Come tutti i principali avvenimenti della carriera del primo tempo di Garello, anche il poeta Horacio Ferrer arriva a lui tramite Troilo, che glielo presenta al boliche Relieve nel 1966. I due iniziarono a collaborare otto anni dopo in un recital intitolato Zapadas y chamuyo che andò in scena nel 1974 al cafè concert Gallo Loco. E fin qui tutto nelle regole, ma nel ’92 accade una cosa francamente bizzarra che vede protagonista Woody Allen, proprio in quell’anno accusato di farsela con la figlia adottiva di vent’anni. Certamente non per prendere le difese dell’attore, Garello e Ferrer realizzeranno un long playng in omaggio all’amato comico newyorkese, dove sarà incluso il brano Woody Allen con tanto di letra. Se per i temi affrontati dal tango fino alla fine degli anni ’60, un soggetto così è di estrosità oserei dire inconcepibile, per Ferrer non sembra affatto sorprendente essendo in linea con le prospettive visionarie delle sue poesie. Infatti attraverso la sua opera, la saga, la fiaba e l’epopea del tango cancìon, conclude di occuparsi dell’umanità di carne densa e opaca, raccontata con una narrazione per così dire verista, dove sfilano amori desolati nella rievocazione dell’abbandono e dell’assenza che privano l’esistenza di qualsiasi pace e di bellezza, come innumerevoli Dafni e Chloe al rovescio. Se Homero Manzi sosteneva giustamente che il tango, quindi anche la sua forma canzone, era la storia raccontata dal punto di vista dei perdenti, con l’avvento di Ferrer e attraversando i vibranti impianti metaforici di Homero Exposito, il panorama si apre a scenari surreali e quindi a figure che non avrebbero trovato posto nel canzoniere tradizionale. In una intervista dove gli si chiede conto della questione di Woody, Ferrer sentenzia: “el Tango es un devorador de todo”. Ed ecco divorato Il Dittatore dello Stato Libero di Bananas, protagonista di una letra de tango à la Ferrer. Contemporaneamente il partner musicale di questo progetto è impegnato a coordinarsi con la lunghezza d’onda annunciata da Piazzolla già nei primissimi esperimenti con il poeta uruguayo, che porteranno con facilità alla conseguente creazione di una nuova forma di tango cancìon. Sentite cosa scrive Horacio in un passaggio della sua letra dedicata a Woody: “voglio abbracciarti pensando che la fine del 20° secolo è uno spettacolo di pompe funebri: Chernobyl, il Golfo, l’AIDS. E infine se è immorale continuare a vivere, vieni, che qui ci sono Groucho e Pepe Arias e moriremo ridendo, risvegliandoci tra due secoli”. …. e questa questione della resurrezione è un tema che Ferrer e Piazzolla frequentano con una certa ossessione. Tre esempi: due con il testo, Maria de Buenos Aires e Preludio Para El Año 3001; uno strumentale, Resurreccion del Angel. In Woody Allen, Garello conferma il destino di chi si è nutrito fino al midollo dell’ideologia troileana e la proietta nel futuro: coltivare con i propri strumenti tecnici, estetici, sentimentali, il credo piazzolliano. Trovo molto simpatico l’inizio del brano, che riprende esattamente il guizzo incontenibile del clarinetto nelle battute introduttive della Rapsodia in Blue di Gerswin, per poi esporre la melodia, prima che intervenga la voce di Gustavo Nocetti. Il clarinetto riappare anche in altri punti del brano, come per sottolineare l’amore di Allen per questo strumento femmineo che peraltro suona da amateur in una band di jazz arcaico. Siamo in una fase della carriera in cui l’attrazione per la musica di Piazzolla lo turba e lo distrae dal suo credo troileano che resterà tuttavia ben presente come punto di riferimento. A Troilo Garello dedica due brani, del primo parleremo in seguito anticipando che il suo titolo è Bandola triste. Il secondo lo realizzerà due anni la scomparsa di Pichuco, dichiarando la sua filiazione artistica con um tributo che lui rivolge in memoria di chi gli ha aperto e indicato la strada del tango immortale. In questo Homenaje a Troilo, Garello non se l’è sentita di creare un brano inedito, perché anche allora provava un certo imbarazzo nei confronti del maestro che idolatrava. Quindi sposa la decisione di creare un pout-pourri, vale a dire una serie di frammenti di tangos composti da un autore e collegati tra loro senza soluzione di continuità. Questa modalità, che nel tango è stata chiamata selección, era stata utilizzata