Nel calcio del bel tempo che fu si contemplava la figura del terzino, il difensore puro che passava la sua metà campo di malavoglia e che mai si sarebbe sognato di tirare in porta e ancor meno di commettere la superbia di segnare un gol. Per questo i rarissimi gol di quei terzini erano così toccanti, erano dei capolavori di pudore e illuminazione, degli atti di rivolta improvvisa, delle levate d’orgoglio subito cosparse di cenere. Il violinista Julio Carrasco ha giocato per trenta anni da terzino nello squadrone di Osvaldo Pugliese, ha fatto tre gol e un’infinità di passaggi risolutivi al centrattacco Enrique Camerano. Non venne mai meno alla proverbiale riservatezza uruguaya e probabilmente questo mio articolo lo avrebbe messo in imbarazzo. Ma cosa volete farci: i tre gol di Carrasco sono di una bellezza tale che li ricordiamo ancora dopo tanti anni, e i suoi arrangiamenti sono dei congegni poetici di altera umiltà, dei veri e propri “quasi gol”. Insomma, quella che state per sentire è la storia del Violinista Riluttante, vita, opere e ritrosie di Julio Carrasco. E con questo un affettuoso saluto anche dal vostro Nicolò Carosio.
In trenta anni d’orchestra con Osvaldo Pugliese non arrivò mai a dargli del tu, né a farselo dare. Julio Carrasco, violinista, compositore e arrangiatore, praticò e portò alla perfezione il riserbo regolamentare della sua nativa Montevideo. Il suo era un pudore marziale, una ritrosia che rasentava l’invadenza. Non suonò mai un solo assolo, nemmeno nei pezzi scritti da lui. Li lasciava tutti al suo idolo Enrique Camerino che li inoculava in vece sua. Quando nel 1959 Camerano se ne andò dall’orchestra per abbracciare l’ispido commercio dei maglioni, il posto di primo violino toccava a Carrasco, ma lui lo rifiutò. C’era da aspettarselo. Allora Pugliese lo diede al sottile Herrero e a un violoncello di rinforzo. Carrasco si ritirò nel 1966. Non fece trapelare nulla di sé fino al 1988, data della sua ultima uscita pubblica. Erano passati 81 anni dalla prima e fu restio in entrambe.
Per la sua riservatezza connaturata, era l’amministratore ideale dell’orchestra. Essendo questa una cooperativa che suddivideva gli introiti secondo intricate tabelle percentuali, spesso gli capitava di dover dare più soldi a Morán e a Ruggiero che al titolare: un’operazione scabrosa che richiedeva integrità morale e scolorina. Introdusse, senza mai ammetterlo, il termine Paganini per designare chiunque avesse a che fare con le paghe. Se ancor oggi andate nei camerini di un gruppo di tango, sentirete frasi sibilline tipo: “Come sta Paganini?” “Ancora non si è visto Paganini” “Vado a salutare Paganini e partiamo” “Senza Paganini, niente musica”.
Come compositore fu tutt’altro che prolifico. Nell’arco di dieci anni, Carrasco coniò tre capolavori - Flor de Tango (1945), De floreo (1950), Mi lamento (1954) - di cui non si conoscono altre versioni. Nessuno si è mai azzardato a sfidare i ragazzi di Pugliese nel loro campo. Anche le orchestrazioni degli archi erano affidate a lui, quella straziante di Pasional ad esempio. Suo è anche l’invincibile arrangiamento di Fuimos, cantato da Chanel.
Ma andiamo con ordine. Flor de tango è stato il primo tango d’autore interno all’orchestra che abbia inciso Pugliese. Inizia con un breve riff ritmicamente destabilizzante che regolerà tutto il traffico del pezzo, affiorando come un pilomat per ben cinque volte. E’ l’unico caso che conosco con tale ricorrenza. I due temi che seguono vengono esposti alternativamente da piano, violino e bandoneòn, in un dialogo intrecciato come uno scubidù da tre e urbanamente commentato dal tutti orchestrale. Regna sull’assemblea una gentilezza di modi da “Prego, dica lei” e “Come il compagno testé suggeriva”. Un lungo ed emolliente solo di violino prepara la torrenziale variazione finale capitanata, e probabilmente scritta, da Osvaldo Ruggiero. Pilomat finale, tutti a casa. Ci vediamo fra cinque anni. Però intanto ascoltiamoci Flor De Tango.
