Nel 2015 anche Lavallen, come in fondo Emiliano Balcarce con Si sos brujo, è stato celebrato da un documentario: Tipico Victor girato da Daniel Tonelli e Marcelo Turrisi e comodamente caricato sul canale you tube per la gioia dei tangueros curiosi. Tra un momento musicale e l’altro, possiamo ascoltare alcune interviste, tra le quali quella ad Atilio Stampone che è un riconosciuto direttore e pianista, scelto anche dallo scorbutico ed esigente Piazzolla per il suo Octeto de Buenos Aires. In un frammento lo sentiamo dichiarare con voce tremante che “se l’arrangiatore non funziona, anche se sei Gardel, questo non va”. In cinque secondi, questo pugno di parole atemporali, inquadra la questione per sempre con il peso di una lapide e la saggezza di un aforisma. E la voce di Stampone che commenta la qualità del Lavallen arrangiatore, così ferita dagli anni, mi ha ricordato l’Ungaretti omerico che ascoltavo con inquieta trepidanza nelle sue introduzioni dell’Odissea, sceneggiata in 8 puntate per la RAI. Siamo nel 1968 la televisione pubblica aveva spunti di profondità che sentivano ancora l’influenza di redattori illustri quali Calvino, Eco, Vattimo: ne ricordo due, la lunga intervista ad Adorno nel 1966, e la spiegazione di L’uomo a una dimensione, ospitata sul teleschermo con il diretto contributo del suo autore Herbert Marcuse. Contemporaneamente dall’altro lato del mondo, sei migranti dell’orchestra di Osvaldo Pugliese iniziarono una loro Odissea, metafora degli interminabili viaggi che, riuniti con il nome di Sexteto Tango, li avrebbero portati in trionfali turnèe per il mondo. Lavallen figurava in quell’elenco di assi che decisero di lasciare il posto ricoperto nell’orchestra di Pugliese: un posto d’oro perché, oltre al prestigio artistico, l’impostazione cooperativista garantiva comodi riconoscimenti economici e quindi piccoli lussi come quello dell’automobile che quasi tutti i musicisti delle altre orchestre potevano solo sognare. Il nascituro sestetto, lo ribadisco, non fa certo un autodafè dello stile pugliesiano, che anzi continuerà ad indicare l’orientamento privilegiato, l’entelechia insuperabile applicata ad una formazione dimagrita a taglia medium. Anche nel nuovo sodalizio tra vecchi compagni, Lavallen si offre come arrangiatore e questa volta anche come timido compositore, professando il verbo di Pugliese con una filologia intelligente che ha azzerato il rischio di essere ridotta a chirurgia plastica. Il bandoneonista è diventato un arrangiatore esperto e spavaldo al punto di mettere le mani su un tema che dalla sua prima registrazione, nessuno aveva mai più affrontato a causa della sua complessità, direttamente proporzionale al tiepido successo che aveva raccolto. Si tratta del tango El Engobbiao dedicato ad Alfredo Gobbi da Eduardo Rovira, autore anche dell’orchestrazione registrata nel 1957 dal Violin Romantico con l’orchestra che aveva debuttato tra gli splendori del Sans Souci di Calle Corrientes nel 1942. Già in quell’autunno le idee musicali della formazione erano pronte a deliziare i palati esigenti con il suo stile originale di marcacion bordoneada, dove la personalità del direttore si incrociava con la fantasia decareana, lo swing di Di Sarli, la potenza di Pugliese, il sentimento di un artista fraterno come è stato per Gobbi il pianista Orlando Goñi. Nell’arrangiamento per Gobbi, Rovira accompagna l’orchestra in un quadro fortemente rovirizzato, vicino al confine con la fractura, ma restando nell’ambito del desarrollo attraverso una prudente fluidità nella gestione delle figure ritmiche d’accompagnamento. La registrazione parte con slancio impetuoso direttamente dal tema fondato di una cellula di quattro battute che la partitura ha indicato sei volte, in due presentazioni da tre esposizioni conseguenti. Ma inoltriamoci tra i meccanismi preparati da Rovira con questa analisi spontanea, che comunque può avere le sue asperità per i digiuni, solo per quel che concerne la parte A, cioè il tema principale. Sostanzialmente, la parte A del tema di Rovira è composta da 16 battute con tre