Con il buon piazzamento del Pajuerano e Lady Macbeth al recente Mundial di Tango Argentino nella categoria soprannominata escenario e con la qualificazione in finale di altre due coppie di free-style come quelle del Vaccaro Smith e del Mercenario Joe, si può dire che il wrestling sia confluito ufficialmente in quell’iperbolico format di tango depistato chiamato tango-show. Bella scoperta, direte voi, come poteva essere altrimenti? Fatte salve le differenze d’impegno e dedizione personale, tutte a favore della lotta, moltissime sono le affinità elettive tra wrestling e tango-show. Intanto, per malmenarsi sul ring come per ballare su un escenario, bisogna essere minimo in due; entrambe le coreografie sono grosso modo sempre la stesse; l’enfasi, la gestualità, le pose sono molto simili, se non addirittura identiche; i costumi ugualmente demenziali. Oltre a complessione, età e maquillage, i lavoratori del wrestling e del tango-show - perché tali sono: lavoratori - condividono anche un pubblico che è spesso incredulo e maleducato, a cui cercano stoicamente di fare impressione con il medesimo repertorio di effettacci. Una visita medica dopo le performance rivelerebbe le stesse ecchimosi e le stesse tumefazioni all’organismo. Anche sudorazione, affaticamento e considerazione sociale, vanno di pari passo. E infine troppe volte, al termine della carriera, ballerini e lottatori approdano alla mensa grande e vuota dell’indigenza.
Eppure, nonostante tutte queste concordanze, wrestling e tango-show sarebbero ancora due generi separati se non fosse stato per la dura vertenza dei “Titani nel ring”, una vertenza destinata a promuovere un’intesa di categoria proprio sul piano sindacale. E per paradossale che possa sembrare, l’artefice dell’intesa fu un investigatore privato. Era il 2001, l’anno che passerà alla storia per l’11 settembre e per il cacerolazo originale. Presidente in Argentina era De La Rúa, quello che “dicen que soy aburrido” e che finì per scappare in elicottero. Mancavano ancora sei mesi a quegli eventi fatidici e Buenos Aires era in preda al Nortazo, un vento bollente che strappava i manifesti dai muri e le acciughe dalle pizze. Ogni milonguero antropomorfo in città, in quell’aprile del 2001, era stato ingaggiato nel film “Assassination tango” di Robert Duvall. Le riprese andavano per le lunghe a causa delle insaziabili rivendicazioni salariali degli scritturati e degli scioperi a singhiozzo appositamente orchestrati dall’AsMaCoBaTa, l’Associazione dei Maestri, Coreografi e Ballerini di Tango che si era costituita nel tentativo di opporre un ente giuridico alle prepotenze degli impresari. La nostra storia ha inizio classicamente nel cuore della notte, ammesso che la notte un cuore ce l’abbia, con il classico squillo di telefono su un comodino di Rivadavia y Callao. Un titano del ring stava per chiedere l’aiuto di un peso piuma dell’investigazione. Il suo nome, che avrete già indovinato, faceva rima baciata con il forzato buono dei Miserabili, il leggendario Jean Valjean.

Se fai questo mestiere abbastanza a lungo, riesci a capire quando arrivano i guai anche solo da come squilla il telefono: fa un suono tipo “drin”. Quella notte di luna sbagliata come in un tango di Cadícamo sapevo che non avrei dovuto rispondere. E invece. Tirai fuori una mano dal pigiamino e farfugliai un “sì?”. Anch’io come Noodles erano trent’anni che andavo a letto presto. Una voce da caverna paleolitica mi fece vibrare le otturazioni:
- Sono La Mummia.
- Non avertene a male, figliolo, lo scherzo è vecchio, figurati io. Ma se insisti vengo lì e ti sgombero in bocca - risposi con una minaccia che andava di moda quand’ero sveglio.
- Sarei proprio curioso di vederla in azione...
- La voce di Polifemo stavolta fece ondeggiare la mia Milady. E’ un abat-jour.
- Sono Oscar Demelli, altrimenti conosciuto come La Mummia. Ma se non ha mai sentito parlare di me, lei non è così furbo come dicono.
Mi misi subito sull’attenti. La Mummia! Eccome se ne avevo sentito parlare! Ero un suo ammiratore fin dai tempi in cui non era ancora morto. Come sapete lo stato anagrafico dei lottatori è intermittente. Ricordate come imprigionò L’Esecutivo con una mezza Nelson siderurgica? E come picchiò Gemelli Siamesi Cohen anche sotto la lingua? Lo mise al tappeto così tante volte che il suo manager cominciò a noleggiare le suole degli scarpini come spazio pubblicitario.
- Ma certo, signor Demelli, sono un suo fan. E chi ha mai detto che sono furbo?
- Mi ha dato il suo numero una conoscenza che abbiamo in comune, il Payador Bob.
- Ah, il Payador Bob! Come sta? E’ tornato dagli aperitivi europei?
- Ora lavora per me, o meglio, per i Titani. Ci scrive i dissing preliminari, le intimidazioni, le minacce spaventose. Tutto in decima, naturalmente, come l’antica milonga campera.
- E cosa la porta a chiamarmi nel cuore della notte, signor Demelli?
- La notte non ha cuore, Fajean, per questo vorrei il suo aiuto. La vedova dell’Armeno si è fregata i nostri fondi. Niente pensione per i Titani.
- Nemmeno io ce l’ho la pensione, signor Demelli, ma conto sulla mia cattiva salute.
- I Titani non si arrendono, Fajean. Se i nemici sono alle porte, non chiediamo quanti sono. Chiediamo dove sono. Ma davanti agli intrighi dei banchieri non sappiamo chi percuotere.
- Eh sì, aveva ragione Brecht - sospirai come un materialista innamorato.
- Ci aiuti, signor Fajean. Noi non siamo avvezzi a tutta questa Brecht Dance della malora. Domattina legga la mia lettera sul supplemento Cash, una bomba che smuoverà le acque, almeno spero. Poi ci vediamo nel suo ufficio.
- Venga in borghese, signor Demelli. Ho dei vicini impressionabili.
Posai il mio capino ricciuto sul guanciale e continuai a dormire fiducioso con gli angioletti. Adesso c’era La Mummia che li avrebbe fatti rigare dritto.

