Era cominciata così, con la telefonata notturna della Mummia e la visita di una delegazione di Titani nell’ufficio dell’investigatore privato Jean Fajean. Ma cosa volevano queste vecchie glorie del wrestling dal più sconosciuto dei detective, da uno che non si sapeva neanche quante fossero le cose che s’ignoravano su di lui? La vita dei Titani giù dal ring era come il copione dei loro match, il Bene da una parte, il Male dall’altra, in mezzo l’arbitro corrotto che dà sempre ragione ai cattivi. Dopo quarant’anni di botte date e soprattutto prese, di ematomi, fratture e contusioni di ogni genere, i Titani si ritrovavano senza pensione, i loro certificati previdenziali erano spariti e i fondi che avevano dolorosamente accantonato per la vecchiaia chissà dov’erano, visto che la vedova Karadagián li aveva affidati agli astuti gnomi della finanza. L’indice malmesso della Mummia puntava dritto su Goberti, padrone del tango e della notte. Era costui un cantante del peggior Varela ora fattosi impresario. Da dietro le quinte del Mister Tango, Goberti risucchiava l’enorme flusso di valuta pregiata che entrava nel paese grazie al tango. Le sue cannucce le aveva conficcate dappertutto, nel tango-show, in tre canali su quattro della televisione tematica, nelle radio, nelle riviste, nei festival, nei campionati, nelle location. Di tutto faceva il suo pro. Solo le vecchie milonghe, e neanche tutte, gli resistevano. Ma cosa poteva fare Jean Fajean che i Titani no? Semplice: indagare nell’ombra mentre loro distraevano i cattivi per iscritto, con lettere pubbliche che erano degli ordigni. Avrebbe funzionato questo piano risibile? Chi poteva dirlo? Certo è che Jean Fajean aveva preso la cosa a cuore, i Titani erano i suoi idoli, erano i Buoni che una regia infame costringeva a perdere sempre, tanto sul ring come nella vita. Così motivato, Jean Fajean inaugura la bella mattina d’aprile del 2001 in cui comincia la nostra storia, telefonando ai lavoratori del tango-show che si stavano organizzando contro le prepotenze degli impresari. Manolo Sucher, il responsabile delle relazioni sindacali territoriali esterne, gli dà appuntamento sul set di Assassination Tango, dove si sta recando per ricomporre l’ennesima vertenza con la produzione americana. Fajean é in procinto di uscire quando i fratelli Macchione irrompono in ufficio, gli distruggono a cazzotti la pinacoteca e rendono inagibile, forse per sempre, il suo cappello italiano. Fajean non si lascia intimidire, approfitta dell’inferiorità numerica e infligge agli iconoclasti una lezione di boxe che lo lascia steso come un asciugamano sulla spiaggia. Prima di perdere conoscenza, sente i Macchione che lo invitano quella sera stessa al Mister Tango: Goberti vuole parlare con lui. Al risveglio li trova tramortiti e insaccati come cotechini da una lunga benda bianca. La firma inequivocabile è quella del suo nuovo santo protettore, Oscar Demelli altrimenti conosciuto come La Mummia.
Alta, alta perdurava la temperatura. Il giorno predicava i suoi precetti alla città
aristotelica che trottava e trottava sotto quel coperchio di smalto viola. Ed era
soltanto giovedì. Oh, com’era raggiante l’andirivieni, la vita miniaturizzata del
capitale che rollava e beccheggiava su Callao proprio davanti al numero undici, la
sala macchine del tango d’oro. Noi, vivi a casaccio, traforati dalle interferenze
frivole del lavoro, sprecavamo il nostro tempo impiegandolo. Come potevamo
capire la grandezza del tempo sottratto all’utile, la nobiltà delle serie inferiori, dei
gironi bassi, le eroiche imprese di guitti, commedianti, caratteristi, suonatori,
ballerini, balleroni, soubrette, istrioni, primedonne, circensi, ventriloqui, maghi,
predicatori, ciarlatani, cantanti da giacca, forzuti da fiera, strozzapalloni?