ripetizioni elaborate della cellula tematica di quattro per un totale di 12 battute, più una chiusura sempre di 4 battute, che serve da collegamento alla parte B. In questa seconda sezione l’autore-arrangiatore scatena attraverso le sue armi più originali, tutta la sua creatività. Lo fa anche da ubriacante strumentista, qui impiegato come primo bandoneon in due variazioni a rotta di collo su un ritmo che è ben più rapido di quello scelto diversi anni dopo dal Sexteto Tango. Non vado oltre perché approfondimenti più minuziosi risulterebbero più che difficili e necessariamente argomentabili con la lente accademica. Resta da osservare che il passare del tempo non ha deteriorato la bellezza di questa interpretazione, anzi l’ha resa sempre più convincente, come quei vini celestiali sottoposti alla prova dell’invecchiamento. Nella versione arrangiata per il Sexteto Tango e registrata nel 1972, Lavallen ha saputo rendere sapidi anche i passaggi che penetrano il cuore del tecnicismo, con un lavoro molto ben ideato nel modellare secondo lo stampo pugliesiano, una materia di base assolutamente estranea a quel tipo di trattamento, in quanto a costituzione intervallare della melodia originaria e a progressioni armoniche. Innanzitutto l’intervento mina la compattezza formale ritmica e melodica, destrutturandola e ricomponendola con flessibilità e fulgore coloristico nell’orchestrazione. Siamo messi in allarme sin dalla prima battuta che annuncia il misterioso cerimoniale di un’introduzione concepita in una forma di giocondità drammatica. Già qui compare tre volte un frammento riconducibile alla cellula fondativa del tema A: la prima e la seconda come omoritmo, la terza volta invece assegnata al pianoforte. Dopo altre quattro battute di introduzione dove viene fissata la scansione del tempo, si entra nella esposizione del tema A che qui è esposto quattro volte e non tre come in Gobbi, e a questa sezione vengono aggiunte quattro battute di coda. Ognuna di queste esposizioni è trattata in maniera differente. Prima il pianoforte, poi il bandoneon, quindi ancora il bandoneon ma accompagnato da un tres tres dos che termina con un rallentamento, infine con i due bandoneon, mentre il ritmo riprende di getto e arriva alle quattro battute di coda che collegano questa sezione alla parte B, dopo un minuto e sette secondi dall’inizio. Ci sono due elementi da sottolineare. Il primo è l’elasticità del ritmo che già dall’introduzione alterna una pulsazione diciamo aperta, con rallentamenti e rubati, a una pulsazione ben marcata che in seguito potrà trasformarsi in parentesi di tres tres dos. Il secondo riguarda la retorica dell’ornamento che si risolve anche con l’omoritmo. Entriamo nel lessico musicale, provando a definire l’omoritmo e a descrivere cosa comporta nel tango: si tratta di una figura ritmica eseguita insieme da tutti gli strumenti, compresi pianoforte e contrabbasso che in quel frangente si astengono dal marcare la pulsazione. Questa soluzione non viene dalla luna ma tecniche evoluzioniste e Lavallen la usa addirittura nell’esposizione tematica del suo primo arrangiamento per Pugliese, Gallo ciego. Tuttavia in genere gli omoritmi nel tango non hanno una funzione di interpretazione tematica ma di collegamento tra due frasi tematiche. A questo punto di approfondimento vorrei segnalarvi tre ulteriori dettagli singolari. Il primo è che a differenza dei mulinelli virtuosistici del bandoneon di Rovira nel suo arrangiamento, la partitura preparata per il Sexteto Tango da questo punto di vista è più sobria, puntando su altre diavolerie. Il secondo riguarda una citazione che il pianoforte di Julian Plaza inserisce in un passaggio e, trattandosi di Gobbi e del pianoforte, questa riguarda un tema di Gobbi dedicato al suo amicissimo pianista e fulminante coltivatore dello sperpero di sè: il titolo è A Orlando Goñi. Il terzo dettaglio riguarda una frase in cui Lavallen cattura il bajo caminante dallo stile piazzolliano, estraneo all’estetica del suo referente massimo Pugliese che, per così dire, ama restare sul posto affidando