La mattina dopo aspettai l’arrivo dei Titani leggendo stranamente il giornale. Con me i quotidiani hanno sempre sprecato la loro qualità migliore, ossia la quotidianità, ma quella volta si trattava di lavoro. La lettera diceva così:

La vedova di Martín Karadagián e sua figlia Paulina, al colmo della faccia tosta, e pur di non pagare i contributi previdenziali e pensionistici ai lottatori della troupe, se la ridono della Giustizia. Approfittando di umili lavoratori, alcuni dei quali già ritirati dall'attività e altri che non riescono a trovare lavoro, la vedova di Karadagián se la passa assai bene dopo averci sfruttato. Si rifiuta di pagare e di consegnare i certificati lavorativi che attestano i suoi debiti nei confronti di chi ha lavorato per lei. In realtà ogni scusa è buona per non adempiere agli obblighi di Legge e di Giustizia, delle quali si fa beffe. Ciononostante, in questa lotta che ho fatto mia, in nome di Taras Bulba, Ulisse il Greco, il Conte Schiaffino, Ararat, Chicho Catanzaro, Hippie Jimmy, Benito Durante, Salvatore Giuliano, Gengis Khan, L’Esecutivo, il defunto Joe Galera e molti altri, non cederemo fino a che non pagheranno l'ultimo quattrino che ci devono e contro di noi perderanno per knock-out tecnico. Questa lotta intendiamo vincerla anche a costo di lasciarci il sangue affinché vengano castigati gli sfruttatori e gli evasori. Lottiamo contro l’impunità e il potere del denaro. Dovrebbero sapere che sul ring La Mummia non ha mai perso e, malgrado l'impunità regnante, il potere del denaro e di coloro che comprano le coscienze, questa lotta la vinceremo e allora sì che finalmente ci sarà giustizia per i lavoratori di Titani nel Ring. Firmato Oscar Demelli, La Mummia, lottatore e impresario artistico.

La storia un po’ già la conoscevo. Dopo la morte di Martín Karadagián nel 1991, intendo dire la morte vera, non simulata sul ring, la gestione dei Titani era passata alla vedova e da lei a Juan Goberti, il faccendiere della notte porteña, un ex cantante del Varela degli anni peggiori, ovverosia tutti.