Forze colossali spinsero Julio Carrasco a comporre un secondo tango quinquennale, un albero di elettricità pura, fatto per le Stratocaster, ma reso da strumenti di legno e avorio, madreperla e cartoncino. In quel 1950 Pugliese era già il grande vento che muoveva i vascelli di Avellaneda. I sobborghi operai lo sostenevano alla facciaccia del Centro, certi club di barrio lo difesero persino dalla polizia. Il vero del tango perse velocità, i passi si fecero solenni e nobili, le vite si strizzarono, le spalle si allargarono, stringhe di seta incerate a mano vennero infilate nelle scarpe di vernice. Tutto ti doveva distinguere, se stavi con Pugliese. I corpi esultavano alla furia di Ruggiero, al lirismo di Camerano, ai colpi d’uncino di Morán, ma l’intera orchestra era una macchina di fuoco che faceva sembrare le altre delle bande di boy-scout. Furono gli anni de La Cachila, di Patetico, di Una vez e soprattutto della triade Yumba, Negracha e Malandraca, tre tuoni biblici, tre premonizioni del tango a venire che allo stesso tempo era già lì, nel pathos siderurgico di questo tango di Carrasco. Un dispositivo ritmico multi-asse, ingranato da basso, piano, archi e bandoneón, il marcato di un maglio di crine, squarci melodrammatici, un solo di violino toccante come pochi, poi ripreso da tutta la sezione mentre Ruggiero travolge i fortilizi con una variazione che è un camion. Sembra un film di Ken Loach, una storia d’amore sbocciata in fabbrica. Suprema sprezzatura di Julio Carrasco, del suo genio della riluttanza, è il titolo che gli dà, De Floreo, un ornamento dappoco, non richiesto, non necessario: tra tanti capolavori, solamente un fronzolo. Eccolo qui.
C’è chi dice che sono quasi cieco e ridotto alla miseria. Ma per favore! Mi hanno operato di cataratta, prima all’occhio sinistro e ora al destro. Non sguazzo nei soldi, ma ho la televisione e persino una chitarra nuova! - diceva Roberto Chanel in un’intervista.
Quella era gente seria, mica dei mazzocchi! - diceva Céline, in un’altra.
Alfredo Mazzocchi detto il Turco aveva una faccia da persiana, nel senso di tapparella. Per farlo esordire in orchestra con Pugliese, gli si dovette trovare un nome d’arte. Un cantante di tango non può chiamarsi Mazzocchi. Julio Jorge Nelson, alias Isaac Roscofsky, detto la Vedova, lo ribattezzò Roberto Chanel, come il numero 5. Si vede che la Vedova abitava davanti a una profumeria. La voce di Chanel non era d’oro, forse nemmeno d’ottone o princisbecco, ma aveva il timbro e l’estensione delle viole, un fraseggio primaverile, emissione da ambulante e una eshe arrabalera che inteneriva le suole ai milongueros. Sicché, quando cantava Chanel, le piste rallentavano ad ascoltare la nostalgia in diretta, i tanghi che si avvicinavano e si allontanavano come mossi dal vento di un mercato rionale. Julio Carrasco scrisse per lui “Fuimos”, il suo arrangiamento psicologicamente più centrato. L’impresa era ardua, si trattava di rendere compatibile con l’altolocata melodia di José Dames l’oratoria di un tizio che, senza aver letto Alberoni, pretendeva di lasciare una donna per il suo bene. Il testo di Homero Manzi continuava il filone inaugurato da “Confesión” di Discepolo (in cui l’io cantante ricorreva a cazzotti strategici) e che aveva qualche precedente nei goffi sainete di fine ottocento. Carrasco cosparse l’arrangiamento di tensioattivi e gli archi di sciolina, di modo che il tango si fece subito più scivoloso del telefono di un macellaio. Mentre tutto si muoveva sotto i piedi e dentro Chanel, l’emulsione Carrasco di sentimenti non onestamente miscibili, amore, calcolo, lacrime e furbizia, veniva imbottigliata appena fatta, in questa storica, e ineguagliata, prima incisione del 28 marzo 1946. La seconda arrivata, quella incisa solo 13 giorni dopo da Anibal Troilo con la voce d’oro di Alberto Marino - un cantante di tango non può chiamarsi nemmeno Vincenzo Marinaro - fu solo un bellissimo e irrilevante tango in più. La cometa nasale di Chanel scomparve quasi subito tra pianeti di minor conto. Morì nel 1972, pressoché dimenticato, con la chitarra ancora nuova.