al basso un marcato statico che alterna tonica e dominante. In questo passaggio, si percepisce anche la chicharra del violino, uno dei segni di quella rumoristica canyengue che De Caro ha iniziato ad inserire nelle sue orchestrazioni, introducendo un’anomalia fonica ben prima di John Cage e del suo legno percosso come indicatore di sperimentazione. Di fronte ad un tango di questa specie, vorrei condividere la sensazione di come certi arrangiamenti così articolati, ci portino distanti dal Tango come Gebrauchmusik, che in italiano non ha un termine corrispondente e che posso azzardarmi a stropicciare traducendolo come “musica d’uso”. Il nuovo orizzonte invece è quello che, intuendo le potenzialità del Tango, lo vedrà occupare un dignitoso posticino nella musica d’arte del ‘900. In fondo, questi incontri ebdomadari a Radio Tango Macao, stanno raccogliendo in una galleria la selezione di ritratti che fotografano i protagonisti della metamorfosi inesauribile che rende il tango “atemporal”, secondo un concetto sostenuto da Lavallen. Ma a proposito di fotografie, siamo ben consci che, come scrive Susan Sontag, “la macchina fotografica ci rende turisti della realtà di qualcun altro”, quindi in una certa misura portatori di verità parziali perché il nostro occhio o il nostro orecchio non fa in prima persona, ma interpreta…un vecchio discorso in fondo. Nella fotografia del Sexteto Tango, in effetti e senza equivoci interpretativo, va aggiunto settimo elemento. Si tratta del cantante Jorge Maciel, una voce possente, intonata e di espressività duttile che aveva lavorato per Pugliese sin dal 1954. Maciel vi arrivava dalla collaborazione con Alfredo Gobbi con cui ha esordito discograficamente, cantando una fortunata versione di Remembranza: in quel 78 giri sul lato B figurava una versione esplosiva del tango futbalistico dedicato ai biancorossi di Avellaneda, Indipendiente Club….tanto per richiamare in campo ancora “El Chino” Agustin Bardi che è stato uno dei mattatori della puntata precedente. E a questo punto ci chiediamo anche come mai Gobbi ha fatto un altro dei suoi miracoli, mettendo in repertorio il tango di Firpo Racing club, squadra che storicamente è l’acerrimo avversario dell’Indipendiente? Prima di tornare negli spogliatoi e per essere proprio nell’oggi sconvolto dal fantasma terrificante delle infezioni, cito anche un terzo tango calcistico inciso da Gobbi e dalla voce di Maciel: La numero cinco che nel calcio vero di chi a fine carriera era riuscito a raccogliere i risparmi per aprire una tabaccheria o un distributore di benzina, allude al numero portato sulle spalle dell’amata maglia dallo stopper. L’io narrante è un lungo degente che non può assistere al derby perchè è confinato, una delle parole che avevo dimenticato esistessero prima che me la riportassero alla memoria le cronache di questo pestifero 2020, che sta facendo di tutto per rinforzare la leggenda nera dei bisestili. Il pover’uomo sopporta un ricovero che dura da un paio di anni nell’ospedale per infettivi Hospital Francisco Javier Muñiz a Barracas, presidio a cui sono stati dedicati due tangos ai tempi eccitati dei Bailes del Internado: uno intitolato proprio Muñiz e l’altro Cloroformo. E a questo punto fatto trenta, passiamo direttamente al trentadue, ricordando che il Muñiz è stato protagonista di un’altra scena, in questo caso raccontata da Agustin Magaldi nel tango La ultima carta dove “una madre angustiada, de pena se moría en una sala triste del hospital Muñiz”, tenendo tra le mani l’ultima lettera che gli scrisse il figlio dalla prigione. Con Pugliese, Maciel si alternava ad un secondo cantante come d’uso: Carlos Guido, al secolo Guido Rota e appartenente al nutrito gruppo di tangueros originari di Zarate. Per inciso, tra le sue prove più significative ricordo la versione di La Cumparsita realizzata da Pugliese nel 1959, con tanto di glossa recitata da Luis Mela. La parte vocale è cantata in duetto da Guido proprio con el colorado Maciel, che tra gli altri ha registrato un grande successo come El pañuelito nell’arrangiamento