Alle 10 in pacca un sommovimento tellurico interruppe i miei pensieri e mi preannunciò che i Titani erano arrivati. Per fortuna erano soltanto in tre. La Mummia si era portato dietro l’Ampio Puchelli e l’arbitro corrotto William Boo. Sembravano una copertina del Grafico del 1966, quelle coi colori tenui, all’anilina.
- L’ascensore è piccolo, siamo venuti su a piedi, una bazzecola, 189 maledetti gradini. Tutto allenamento! - ansimò La Mummia. Era strano vederlo senza bende.
Mi porse la mano come una fetta biscottata. Ora, non so se ci avete fatto caso, ma i pugili e i lottatori, specie se voluminosi, la mano non te la stringono mai. Si dice che temano implicazioni e per questo, negli incontri con i civili, atteggino a restie le loro mani indelebili. E’ cautela da schedato, o da fuori sulla parola, quella di esprimere cordialità soprattutto astenendosene. Nulla a che vedere con la doppiezza della seppia vaticana, viscida sugli uomini ma prensile, a scanso di sorprese, sulla roba. Così feci trapelare senza timore le mie dita in quella manona disinnescata. La stretta quasi me le spappolò. Mantenni a stento un sorriso di circostanza mentre mi sentivo gli occhi esplodere fuori dalle orbite trattenuti da due molle, come quelli di Willie Coyote. Gli altri due colossi li salutai con un leggero inchino della testa.
- Bella lettera, signor Demelli. Chi gliel’ha scritta?
- E a lei chi gliel’ha letta? - s’inalberò
- No, scusi, intendevo dire: non l’ha fatta redigere da un legale?
- Ma le sembra? Io scrivo per trabocco del cuore, Fajean, come il Vangelo. In questo caso trabocco del fegato. Sono arrabbiato. Sono furente. La vedova di Martín ci ha rubato il futuro. E non parlo di me che tiro avanti grazie alle pubblicità dei cerotti Adhesur, ma guardi l’Ampio Puchelli, non può neanche comprare un trenino ai suoi quattro nipotini.
Guardai l’Ampio Puchelli e i due ettometri di gabardina celeste che erano serviti per fargli la giacca. Aveva gli occhi buoni come quelli di Lassie malata.
- O guardi l’arbitro malvagio William Boo, che dava sempre ragione ai cattivi. Ha preso più colpi lui che le ginocchia di un calzolaio, ha il diabete, non ci sta più con la testa.
Guardai l’arbitro. La testa gli pendeva di lato, il farfallino si era girato in assetto verticale.
- Perdonate una curiosità da aficionado. Martín Karadagián era davvero il campione segreto del mondo?
Stavolta a parlare fu l’arbitro. Aveva la voce di Uriah Heep:
- Titolo conquistato contro Giovanni XXIII nel 1962 e mai più perduto. Sempre primo nel punteggio d’Amburgo.
- Cos’è il punteggio d’Amburgo? - chiesi.
- Tutti gli incontri di lotta sono truccati. Gli atleti si fanno mettere con le spalle a terra secondo le istruzioni dell’impresario. Ma una volta l’anno si riuniscono ad Amburgo in una osteria e lottano a porte chiuse, con le tende tirate. Lottano a lungo, pesantemente, senza eleganza. Il punteggio d’Amburgo serve a stabilire la classe reale di ciascun lottatore e ad evitare il totale discredito.
- Se ci fosse ancora qui Viktor Sklovskij - osservai - direbbe che il punteggio d’Amburgo farebbe comodo anche alle altre arti. Ma ditemi un po’: cosa posso fare io che voi no?
- Senta Fajean. Sappiamo che i nostri fondi pensione li ha presi Juan Goberti, il maneggione della Calle Corrientes. Lei può trovarli. Noi non possiamo indagare, ci conoscono tutti, usciamo di casa e ci assalgono con le richieste di autografi, fotografie, quattro chiacchiere. Lei invece non la conosce nessuno, assomiglia a uno sconosciuto visto da dietro, ha una faccia che la si dimentica subito...
- Ho capito, ho capito - lo interruppi - sono el desconocido di Macedonio Fernández, talmente sconosciuto che non si sa se sono io. Va bene, mi avete convinto. Per trabocco del cuore, firmi qui: è una lettera d’incarico. Mi metto subito alle sporche calcagna di Goberti.
- Se ha bisogno di un aggancio, noi abbiamo uno dei nostri che lavora a Mister Tango.
- Un lottatore in un locale per turisti? Cosa fa, il buttafuori?
- No, canta. E’ Jorge Vidal, un grande amico dei Titani. Ogni volta che mi vede mi dedica “Cicatrices”. Ha avuto una vita come le nostre, dormiva su un bigliardo, vinceva i concorsi perché gli altri concorrenti li accoltellavano. E’ un amico vero, uno di noi.
Quando li salutai evitai le strette di mano, per non stancarli ora che dovevano andare giù a piedi, ma a scendere ogni dio t’aiuta. Dalla finestra seguii i Titani con lo sguardo mentre attraversavano Plaza Congreso verso le Poste. Cinquecento metri e nessuno li aveva notati neanche per sbaglio. Il loro mondo era tramontato per sempre, sembravano tre vecchi milongueros del Juveníl, dove tutti insieme i ballerini non avevano mai fatto una dentatura completa. Eccoli là i Titani, i miei eroi delle elementari, gli idoli dei bambini fino alla quinta, eroi buoni e generosi che pigliavano le botte dai cattivi e perdevano ingiustamente, proprio come nella vita. Ora li stavano anche derubando. Ma Goberti doveva fare i conti con me. Io Varela l’avevo sempre odiato, con quella faccia da dentista autodidatta, quel tango abbietto e trionfalistico. E Goberti poi? Un cattivo che facevano vincere. Ad Amburgo non ci sei mai andato, eh, Goberti? Ma Amburgo sta per arrivare da te. Misi su un disco di Jorge Vidal e mi arrotolai un cerotto Adhesur sull’anulare. Di ogni amore che ho avuto, porto ancora le ferite.