Ma a Pugliese non bastava il verismo fotogenico di Chanel, né bastavano alla sua musica quei tanghi istantaneamente nostalgici, smussati come pugnali di stagnola. Voleva cabrare le emozioni, soffrire più in alto; voleva strazio, vere ferite, fiumi di lacrime. Così quando gli parlarono del cantante di Cristobal Herreros, inviò subito degli emissari a portarglielo via. Alberto Morán cantava leggendo il testo dentro di sé, come se glielo avessero tatuato all’interno delle palpebre. Viveva le parole come fossero spine, incarnava pene e passioni titaniche, da romanzone russo. Mentre i suoi colleghi gesticolavano come posteggiatori, lui accarezzava i capelli dell’aria e i volti dei microfoni. Ma soprattutto esaltava le donne, i loro drammi sproporzionati, i loro fattacci sentimentali. Con i suoi tanghi, insomma, Morán amplificava i destini delle “muchachitas de todos los barrios” che in quegli anni si stavano prendendo la ribalta della Storia argentina, facendole sentire tante Anna Karenina. “Pasional”, caso strano nell’orchestra di Pugliese, venne registrato due volte, a distanza di un anno, nel 1951 e 1952. Unica differenza, una breve introduzione ritmica. Segue in entrambe le versioni un lancinante solo di violino che prepara lo squasso dei mantici e il magma incandescente del Vrònskij di Parque Avellaneda. L’arrangiamento lo scisse Roberto Peppe - geniale bandoneonista cresciuto alla scuola di Maximo Mori e annegato a neanche 34 anni nell’oceano domestico di Mar del Plata - ma gli archi li dipinse con la solita delicatezza Julio Carrasco.
Alberto Morán l'ho visto una sola volta, nella sala dell'APO, dove Pugliese provava tutti i mercoledì. Era passato di lì a salutare gli amici e a vedere se per caso c'era qualche lavoretto. Era proprio lui, l'idolo del pubblico femminile e inviso a quello maschile, l'unico cantante che fermava la pista, l'unico a cui chiedevano il bis immediato. Nel 1992, a settanta anni di tango che valgono doppio, non aveva perduto nulla del suo carisma operaio. L'orrenda spugna del tempo che tutti noi deforma e spreca, era sì passata sul suo volto, ma in ogni suo sguardo e in ogni suo gesto si sentivano ancora quei saloni straripanti degli anni 40, le emozioni di quel tango che ancora coincideva con la vita. Se allora avessi saputo che sarebbe mancato di lì a poco, non mi sarei limitato a una stretta di mano, ma l'avrei abbracciato forte e gli avrei detto che Dio conta le lacrime delle donne, tranne quelle versate per lui. Molti dischi dimostrano che si può evitare di incidere Mi Lamento. Uno soltanto, quello di Pugliese, dimostra puntigliosamente il contrario. E’ il 13 marzo 1954, quasi cinquanta anni sono passati da quando Evaristo Carriego ha scoperto, e dunque inventato, il barrio. Ora che i destini elementari di quel popolo da niente, quella carne appena da prigione e da ospedale, di sartine, quinieleros e compadritos, non usufruiscono più della disattenzione dei poeti, i sobborghi rifulgono del glamour letterario di un proletariato a grandezza naturale. Sì, ci sono ancora sterrati e cani, caprifogli e lune prigioniere di pozzanghere, amori e disamori che vengono scritti con la siringa da pasticciere in tanghi cantati da tutti, ma ci sono anche gli stridori della Storia, il pathos violento della marmaglia che ha osato alzare la testa.
Mi Lamento, il terzo e ultimo tango di Julio Carrasco è la resa sonora di una querela d’amore con fuori l’inferno, una Canción del Barrio scritta non più da Evaristo Carriego ma da Roberto Arlt. Bandoneón e violini si rinfacciano un’infrazione a non si sa quale protocollo, il pianoforte fa da pacere, si sporgono i condomini a dire la loro e perfino Carrasco, venendo meno alla sua plateale riservatezza, fa sentire la sua voce allo scoccare del secondo minuto. Poi il violino di Camerano inocula le solite rose e il mondo smette di sputare sangue. Il finale lirico dell’orchestra sgombra la scena portando tutto con sé, come un vento pucciniano. C’è poco da fare: nell’arte conta solo la polvere magica. La polvere di Julio Carrasco è la salagione che ha permesso a quella carne da fabbrica e da officina, a quel modo duramente romantico di sentire la vita, di arrivare fino a noi, così.