da Lavallen, anche se la sua prova che resterà storica, almeno a mio modesto giudizio, è un’altra. Parlo della versione impressionante di Recuerdo, in cui il cantante intona impeccabilmente anche la variazione dopo la modulazione che la lancia, meritandosi in pieno il soprannome di El Carusito con ovvio riferimento al tenore partenopeo. Per Maciel approdato al Sexteto Tango, Lavallen scrive un tema che verrà registrato nel 1974 con il suo arrangiamento. Questo tango cancion firmato con lo sfortunato letrista Dario Cardozo, morto precocemente, racconta una vicenda secondo la tecnica della terza persona limitata, dove attraverso gli occhi di un osservatore onnisciente, apprendiamo quello che accade al protagonista,… una tecnica usata ad esempio da D’Annunzio ne Il Piacere. Qui ci sono diversi topoi classici per il tango ma anche per diversi impianti letterari: quello umano, un lui e una lei; quello spaziale, il barrio da cui si esce e si rientra; quello temporale, che si consuma in una notte e nell’alba che segue; quello naturale, si parte con la luna notturna e si finisce con il sole nell’alba; quello psicologico, secondo cui l’alcol fallisce il suo tentativo di infondere coraggio; quello dell’abbandono, lui la desidera, lei non più. Ecco il canovaccio. Lui esce dal barrio in una notte di luna dopo aver cercato di farsi coraggio con l’alcol, incontra lei per la strada ma è troppo tardi e tutto è inutile. I due camminano fino all’alba lasciandosi e lui rientra disperato nel suo barrio tutto solo, infreddolito da un gelo che gli arriva dall’anima. Uccise altre notti frustando il tempo fino al giorno che nel letto lo travolge l’oblio. Quando anche questo tema sembrava travolto dall’oblio, viene registrato nel 2009 dall’orchestra di Walter Rios con il cantante Jesus Hidalgo e, precisamente quarant’anni dopo la sua prima incisione, ricompare in un nuovo arrangiamento di Lavallen che lo inserisce nel suo cd “Atemporal”. Oltre a guidare l’orchestra che suona in questo lavoro, Lavallen ha molti altri impegni che assolve con cura in barba alle stanchezze dell’età. Dirige la sua orchestra; ha ereditato da Balcarce la direzione dell’Orquesta Escuela de Tango; ha formato un trio con cui ha pubblicato tre cd. Credo abbia continuato anche in anni recenti a dirigere e ad arrangiare l’orchestra del longevo spettacolo di Luis Bravo intitolato Forever Tango, un carrozzone luccicante con un che dagli anni ’90 gira con il suo imponente corpo di ballo, resistendo alla vergogna di reiterare infinite volte tutti i più logori stereotipi di cui sono ghiotte le innumerevoli platee neoteniche, con speciale attitudine per quelle nordamericane. Sceso dal palcoscenico dello show businness, e diciamolo con magnanimità, un po' fasullo, il bandoneonista resta uno dei gloriosi maestri in età che si occupa di raccogliere intorno a sè musicisti di altre generazioni, compresa la più giovane. Il suo gruppo dove è primo bandoneon affiancato da Alejandro Bruschini, viene completato dai violinisti Washington e Leonardo Williman, dal contrabbassista Silvio Acosta e da uno dei giovani pianisti più interessanti sulla scena, Pablo Estigarribia. C’è anche Germán Martínez alle tastiere che ha il compito di rinforzare e riempire la sezione degli archi, come ha scelto di fare l’Orquesta Color Tango in cui Lavallen ha trascorso la stagione dell’esordio. Ascoltando i diversi cd in cui sono testimoniati i suoi progetti, la riflessione a caldo sull’attività recente del Lavallen direttore, senza entrare nelle sue molteplici pieghe, riguarda la sua afasia estetica, nell’accezione di un linguaggio espressivo trasformato, rispetto alle prerogative di una filogenetica pugliesiana che hanno accompagnato palesemente in bandoneonista rosarino anche durante tutta la stagione circumnavigante around the world del Sexteto Tango. Forse però in questi nuovi progetti riusciamo a conoscere meglio un musicista che salendo alla ribalta nel ruolo di leader, si esprime finalmente slittando decisamente su un piano più personale. Questa sensazione di discontinuità è