Mi sembra irrinunciabile dedicare una nota ad un tristissimo lutto che ha colpito la cultura argentina e soprattutto il cinema di quel paese, con la scomparsa del regista Fernando Ezequiel Solanas, avvenuta la scorsa settimana a Parigi a causa del covid 19. In fondo l’argomento, che non avrei voluto affrontare legandolo ad una circostanza così infelice, ha anche alcuni aspetti significativi legati al tango, che appartiene all’identità nazionale argentina e che il regista ha utilizzato come musica e come spirito nel periodo di mezzo della sua carriera. Per arrivare a quella stagione che distinguerei come dedicata a un cinema artistico di finzione, Solanas è partito da lontano. Il primo evento scatenante è il durissimo film che invece possiamo inquadrare nel periodo della sperimentazione militante: Fernando Ezequiel Pino Solanas ha terminato di girarlo insieme allo spagnolo Octavio Getino, proprio nei giorni in cui in un’imboscata perse la vita il Che a cui il film sarà dedicato. Completato con Notas y testimonios sobre el neocolonialismo, la violencia y la liberación, il titolo Las hora de los hornos, fu scelto estrapolandolo da una lettera del poeta cubano José Martì all’amico José Dolores Poyo, e in seguito utilizzato proprio dal Che per il suo manifesto sui “uno, due, tre Vietnam”. Siamo nel ribollente 1968 e Solanas insieme a Getino e a Gerardo Vallejo sono impegnati a dare seguito al manifesto di un movimento cinematografico che avevano creato nel 1963 chiamandolo Grupo Cine Liberación. In sintesi gli obbiettivi erano quelli di teorizzare il cinema come strumento di lotta, realizzando un “terzer cine” per così dire deconolizzato e da intendere come un atto politico che dal punto di vista estetico superasse i canoni del realismo. Questa alternativa al “primer cine” di Hollywood e al “secundo cine” europeo, è stata il motivo costante in tutta la produzione cinematografica di Solanas, ma anche il modo di manifestare le sue ferme posizioni politiche, collocate nella sinistra peronista. Idee che si sono tradotte in altre pellicole che in patria venivano proibite, e che lo hanno costretto a riparare in Francia nel 1976, l’anno seguente a quello del golpe militare dei carnefici guidati da Videla. Qui entriamo nella seconda stagione di cui ho anticipato il contenuto: cinema d’arte, non che in precedenza questo non fosse un obbiettivo di Solanas, ma certamente in primo piano era il suo schieramento militante e sperimentale che partiva dal Godard più estremo. Dalla distanza dell’esilio parigino, Pino….neanche sua madre diceva di sapere perché sin da bambino lo chiamavano così, dirige Tangos. L’exilio de Gardel, il primo dei suoi capolavori, girato nel 1985. Qui i temi dell’esilio e della nostalgia, pur mantenendo sempre una vena di denuncia, sono inglobati in una narrazione articolata con molteplici sfaccettature poetiche, lontane, per esempio, dall’estetica cruda di un Ken Loach che non dà consolazione visuale ai suoi spettatori, ma li getta nella disgraziata esistenza dei suoi protagonisti in maniera iperrealista. In questa pellicola il tango ha un ruolo importantissimo e attraversa le vicende oltre che come colonna sonora, come spirito, essenza identitaria, pulviscolo esistenziale. Siamo a Parigi e una compagnia di esuli sta cercando di mettere in scena una tanguedia, ovvero tango più tragedia, più commedia. Ma tutto è estremamente difficile perché lo sceneggiatore è rimasto in Argentina e non c’è verso di ricevere il finale. Per la parte più cospicua della colonna sonora è chiamato Astor Piazzolla che ci pianta subito un coltello nel cuore già ai titoli di testa, quando una coppia di ballerini danza all’alba sul Pont des Arts. Su questo ponte cortazariano i gesti dei due sono stilizzati e alludono ad un metissage tra il tango e la danza moderna, metafora di una danza argentina che era già divenuta cosmopolita. Al