Ben prima dell’11 settembre 2001, andare in tournée negli Stati Uniti voleva dire andare a cercarsi dei guai proprio lì dove li fabbricano. Tutto era difficile per una compagnia di argentini. Innanzi tutto i permessi di lavoro, che dovevi richiedere con un anno d’anticipo, anche se il nostro manager americano presentava le application in Vermont, lo staterello più veloce nel disbrigo delle pratiche. Poi i cento dollari per ciascuno di noi, un indennizzo da pagare alle varie gilde degli artisti americani a cui andavamo a rubare il lavoro. E noi eravamo in ventiquattro, tra musicisti, ballerini e tecnici. Infine la lenta tortura del visto al Consolato Americano di Buenos Aires, per cui ogni volta c’era da fare una fila di almeno dodici ore. E se c’era un errorino, potevi contare solamente sulla rapidità e la precisione dei fax. Ma in quell’aprile del 1998 il nostro Milonga Boulevard, il balletto di tango che avevamo ricavato da un racconto di Julio Cortázar, doveva debuttare a New York. Eravamo infuocati d’entusiasmo. Le prove con l’orchestra le facevamo al Torcuato Tasso - che allora non era stato ancora tanghizzato - e le coreografie Mariachiara le montava in un palazzo nobiliare di calle Bolivar a San Telmo, un palazzo che era appartenuto alla famiglia del Che Guevara e che poi era stato acquisito dal fondo pensioni del Banco Nación. Lo affittavano come set cinematografico, soprattutto per le telenovelas tipo “Anche i ricchi piangono”, dove non c’era da toccare niente nell’arredamento. Quante volte su quei pianciti di carrubo ci siamo immaginati i passi pre-rivoluzionari del piccolo Ernesto e i ricchi che avrebbe fatto piangere.
Non eravamo neanche a un mese dalla data che ai problemi internazionali si aggiunsero quelli locali. L’orchestra Color Tango perse uno dopo l’altro due musicisti fondamentali: il pianista Cristian Zarate e il contrabbassista Amilcar Tolosa. In pratica l’intera sezione ritmica, perno su cui gravita lo stile di Pugliese. E la musica del balletto era Pugliese in purezza. Cristian si era impegolato in un contratto capestro con un ex cantante di Héctor Varela e il suo cena-tango-show di lusso, mentre Amilcar era riuscito a rompersi un polso affettando il salume nella drogheria di sua moglie a Ituzaingó. Roberto Alvarez, il direttore di Color Tango, lavorò giorno e notte per preparare i sostituti. Al piano mise sotto Sebastián Giunta, musicista ottimo ma pressoché digiuno di Pugliese. E come contrabbasso ingaggiò uno della Sinfonica del Colón che però aveva suonato anche con Horacio Salgán, del quale non ricordo il nome. Ricordo invece l’aspetto di vecchio hippie, il suo naturismo integralista, le sue teorie sui benefici della defecazione acquattata.
In più si presentò all’aeroporto con un flight-case autocostruito in tondino di ferro che pesava più dell’aeroplano. E anche così, il contrabbasso arrivò con il manico spezzato. Ma niente ci poteva fermare. Ormai eravamo a Nueva York, e come dice la canzone, se fallivamo qua, potevamo fallire in qualunque altro posto. Non eravamo ancora usciti dal terminal che mi arriva la telefonata di mister Fiedman:
- Non è il grand’hotel, ma la zona è bella. Ci abita Madonna. Ci abita Bruce Willis.
All’incrocio ci sono i migliori pretzel della zona. Ma che dico della zona, di tutta New York! Vi ho prenotato delle suite. Godetevi Manhattan, ci vediamo in teatro.
Il cartello sulla facciata conferma in pieno le qualità testé vantate dal nostro manager americano. The cheapest hotel in town, il più economico della città. Il portiere ci accoglie senza scappellarsi:
- Ah, siete argentini! Anche noi siamo turchi!

La lontananza da casa affratella gli uomini più della Cumparsita di D’Arienzo.
- Questo è il Riverside Hotel? - domando.
- Se non lo fosse sareste nei guai. Dovete darmi una carta per le spese accidentali.
- Perché, c’è il frigo in camera? - chiedo
- No, non è mica il grand’hotel. Chi è mister Castelano?
Alzo la mano senza entusiasmo.
- C’è un fax per lei.
Il portiere preme il tasto di chiamata dell’ascensore e aspetta davanti alla porta.
Rimango impassibile, non voglio passare per provinciale. Quando la porta si spalanca, il portiere solleva la moquette, prende il foglio che c’è sotto e me lo dà.
- E’ il primo ascensore-fax che vedo - dico, impressionato dalla tecnologia yankee.
- L’ufficio è al quarantesimo piano - mi precisa.