confermata anche nei lavori che Lavallen ha arrangiato e scritto per un trio molto incisivo per quel che riguarda la performance strumentale, dove oltre al bandoneonista figura uno dei riferimenti assoluti per i contrabbassisti di tango, Horacio Cabarcos figlio d’arte di quel Fernando che arrivò al contrabbasso grazie allo stimolo del cugino, niente di meno che Kicho Diaz. La formazione è completata da Pablo Estigarribia, un pianista d’ultima generazione e in piena consapevolezza dei suoi attrezzatissimi mezzi espressivi. Ma non è detto che mettere insieme tre fuoriclasse sia sufficiente ad ottenere dei risultati musicali convincenti, come ad esempio il tema di Lavallen intitolato Amanecer ciudadano, che tradotto diventa l’alba della città, quindi l'inizio del giorno. Qui, devo confessare che i miei neuroni specchio non hanno sollecitato i comportamenti empatici, secondo i loro compiti. In quest’alba mi sono sentito smarrito come Leopardi nell’operetta morale Il Cantico del gallo silvestre, che annunciato come portatore di solennità e di profetiche rivelazioni, diviene occasione per un'ampia orazione sul nulla, sull'assenza di senso. Ecco nell’esemplare sfoggio di bravura che ascoltiamo in questo tango mi sembra che il senso sia latitante e le proteiformi invenzioni che si accalcano in successione, assomiglino ad una danza che vaga nel nulla. E questo nulla che ho evocato forse esagerando in uno slancio poco misericordioso, sono convinto sia da scovare nella fragilità di una composizione poco ispirata e quindi articolata in una girandola di pannelli che risultando artificiali, compromettono il suo senso. Non si tratta tanto da come sono collegati questi oggetti che mi sembrano piuttosto segmenti accostati, facendomi venire in mente un esempio riuscitissimo di questa tecnica: il visionario Thelonius Monk. La questione riguarda soprattutto una materia melodica che non riesco a mettere a fuoco, a colglierne la direzione, la coerenza, la compiutezza, né in termini di consequenzialità né in termini dei possibili contrasti. E quando la melodia e i suoi sviluppi non convincono il difetto è, come si dice, nel manico: nella composizione che mi azzardo a dire è il punto più debole tra le grandi qualità di Lavallen. E per scongiurare che questo si percepisca, il bandoneonista ci infila di tutto in maniera, come dicevo un po' caotica. Tradizione e desarrollo insieme, ribadendo in sintesi un concetto che Lavallen esprime durante il documentario Tipico Victor, dicendo qualcosa del genere: “prendi un tango arcaico, arrangialo alla maniera di oggi e avrai un tango contemporaneo”. Questa sembra il punto di partenza secondo il quale il suo giudizio, molto condivisibile, immagina il tango come un fenomeno espressivo atemporal. Epperò, entrando nel merito di questo quadro è necessario chiarirne i contorni, aggiungendo come oggi il tango esprima una sorta di elogio dello spazio che di fatto sancisce la compresenza di oltre un secolo di storia tanguera, schiacciando quindi la dimensione del tempo ad una atemporalità manifesta in varie forme. Da un lato ascoltiamo chi coltiva la sua dimensione di “musica d’uso”, dall’altro si afferma il desarrollo che raccoglie un pensiero dinamico sia in composizioni classiche che in pagine nuovissime, infine una piccola schiera di musicisti agisce per cercare una fractura nei codici del genere iniettando materiali e modalità eteroclite. E comunque quest’idea del tango come qualcosa di atemporale, quindi tempo invariante, riporta la mia memoria sui quei banchi universitari dove, tra una manifestazione di protesta e un’occupazione, un Hendrix e un Mingus in vinile, litri di vinaccio ignoranti e tutta una teoria di trasgressioni felicemente educative per la vita dei sensi, fidanzate femministe che mi lasciavano, sputavo sangue sui sistemi tempo invarianti. Di quel fior di giovinezza rimane atemporale l’educazione alla libertà, a cui Marcuse ha contribuito diffondendoci il suo pensiero.
26 ottobre 2020
Tango atemporal
di Franco Finocchiaro
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