contrario subito dopo e sotto il medesimo ponte, una coppia formata da due fra i protagonisti, balla un tango allacciato con tutta la carica di sensualità che rimanda ai corpi di Buenos Aires e alla loro idea platonica, per rivisitare una citazione di Borges. In una intervista ad Astor gli ho sentito dire “bailar el tango es un acto de amor”…. e il brano che scorre sui titoli di testa, riecheggia nel titolo questa limpida affermazione: Duo de amor. In questo film, finalmente Solanas riesce a portare a termine una collaborazione con Roberto Goyeneche che in due precedenti occasioni era fallita. La prima nel 1974 quando il regista era stato incaricato di girare degli spot pubblicitari con personaggi di Buenos Aires per la cantina vinicola Peñaflor di San Juan e Mendoza e aveva pensato alla coppia Troilo- Goyeneche che all’epoca erano molto popolari. Stabiliti i diecimila dollari e testa, la troup li raggiunse a Mar del Plata per girare ma nessuno si presentò all’appuntamento. Qualche ora apparve Troilo per parlare con il direttore e portando con sè due whysky: “No te enojes, pibe, no cobraron los 20 mil dolares, pero tampoco quedaron rencores que saldar”. La seconda volta fu l’anno seguente in cui Solanas avrebbe voluto che Goyeneche interpretasse, Usá lo que quieras nel suo film Los Hijos de Fierro, basata su una parafrasi del celebre El Gaucho Martin Fierro di Josè Fernandez. Nella torsione fantastica il protagonista è un Juan Peron che non è rappresentato da nessun attore, ma è evocato dai sodali che fanno la parte dei suoi figli, auspicando il ritorno del padre: metafora del rientro del generale dall’esilio spagnolo. Finalmente in Tangos, Goyeneche interpreterà un tema con la letra dello stesso Solanas. Questa volta non c’è un duo d’amore ma la solitudine di un uomo solo: solo come uno zero, solo come un emarginato che resiste solo, solo senza un soldo come in un suicidio, solo ma un tango per raccontar il suo esilio, …. Come avrete intuito il tango si intitola Solo. Il film, dove tra tante diavolerie, malinconie, solitudini, apprensioni, c’è una scena ambientata in una milonga dove è ripresa l’orchestra di Osvaldo Pugliese mentre suona La yumba, ottiene un chiaro successo con diversi riconoscimenti. Li merita tutti perché la frammentazione stilizzata della narrazione combina la messa in scena, la musica, la cura degli elementi plastici e visivi, condensandosi in un materiale di evidente forza espressiva. Un altro punto di valore è il montaggio sperimentale che fa emergere da questo lago di sofferenza metafisica, il grottesco e perfino scene che cadono a capofitto in una prepotenza allucinatoria (l’esempio dell’incontro in una nebbia irreale tra un Gardel invecchiato e San Martin che si esiliò a Boulogne sur Mer), scongiurando di scadere nel sentimentalismo ricordando riferimenti letterari come Leopoldo Marechal, Roberto Arlt o Macedonio Fernandez. Il secondo film di questo periodo è del 1988 e si intitola Sur, anche lui premiatissimo. Questa volta è ambientato a Buenos Aires nel barrio obrero di Barracas, simbolo della massa peronista in quanto primo quartiere conquistato nel 1945 durante i fatto che hanno portato all’ascesa di Juan Domingo Perón. Solanas lo immagina come il luogo notturno del volver, il suo dall’esilio europeo, quello del protagonista dalla detenzione, quello della democrazia che ricomincia a fare i suoi primi fragili passi, subito infangati dalla Ley de Punto Final, promulgata nel 1987 da Alfonsín. In questa pellicola Goyeneche è chiamato anche a recitare, nei panni di Amado pur senza esperienza. Ma che importa! Se mai la preoccupazione per il regista era l’asma di Goyeneche che d’inverno poteva avere esiti imprevisti, soprattutto perchè le riprese obbligavano il cantane a trattenersi in luoghi poco accoglienti, con l’umidità del Riachuelo da sopportare nei tempi morti che il cinema esige. “Yo