Chissà se qualcuno dei nostri ascoltatori si ricorda ancora di Carlo Dapporto, il grande fantasista che aveva iniziato la sua carriera nell’avanspettacolo degli anni ’30. Si fingeva argentino, ballava e cantava il tango maccheronico, un vero pioniere. Il suo personaggio più famoso era il Maliardo, un personaggio reso celebre dalle riviste di Wanda Osiris. Il Maliardo era un viveur dannunziano, indossava soltanto il frac e si lucidava continuamente i capelli con la brillantina ricinata Gibbs. Ovunque andasse il Maliardo veniva preso a pesci in faccia, ossia a “poissons à la figure”, come diceva delicatamente lui, quando poi la raccontava con il tatto della ricostruzione a posteriori. Tutti quei pesci in faccia, o meglio quei poissons à la figure hanno ispirato questa breve apologia, questo elogio del fischio critico. Nel tango, che io sappia, non si è mai fischiato nessuno e anche l’arte della stroncatura è misteriosamente scomparsa. Ed è un peccato perché vi assicuro che la mia collezione di recensioni letali su Copes, Zotto, Pablo Verón, Tango Pasión, Forever Tango è ancora una lettura inebriante. Come diceva Céline: e a quel punto sputai anch'io, per educazione.
Ora che la claque è diventata un’attività onesta e il claqueur una persona rispettabile, è il fischiatore ad attirare su di sé il sospetto di esercitare la critica. E il suo fischio, che è insieme dichiarazione di voto e accertamento sintetico, nel tango risulta comunque sproporzionato, fazioso e soprattutto non richiesto. Detto in altre parole: da quando il mezzo gaudio è il nostro male comune, ci ritroviamo da un lato l’equanime professionista comandato negli applausi, e dall’altro il fanfarone cointeressato alla preminenza di chissà quale altra setta avversa. Insomma, di questi tempi chi arrischia una critica passa o per fiancheggiatore o per bottegaio in incognito. Se andiamo avanti così, nessuno avrà più il coraggio di tirare un secondo gatto morto a Gedeone Kremer. Bristol, il mio micino bilaterale, mi guarda storto se solo metto su una delle sue Otto Stagioni, peraltro tutte brulle. E chi oserà ancora avanzare il minimo ortaggio verso le stiracchiate performance del Pibe Pomada e il suo mono-passo universale? Chi oserà scagliare un’altra ovazione sulla Compagnia Argentina di Tango Argentino di Buenos Aires (ci tengono alla precisione) che in un hotel termale di Padova mostrò per oltre un’ora il retro dello spettacolo a un pubblico pagante 25 euro? Una coreografia, per quanto disorientata, dovrebbe produrre senso, non farlo! Lo stesso dicasi per il manesco Richard Galliano quando suona Piazzolla, o per il tango petaloso dell’orchestra Romantica y Milonguera, così sdolcinato e gnegné che Julio Iglesias sembra un punk, o per il tutto-fritto-solo-fritto della Fernandez Fierro, o per i palinsesti tellurici di quei disc-jockey che non ti fanno vedere uno squarcio di cielo neanche se li ammazzi.
In realtà, ancor più che gli obiettivi sensibili, oggi sono cambiati gli indici di gradimento e le regole d’ingaggio. Una sana incompetenza reciproca, difficile da spartire come il toupet di uno spilorcio, sta facendo da argine alla buona volontà di artisti e spettatori, entrambi sempre bendisposti nel concedersi le attenuanti del caso. "Per favore, Dio, mandami una buona scusa!", diceva un proverbio citato da Primo Levi. Ma nel tango non serve: poche sono le cose che resuscitano di più un ballerino che una bella lamentela sulle condizioni nelle quali è costretto a lavorare, dal pavimento peloso alla partner sdrucciolevole. E allora sia dunque messo al bando una volta per tutte il bollettino dei protesti e sia fatto definitivamente largo alla smorcia! Del resto, il nostro abbottonato protezionismo faceva la vista gorda già molto prima che glielo dicesse l'Unesco.
Nei grandi teatri, specialmente in ambito lirico, le disapprovazioni sono molto più apprezzate. Ogni sera i loggioni confutano con premeditate invettive cantanti, cori, direttori, orchestre, scenografi, costumisti, registi, balletti e persino comparse e trovarobe. Niente è abbastanza buono per quegli istruiti.
L’anno scorso alla Scala hanno piantato un Alagna a metà Aida, provocando la ritirata del tenore e il subentro di un Radames in blue-jeans. A Torino hanno gravemente dileggiato un Baricco per aver mutilato dal Flauto Magico “le ingessature non necessarie”, come se invece le sue fossero le sole ingessature degne di questo nome. Al Teatro Regio di Parma, baluardo dell’ortodossia, hanno fatto cacciare un sovrintendente per il modernismo delle sue cravatte a motivi spaziali.
Ma al di fuori di questi territori privilegiati, normalmente il critico medio si limita a fischiare. Anche perché le abnormi accise sulla benzina gli impedirebbero di recensire il batterista dei Santana con una molotov, come quella volta al Vigorelli. E il fischio, oltre a essere meno costoso, gode di parecchi altri vantaggi. E’ portatile, invisibile alle perquisizioni, trasformabile in un battibaleno in applausi anglosassoni non protestanti, e in più ha alle spalle una tradizione ragguardevole.
Eh sì, perché il fischiare risale agli antichi Greci, i quali prendevano in giro i barbari paragonandone la lingua incomprensibile al fischio degli uccelli e al sibilo di certe bestie. Anche nella Bibbia, nel Libro dei Re, il Signore minaccia di fare d’Israele lo zimbello di tutte le genti e di far piovere fischi sul popolo eletto, se solo si fosse messo ad adorare un altro Dio all’infuori di lui.
In seguito, antropologi ed etologi ci hanno spiegato in lungo e in largo questi rituali comunicativi ad esagerazione mimica - come fischi, applausi, pugni sul tavolo, ma anche il “pernacchio” dell’Oro di Napoli e la “baia” della Via Pàl - la cui efficacia e diffusione mondiale derivano da una teatralità che li sovraespone, facendone simbolo di qualcosa che non si può dire a parole, ma che pure è immediatamente intellegibile. Scommetto che persino il Lanzichenecco decifrerebbe il significato implicito di due begli sgombri à la figure se ripresentasse la sua “Autopsia Tanguera” in una qualche milonga.
D’altronde nessuno più del fischiato sa perché lo fischiano. Al massimo potrà rispondere come quell’attore inglese che veniva fischiato tutte le sere per la sua interpretazione canina del monologo di Amleto. All’ennesima contestazione apostrofò la platea con un: “Sentite, non fischiate me: non ho scritto io questa merda!”