anche da Troilo, per esempio raccogliendo temi di De Caro, Arolas, Discepolo e perfino Canaro. In questa circostanza Garello fa esattamente l’arrangiatore, il mestiere che ha svolto egregiamente per el Japonés, Tortita Quemada, Buda, Gordo, Puchulito, nomignoli che Raul ascoltava dal tavolino della cucina di Troilo, quando il padrone veniva chiamato idilliacamente da Zita, l’indispensabile vestale del marito che fungeva da intermediaria tra il quotidiano terreno e il vivere poetico aereo. Nella registrazione del 1977, l’orchestra è allargata a 27 elementi e Garello la guida tra i cinque temi composti da Pichuco, in una specie di cammino emozionante, partendo dalla mestizia di un funerale (Responso) e quindi attraversando un’implacabile paesaggio urbano, grigio e piovoso (Garua, da 52”); gioiendo della della danza (Pa’ que bailen los muchachos, da 1’33”) per raggiungere quindi l’emblema assoluto del tango cancion (Sur da 3’00”)e concludere con la metafora di un nuovo inizio: il primo tango inciso composto da Troilo e inciso con Fiorentino per dedicarlo all’amata Zita (Toda mi vida, da 4’48’’). Dalla scomparsa di Troilo Garello entra, per così dire, nel suo “secondo tempo”, portando con se la lezione troileana sull’accompagnamento dei cantanti. Non poteva esserci un discepolo migliore di Garello a ritessere i suoi fili d’oro, in maniera maiuscola e fedele al suo mentore, ma anche ascoltando e inserendosi nell’esprit du temps. L’elenco dei cantanti che hanno collaborato con lui fa tremare: Roberto Goyeneche con oltre cento incisioni, Roberto Rufino, Edmundo Rivero, Susana Rinaldi, Eladia Blazquez, Floreal Ruiz. Ho lasciato a parte Ruben Juarez, un cantante taurino e romantico, melanconico e folle, che in sintesi definirei con un ossimoro, un puro tanguero ibrido. Con lui Garello ha realizzato oltre 80 arrangiamenti, accompagnandolo nelle incisioni con l’orchestra. Siamo sempre nell’orbita troileana, se pensiamo che quando Ruben Juarez si è fatto spazio nel tempio della resistenza tanguera, il Caño 14, il suo padrino era proprio Pichuco. Juarez inoltre, condivideva con Francisco Fiorentino il fatto di essere bandoneonista, ma inoltre riusciva a cantare e suonare contemporaneamente con superba maestria. L’ho potuto ascoltare di persona dopo aver trascorso con lui un’intera giornata milanese illudendomi di fargli da cicerone accompagnandolo in una visita tra i monumenti rappresentativi. Invece sono stato trascinato io nei luoghi che mi ha fatto visitare lui per sentire l’anima della città, quindi da un bar all’altro, da una periferia all’altra, da una trattoria a una seconda trattoria, perché nell’insaziabile sperpero di sé, la sua vita ripete i suoi clichè a qualsiasi latitudine, e non aggiungo un paio di passaggi che faccio fatica a confessare anche a me stesso. Ruben era in Italia di passaggio dalla Spagna dove aveva presentato il suo ultimo cd e, con l’intermediazione di Carla Calcaterra ero riuscito a convincere il mitico Achille della milonga Mariposa, che era il caso di cogliere una occasione così irripetibile. Ospitarlo in una sua dependance attrezzata per ricevere artisti di tango provenienti in città, in cambio di una presentazione serale gratuita e per il pubblico di una pratica serale abbastanza affollata. Devo dire che la performance, dopo un’estenuante giornata di vizi e bagordi, fu memorabile per Milano. In mezzo alla pista con i suoi centoquaranta chili per un metro e settanta di statura, ha iniziato una intermionabile improvvisazione con il suo bandoneon, tarateando all’unisono il vortice di note che stava suonando: un biglietto da visita. Quindi tre tangos registrati nell’ultimo cd con una base imbarazzante per il suo gusto dozzinale che non si sarebbe fatta perdonare se accoppiata ad un cantante al di fuori di lui, con quel misterioso magnetismo animale. Poi un gran finale: un grandissimo finale. Sprizzando sudore, dopo l’ennesimo corroborante whisky, l’invito a ballare insieme al suo bandoneon solitario che per l’occasione, mi sembra di ricordare, non fosse quello bianco avorio che mi riportava ai sassofoni Grafton di fabbricazioni inglese e progettazione in plastoca di Hactor Sommariga, un cervello in fuga nella Londra del ’50. Quell’aggeggio economico che usava Ornette Coleman e, in emergenza, Charlie Parker nello storico concerto