no soy actor”, ripeteva ossessivamente el Polaco che per una clausola contrattuale da lui voluta, non ha interpretato nessuna canzone in playback tranne Sur perché la registrazione impiegava un organico orchestrale. Le sue interpretazioni spostano come non mai la cantabilità da una relazione intervallare tra le note a quella del contenuto trascendentale di ogni parola, lasciando la sensazione che in quella apparente imperfezione tecnica ci sia il nucleo che fa decollare la poesia verso il cielo degli assoluti. Mi domando se questa tecnica tutta sua di rendere iconico ogni recitativo melodico, sia esclusivamente una questione di risonanza interiore a lui stesso sconosciuta, e infallibile nel coinvolgere l’ascoltatore. Così infallibile che è molto difficile scegliere quale sia il più toccante tra i temi cantati da Goyeneche alias Amado. Opto per Garua che dal punto di vista poetico comunica l’atmosfera di quella notte gelida, in un barrio di Barracas, blu di ombre, vento e fumo, con il bandoneon di Marconi, il contrabbasso di Humberto Ridolfi e el Polaco, con un dolcevita bianco su un umile marciapiede. Sublime, e d’altronde non si è polacchi per nulla! La storia di Sur in pillole incrocia il cinema sociale, politico e ideologico, con una dimensione onirica, situando la narrazione nel terreno del fantastico, per ruotare intorno al ritorno di un prigioniero politico dal carcere, alla fine della dittatura. Per Floreal quella sua prima notte di libertà è un oceano nero d’inquietudine che non lo fa sfiorare da nessun tipo di felicità. Così vaga nella notte nel timore di quello che troverà quando busserà alla porta di casa. Lì c’è Rosi, la donna amata che durante il suo periodo carcerario ha avuto un momento di debolezza e lo ha tradito con un suo collega. Le domande sono laceranti. Riuscirò a perdonarla? Mi amerà ancora? Durante questo vagabondare senza meta nelle le strade vuote del quartiere, in cui Floreal è schiacciato dai suoi tormenti, Solanas inserisce un elemento spiazzante che porta la storia su un altro piano: quello del realismo magico. Floreal viene messo di fronte al soprannaturale che si presenta improvvisamente nei panni amici del fantasma di un altro compagno di lavoro, ucciso dal medico della loro ditta passato tra le fila dei malvagi aguzzini al servizio della dittatura. Si innesca il continuo rimbalzo tra flash-backs e flash-forwards che diventano la strategia per ordinare i vari capitoli in cui è suddiviso il film. Uno dei temi strumentali che ha scritto e interpretato Piazzolla con il suo quinteto è Regreso al amor che ha nella seconda parte il tema più celebre del film Vuelvo al Sur e quindi conclude con una reiterata citazione di una frase tratta dal Sur di Troilo e Manzi, quella dove la letra dice ….Sur, paredon y despues…. E il despues di quegli anni in cui in fondo c’era una speranza si rivelerà un disastro quando il paese finirà nelle mani di Carlos Menem, peronista della fazione liberista. Solanas non lo tollera e inizia una critica spietata contro il malgoverno e il presidente che sta travolgendo nella povertà, quella parte della società argentina formata dai più deboli ma anche dalla classe media. Nel 1992 esce El viaje dove la politica è presa di mira senza prudenza. La storia è quella di un ragazzo che abita a Usuhaia, il paesino più a sud del mondo, e che decide di affrontare un viaggio di iniziazione, andando dal padre che è in Messico per lavoro. E’ il viaggio per un ricongiungimento che il ragazzo sentiva come una necessità vitale ma attraversando con tutti i mezzi il continente, si imbatte ovunque nell’orrore per lo sfruttamento di uomini e natura, e in quello per delle condizioni disumane di vita a cui sono condannate intere popolazioni. L’insegnamento lo coinvolge facendolo maturare giorno per giorno, prendendo coscienza della vita fino al traguardo psicologico di uccidere