E’ un fax di Friedman: “Alle 6am Demi Moore fa jogging sull’Hudson”. Domattina mi compro un pretzel e mi godo lo spettacolo. Intanto cominciano i guai che non ci sarebbero. Quella che Friedman chiama suite è un duplex di camere unite da un unico bagno, il cui accesso è regolato da due porte tipo saloon, ma messe una di fronte all’altra. Un ingegnoso dispositivo di sicurezza ne impedisce la chiusura simultanea. E’ impossibile non venire colti sul fatto, o da est o da ovest. I musicisti di Color Tango sono i primi a sperimentare il fattore sorpresa e scendono subito in sciopero contro di noi. Mi tocca trasferirli al Ramada, unico hotel che riesco a trovare all’una di venerdì notte. E’ a 40 km da lì. Per fortuna il portiere ha un cugino con un furgone, entrambi disposti a tutto, basta pagare. Io almeno una camera tutta per me ce ho: The President Room, con una finestrina panoramica sull’Hudson, sul New Jersey e anche sul Nord Dakota. Per questo si dice brutto come il Nord Dakota. Quando apro il rubinetto, dapprima escono una serie di boati intermittenti, poi un lungo gargarismo e infine degli sputi giallastri. Dalla doccia, un filino oppure una secchiata di temperature opposte. Queste almeno le posso selezionare grazie a uno speciale rotore privo di qualsiasi indicazione. Sotto le coperte, a giustificare il prestigio della camera, è custodita la Sacra Sindone.
Dentro all’armadio, un buco nel muro conduce probabilmente all’armadio della Emperor Suite.
A questo punto squilla il telefono:
- Yes?
- Marco, este hotel es una mierda.
Questi provinciali...
Due giorni dopo siamo in camerino. Friedman prende la parola:
- La buona notizia è che viene il New York Times, la cattiva è che manda Jack Anderson.
Il nostro agente si lascia cadere esausto sulla sedia cattiva del camerino di produzione. Di buone non ce n’è.
- E’ brutta? - domando tanto per domandare.
- Brutta? Certo che è brutta! E’ Jack Anderson! Di danza ne capisce.
- Grazie Bob!
E non uso questo nome a caso.

Bob si toglie i ray-ban e prova lo sguardo magnetico allo specchio di lampadine. I baveri stretti della giacca di pelle da maniaco ingigantiscono gli altri organi. Sulla testa gli circola un berretto degli Yankees.
- Proprio Jack Anderson l’Impalatore! L’anno scorso ha stroncato Forever Tango: la cattedrale del cattivo gusto, ha scritto.
Vede le sue percentuali messe a rischio. Stavolta prova lo sguardo d’acciaio.
- E meno male che non è Percy Hammond - sospira.
- Chi è Percy Hammond?
- Una leggenda del Chicago Evening Post, il critico più cattivo mai esistito, faceva tutti a pezzi. Mio nonno era nella riunione che doveva decidere su chi mandare in Europa a coprire la Prima Guerra Mondiale. Qualcuno suggerisce Hammond, ma il direttore dice: “Meglio di no. Metti che la guerra non gli piaccia...”
- Tentiamo una gherminella? - suggerisco.
- Qui non funziona così. L’etica professionale del New York Times impone ai suoi critici di comprarsi il biglietto, pagarsi il taxi e di non andare a cena con gli artisti.
Un’attitudine che nell’Italia dei gettoni di presenza sarebbe considerata sleale.
Comincio a innervosirmi.
- Ma tu avevi detto che veniva Jennifer Dunning, la malleabile Jennifer Dunning!
Jennifer è un’entusiasta della cultura latina. Qualunque tablao flamenco, fado portoghese, chansonnier rumeno, pandilla gregoriana, lectura dantis o musical su Cimabue arrivi in città, può contare su Jennifer e sul suo elogio a cinque palle.
- Ci puoi credere? - sogghigna Friedman - Jennifer è a Trastevere dal suo fidanzato.
La nostra gloria off-Broadway esce dalla stanza con un fruscio.
- Ora voi andate là fuori e li fate neri!
Lo sguardo é quello di Al Pacino in Ogni Maledetta Domenica.
Tradizione vuole che dopo la prima si aspetti l’uscita dei giornali. Siamo da Pappalardo quando Bob entra come un raggio di sole e almeno trenta copie del New York Times sotto il braccio:
- Ragazzi, siamo stati grandi! Jack Anderson, tu sai vivere! Leggete qua.
- Audace colpo dei soliti gnostici.
- No, qua: il tango di questo mondo e di quello a venire!
Un moto d’orgoglio mi ricorda che in fin dai conti sono un gentleman e conosco l’etichetta:
- Sia portata una bottiglia di champagne e una sciabola!
Eccetera eccetera. All’uscita, il signor Pappalardo ci addita con orgoglio un ritaglio dalla rubrica gastronomica del New York Times appeso sulla cassa: cinque bei cucchiaioni. Tutto regolare: la recensione è siglata JD.