della Massey Hall di Toronto nel ’53. Il brano era Quejas de bandoneon, e dopo una ragionevole timidezza, tutti scesero in pista a ballare mentre io assistivo a quelli che forse sono stati i più formidabili minuti di tango approdati in una milonga milanese. Con questo personaggio sempre invischiato in apocalittiche burrasche notturne, Garello sperimenta orchestrazioni che hanno un timbro diverso da quello tradizionalmente milonguero utilizzato ad esempio per il Polaco. La novità principale è l’introduzione della batteria, uno strumento che ha avuto pochissima fortuna nel tango e quando ad esempio l’ha utilizzata Fresedo, infatuato delle pompose Big Band bianche come quella di Walt Whitman, il suo ruolo è stato circoscritto ad un compito esclusivamente coloristico. Ruben che sotto il nome di Jimmy Williams, era stato in gioventù leader dei rockeros Los Black Coats e dei Tells Stars, non avrà avuto niente da eccepire all’idea che Garello trovasse per la batteria uno spazio meno umiliante nel tango anni ’70: del resto anche Piazzolla formava il suo noneto attrezzandosi oltre che di sonorità di acidità elettrica, anche di tamburi e cimbali. In ogni caso con Juarez, che si è sempre dimostrato un artista eclettico, Garello aveva più gradi di libertà. Tra i tanti brani registrati insieme sottolineo una composizione della famiglia Garello, cioè di Raul e del fratello Ruben che era un letrista di una certa grazia. Il titolo è Buenos Aires conoce, successo indimenticabile nella versione di Goyeneche, più dimenticabile in quella di Floreal Ruiz, anche loro con arrangiamento dell’autore. Le amare parole di Ruben Garello dipingono un affresco di invincibile solitudine in cui un io turbato si immerge nella dissipatio dei giorni, vagando per Buenos Aires e immaginando la metropoli come metafora analgesica di quell’amico che conoscerebbe tutto di lui, il fischio e la povertà, la moglie e le abitudini notturne, il caffè e la sigaretta, il cibo e il giornale, il silenzio e la lotta; l’amico in cui ripararsi dalle lunghe mattine, trovando il rifugio dai propri versi e dal proprio destino; di quell’amico senza nome che si trova a caso,… e questo lo aggiungo io: perché decidere di inforcare una strada piuttosto che un’altra, decidere di entrare in un bar piuttosto che un altro, è un Coup de dés, aveva ragione Mallarmè, …”Toute Pensée émet un Coup de Dés”… ogni pensiero lancia un colpo si dadi. Un colpo si dadi Ruben Juarez lo lancia nel 1983 fondando nel barrio di Palermo viejo, il Cafè Homero che diventerà un punto di riferimento per la scena tanguera, ma anche per il rock e per una certa attitudine ai paradisi artificiali. Sul suo turbolento palcoscenico Raul Garello debutta con il suo sexteto nel 1987, che alle origini schierava musicisti del calibro del violinista Reynaldo Nichele, del fedele Alberto Giaimo al pianofort e di Omar Murtagh al contrabbasso, ma soprattutto si presentava con soluzioni timbriche differenti da quelle dei sestetti coevi: nell’organico era ripresentato il flauto tornato in auge e una batteria più funzionalmente dialettica. Il “terzo tempo” di Garello inizierà con un’altra innovazione timbrica, il basso elettrico in luogo del contrabbasso, e una svolta del repertorio orientato a composizioni originali. Il piazzollismo si radica sempre di più nel linguaggio, tuttavia l’influenza di Troilo resta l’imprinting creaturale e tutt’altro che carsica. Questo organico strumentale continuerà lungo tutta la traiettoria del suo direttore, con l’inossidabile Alberto Giaimo e nuovi musicisti come il brillante violinista Frabian Bertero, il flautista Chachi Ferreyra, il bassista elettrico Gabriel De Lio, il percussionista Josè Maria Lavandera. Nel 2007 registreranno un cd dal titolo piazzolliano Tocada para sexteto, pubblicato guarda caso dalla Pichuco Records come il precedente del 2003, Arlequín Porteño….e questa volta il titolo che rimanda alle atmosfere stranianti di Ferrer. In questi lavori è evidente come l’evoluzione troileana abbia preso la sua strada naturale con non poche tangenze al linguaggio dell’irraggiungibile maestro d’innovazione. Ma c’è una sensazione che lascia perplessi. Tutto sembra fatto per bene, con un ispirati soli di violino, un lirismo convincente, l’ineccepibile sensibilità di Garello, la freschezza del flauto. Ma il difetto, se lo vogliamo