metaforicamente il padre, vale a dire liberarsi dall’ombra della sua figura rimuovendo le insicurezze che erano state all’origine della sua impresa. Per capire cosa significa superare la linea rossa rispetto alla denuncia della classe dirigente argentina; nel 1991, l’anno precedente all’uscita del film di cui già si parlava, un commando non meglio identificato ha gambizzato il regista con il chiaro intento di dissuaderlo dal concludere la pellicola. Anche in questa circostanza Solanas non ha chinato la testa andando fino in fondo e incaricando Piazzolla di scrivere la musica per la colonna sonora. Nel 1998 questo ciclo di cinema di finzione artistica iniziato in Francia, si conclude con il meraviglioso La nube che vince un Leone d’Oro a Venezia per la musica, questa volta a carico di Gerardo Gandini, allievo di Goffredo Petrassi a Roma e di Alberto Ginastera a Buenos Aires; insegnante nel prestigiosissima Juillard School of Music di New York e pianista nell’ultimissimo sestetto di Piazzolla. La vicenda è raccontata in una Buenos Aires su cui da 1600 giorni cade sporca e ostinata la pioggia che proviene da una inamovibile nube che schiaccia la metropoli ed è metafora di quello che fa il potere politico argentino. In questo panorama livido un gruppo di attori che gestisce il Teatro del Espejo riceve l’ordine di sgomberare la propria sede perché in quel gigantesco edificio, sempre situato a Barracas e che aveva ospitato il Mercado Municipal del pescado, i nuovi acquirenti vogliono realizzare un centro commerciale. Il vecchio teatro indipendente però non molla, resistendo a questa storia di ordinario menemismo, seppur nella profonda amarezza della sua impotenza e tra i melanconici ricordi di un passato splendente che tutti sanno irripetibile. Anche in questo caso il grottesco e il caricaturale aprono squarci spiazzanti in una vicenda apocalittica e opprimente come l’interminabile pioggia che affligge la città. In mezzo a questa pioggia Solanas inserisce nella storia Luis Cardei un cantante de barrio, andicappato e perdente che cantava in posticini popolari ben al di fuori del circuito alto e di quello turistico del tango. Fu riscoperto nel 1994, quando aveva cinquant’anni e ingaggiatp al Club del Vino, una importante tangueria dove ad esempio si poteva ascoltare in Nuevo Quinteto Real con Salgan al pianoforte. Nel film viene raggiunto nel cortile del suo sgangherato condominio dal microfono di una radio volante che raccontava la città muovendosi nella pioggia e in questa scena è chiamato a cantare un grande tango di Pedro Laurenz, Como dos Extranos. Dopo La Nube, devastato dalla drammatica crisi in cui è crollato il paese nel 2001, Solanas rinuncia al cinema di finzione e si impegna in quello documentario, riprendendo ancora il fervore militante di trent’anni prima. Escono film di straordinaria denuncia politica dove è il regista stesso che con la camera sulle spalle dialoga con la gente del suo Paese martoriato dalla Troika e più quotidianamente dalla fame. Vi dico i titoli che bastano a capire il taglio sociale di questo combattente invincibile: Memorias del saqueo (2003) La dignidad de los nadies (2005), Argentina latente (2007), La última estación (2008), Tierra sublevada: Oro impuro (2009), Tierra sublevada: Oro negro (2010), La guerra del fracking (2013), Viaje a los pueblos fumigados (2018). Con questo elenco eloquente che ci racconta l’importanza del lascito di Solanas alla civiltà dell’uomo, lo accompagniamo idealmente nel suo ultimo viaggio, raccogliendo la lezione di impegno e civiltà di cui continuiamo ad aver bisogno per custodire la nostra memoria, attraversare il nostro presente, progettare il nostro futuro. E forse anche vivere in quell’estado de poesia dove anche per noi che non siamo sudamericani, c’è posto per una forma di rebelion che ci faccia recuperare l’intima essenza della nostra existencia.