano i cantores de orquesta, vale a dire che il suo ingresso in scena avviene dopo un’esposizione strumentale di 22 battute e non dopo una semplice introduzione di quattro o otto battute come con i cantores solistas, di cui in quell’epoca era il prototipo. La seconda riguarda una delle grandi qualità di Goyeneche sfoderata in quel decir che Schoenberg chiamava Sprechgesang, dove il canto confina e si espande nel parlato: qui per tutta una strofa questa attitudine direi naturale è chiamata a convertirsi in recitativo. Quali sono i temi della letra? Fondamentalmente due: l’immobilismo di un uomo che si fa un film in testa, che intitolerei “sega cinese” rimandando alla letteratura da caserma per farsi un’idea della sua meccanica dolorosa, e l’atemporalità del barrio, tanto per riprendere una parola spesa da Victor Lavallen e che troverete ripetersi nella sedicesima puntata della mia avventura nel tango contemporaneo e in quello che lo ha propiziato. Qui però l’atemporalità si riferisce alla qualità di chi popola il barrio, indifferente ai cambiamenti sociologici, urbanistici, tecnologici, insomma in precisa coincidenza con il gattopardismo del principe di Salina. E la sega cinese sta nel voler spezzare la ruota dell’abitudine, per vederla ricostituirsi tale e quale. Garello sgomitola e arriccia linee contrappuntistiche con discrezione di servizio, ma “siempre al frente” con il suono sontuoso degli archi sempre tutti e armonizzati, le sincopas esplosive dei bandoneones e della ritmica, i millimetrici inserimenti del pianoforte e di Pichuco all’inizio del recitato. Chi ha seguito gli altri appuntamenti con queste mie note, si sarà forse accorto del fatto che nell’affrontare i personaggi selezionati, la gran maggioranza dei casi, le analisi sono state concernenti al repertorio strumentale, mentre oggi è esattamente il contrario. Questa scelta non è un capriccio o una svista ma la conseguenza del fatto che, nel suggerire le prerogative del passaggio del tango nella sua fase contemporanea queste sono soprattutto legate al linguaggio strumentale. Ad eccezione di Piazzolla e Garello, per un motivo che li accomuna, ed è inerente alla loro discendenza sentimentale e artistica dalla filosofia musicale di Troilo che ha scritto capitoli magniloquenti della sua carriera, sull’arte di utilizzare l’orchestra alla stessa frequenza emozionale sprigionata dalla parola poetica cantata. Su questo tema Troilo ha indicato come nella sua visione del tango, la poesia e la vita è bene che funzionino secondo il principio dei vasi comunicanti, emulsionandosi a vicenda e offrendosi come verità. Sentite questo aforisma di Anibal, e trovategli un posto stabile nel vostro cuore: “no se trata de ser poeta, sino de vivir en estado de poesía”. Ci vorrebbe il minuto di silenzio. Ma, bisogna dirlo, i poeti sono composti omeopatici che aiutano chi li assume a vivir en estado de poesìa, o almeno ad approssimarsi a quella condizione auspicata. Troilo ne ha fatto uso con regolarità, amandone di varie specie che su di lui hanno avuto gli effetti prodigiosi che conosciamo. Naturalmente i nomi sono tanti, ma i più potenti evocano un’Arcadia antica: Homero uno, Catulo, Homero due, cioè Manzi, Castillo ed Exposito. Il giorno in cui l’orchestra il ferreriano “Shakespeare lunfardo” entrò per l’ultima volta in uno studio di registrazione, Homero 2 e Catulo c’erano. Il primo con Trenzas e il secondo con Corazon de papel di cui vi voglio parlare per la singolarità del melodrammino testuale e, dal punto di vista musicale, per il penetrante arrangiamento di Garello che sembra scritto con tutte le attenzioni dovute al gusto di Troilo. Qui la faccenda si sviluppa in due atti ambientati in un appartamento. Il parlante è il protagonista che ricorda, tormentato nel presente della sua confessione, ma anche sorretto da una fievole luce d’illusoria consolazione, anche se del tutto stravagante se non pervertita. Nel primo atto l’appartamento è un nido d’amore e di tenerezza tra il padrone di casa e la sua nuova compagna. Da una sua constatazione puerile e dall’azione che ne segue, Castillo costruisce il pretesto della morale finale. La ragazza osservando che una bambola trovata nell’appartamento non ha un cuore, gliene prepara uno di carta rossa che gli fissa al petto con una spilla, facendoci capire che la bambola non è un sex toy gonfiabile (se ne vendevano già dall’inizio del ‘900): e comunque prima lo sospettavamo perché il suo abbigliamento da Pierrot non non è il più adatto al caso,salvo preferenze en travesti ; dopo, finalmente nell’estribillo, Castillo ci rassicura fino in fondo chiarendo ai più maliziosi che la bambola è di trapo. Il secondo atto ci porta direttamente nell’oggi, quando la storia d’amore si è bruciata dopo quattro brevissimi mesi. Lei è volata via senza esitazioni per finire tra le braccia del suo nuovo drudo, lasciando, nel clima disperato dell’appartamento l’uomo con la sua bambola dal cuore purpureo di carta. Proprio la natura inanimata della bambola, è la strada patologica per aggirare i meccanismi di difesa che l’uomo ha alzato per non soffrire più. Ha un nome e ahimè non pochi casi: oggettofilia (per par conditio, al femminile si sa di un’oriunda berlinese che ha trovato l’amore della sua vita in un romantico Boeing 737-800, che va regolarmente a baciare e accarezzare in un hangar dell’aeroporto di Tempheloff, tenendo a casa un modellino di oltre due metri che tiene tra le braccia per immediate consolazioni). Il nostro uomo trova in questa devianza, sollievi e certezze compensative: la bambola garantisce fedeltà eterna, quindi risulta la candidata perfetta a cui abbandonarsi per un amore senza fine. Due parole che mi ricordano i tempi in cui suonavo con Gino Paoli e una straziante canzone di allora con il testo disperato del sommo Joan Manuel Serrat, intitolata Il manichino: mi auguro che questi versi di Castillo e la mia mediazione non sollevino le proteste femminili di allora. In ogni caso il mio consiglio, alla luce di queste rivelazioni, è quello di ascoltare Gino Paoli e soprattutto la storia di quel cuoricino di carta castilliano che aiuta a vivere per qualche minuto en estado de poesìa con il Gordo triste, il suo arrangiatore e il Polaco dalla voce venata di tremoli con cui declina tutte le sfumature di questo vecchio tango scritto nel 1929. Io corro a girare il mio sugo alla siciliana.
2 novembre 2020
Con profumo di sugo alla siciliana
di Franco Finocchiaro
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