trovare, è proprio in quel “fatto per bene”, perchè in questa formula si riassume un risultato corale dove tutto sembra, per così dire, igienizzato. Una pulizia meditata, ricercata e trovata che finisce per occultare una qualità di cui proprio Piazzolla era un accanito sostenitore: la mugre. Nel 2010 il sexteto torna in studio. Raul è un leone di 74 anni che non molla la presa in questo disco intitolato Tiempo fuerte, presentando lo stesso organico di prima più due cantanti e un violoncello. Ma in coda c’è una chicca riportata alla luce da una registrazione realizzata al Conservatoire National de Nantes nel 1999 con l’ottetto argentino Ordae Celesticum. Ecco, già il nome del gruppo dovrebbe incuriosire e, senza far salire troppo la suspence, ve lo dico: è un ottetto di violoncelli! Quindi un organico inedito nel tango, ma che nella musica colta vanta il nobile esempio di Las baquianas brasileira di Villa Lobos. Le tracce relative a questo concerto sono quattro e riportano una composizione di Garello articolata in altrettante parti e intitolata Buenos Aires de mis sueños. In questa suite che ricorda alcune atmosfere ECM di Dino Saluzzi con il Rosamunden Quartet, certi pattern di Piazzolla sono ripresi limpidamente ma soprattutto è sperimentata un’idea compositiva che agisce sulla struttura slegandosi dalle forme consuete nel tango. Il risultato non è un artificio da tavolino perché, alla prova dei fatti, Garello è un grande musicista di tango che sa riempire questo nuovo contenitore di poesia e di nerbo, di lirismo e di ritmo, di meditazione e di ardore. In questo climax, Troilo si incrocia con Piazzolla nel precipitato di cifre, simboli e allegorie di uno stile unico, sempre assistito dall’elegante industria della sapienza che è artigianato, cultura e anima. Garello come un Caravaggio che si raffigura quasi di nascosto su una sua tela, esattamente al termine della terza parte il compositore è come se inserisse la sua icona, evidentemente musicale. Una frasetta che è profondamente sua e che ha segnato la tappa iniziale della sua carriera di autore. Insomma una autocitazione che arriva improvvisa quando sull’ultima nota lunghissima del bandoneon, i violoncelli suonano tutti insieme armonizzati per terze e seste la cellula iniziale di Che Buenos Aires, quel brano che gli è valsa la fiducia e la stima di Troilo. E come ritornando sul fasto di quell’epoca, Garello riprende Bandola triste che, lo abbiamo detto, ha dedicato a Troilo e registrato con Troilo. E’ l’ultima registrazione di Garello, e sarà l’atto aristocratico di generosità di un Maestro verso le nuove generazioni o, meglio ancora, verso quel piccolo gruppo di musicisti che sta sforzandosi nell’arduo compito di strappare il miele dalla gola della tigre, per raccogliere fino in fondo un’eredità difficile se non irraggiungibile. Un’eredità che sembra a portata di mano a chi conosce bene la tecnica strumentale e magari i segreti del linguaggio del tango come i giovani membri dell’Orquesta Tipica Pichuco che ospitano Garello, mostrando talento, temperamento e coraggio nella scelta di affrontare un repertorio d’arte per molti versi anticommerciale. Però queste qualità non sono sufficienti seppur indispensabili, perché a loro deve unirsi una sorta di status metafisico che è il plusvalore del, e cito ancora lo Zeus del bandoneon, vivere in stato di poesia, quindi esercitare spontaneamente la sensibilità nel fare musica, in tutte le sue declinazioni. E’ un tema antico come la musica fina da Aristosseno e che vede i musicisti schierati in due fazioni: chi vede la musica come una tecnica e chi come un’espressione dell’anima. Per questo il mio miglior consiglio, e lo dico emozionato dal vibrante e indelebile ricordo che ho, è di cercare, trovare e vedere un film filosofico sulla musica intitolato Tous le matin du monde, tradotto alla lettera nella versione italiana con Tutte le mattine del mondo. Sarete trasportati nella Francia della seconda metà del seicento, ascoltando la viola da gamba suonata da Jordi Savall. Sono convinto che farebbe bene anche ai giovani musicisti della Tipica Pichuco vedere il film di Alain Corneau, per fare proprio il messaggio: la tecnica sudata con anni di studio, senza la coltivazione della sensibilità estetica, artistica, umana, è un motore che gira a vuoto: un motore in folle.