Lo spettacolo è la storia della meraviglia umana. Fa vedere alla vastità dei cieli di
quali cose maestosamente inutili siano capaci i piccoli uomini. In teatri di stoffa, su
pedane di legno o in arene di ghiaia, sappiamo spezzare le catene, tuffarci nel
fuoco, volare come rondini. In umili chiesette e in cattedrali gugliate mettiamo in
scena redenzioni e apocalissi. Su quadrati di linoleum ci facciamo picchiare e
spaccare sopraccigli, suoniamo chocli e balliamo cumparsite. Ma non importa
quanto prestigioso o infimo sia il luogo dello spettacolo, sempre vi troverete una
porta con un cartello: vietato l’ingresso ai non addetti.
La Confetteria del Mulino, promossa a location cinematografica, non faceva
eccezione. Solo che la porta era un buttafuori alto più di due metri e il cartello
erano i suoi occhi scorbutici. Non avrei mai superato il suo triage, se la mole non
me l’avesse fatto riconoscere per El Hombre Montaña, un vecchio Titano che
evidentemente ora operava nel settore sicurezza. All’orecchio portava un
auricolare con un’antenna grande come la matita di un droghiere. Gli chiesi
l’autografo ricordandogli quella volta che aveva spiaccicato L’Androide lanciandosi
dal lampadario o quando era franato sul meritevole Hippie Jimmy riducendolo a
una decalcomania. Mi diede una sua foto già firmata e mi buttò dentro con una
manata allegra, da esaminarsi coi raggi.
Il Mulino, chiuso ormai da cinque anni, era stato ripulito alla meno peggio. La
polvere ricopriva tutto ciò che non doveva essere inquadrato. Il set era fermo con i
fari accesi, in attesa che le riprese riprendessero. C’erano dei personaggi in
costume milonguero che si aggiravano come se niente fosse dalla parte sbagliata
del bancone bar. Le bottiglie si vedeva da lontano che erano finte o vuote, ma era
meglio verificare.
Sul ballatoio dell’orchestra, di fianco alla postazione del disc-jockey, avevano
piazzato una cinepresa: la ronda filmata dall’alto ha sempre il suo perché. La pista
era sgombra come uno specchio, incerata, scivolosissima. Forse era quello il
motivo della vertenza. Erano almeno in trenta attorno al falò della discussione. Mi
avvicinai per sentire cosa diceva Sucher, ma poi lo vidi seduto con la guance tra le
mani. L’AsMaCoBaTa aveva mandato un pezzo più grosso di lui, o più competente,
a negoziare con gli americani. Mi avvicinai ancora per sentire cosa diceva:
- Forst riaction: sciocc! Sciocc biccouzzzeh in au mind evrifinch is totali connectd.
Abísoli!
E con questo gli americani erano sistemati Giù le mani da Cuba e dal tangou! Poi
di colpo, come per un incantesimo, ci fu il ciak e tutto si rimise in moto, le orbite
celesti dei ballerini ricominciarono a ruotare tra gli equinozi dettati dalla musica.
L’orchestra di Carlos Di Sarli governava la pista con decreti parabolici che quei
magnifici bellimbusti perimetrali espletavano punto per punto.
Andai a congratularmi con Sucher:
- Senza rinunce non si ottiene niente, eh Sucher?
- Questa è la terza vertenza che vinciamo oggi, Fajean. E non è neanche
mezzogiorno. Cosa vuole da me, cosa vogliono i Titani nel Ring?
Gli spiegai la mia visione:
- I lavoratori del wrestling e del tango-show hanno moltissimo in comune, Sucher:
per malmenarsi sul ring e per ballare in una kermesse bisogna essere minimo in
due. Stessi impresari, stesso sfruttamento, stesse tumefazioni! Gestualità,
enfasi, pose, nomi, costumi, maquillage, effetti splatter, tutto uguale. E alla fine
della carriera, scordarsi la pensione. La mensa grande e vuota dell’indigenza vi
aspetta. Unitevi alla nostra nella lotta, Sucher! Proletari di tutto lo spettacolo
uniamoci! Non abbiamo altro da perdere che le nostre paillettes!
L’avevo convinto, si vedeva a occhio nudo. La farfalla della perspicacia si era
posata sull’ampia fronte del sindacalista.
- Lei beve, Fajean? - mi chiese freddamente.
- Ma certo! Per chi mi prende! - mi scaldai.
Guardandolo bene, bevitore lo era anche lui. Il suo naso era così spugnoso che lo
si poteva adoperare per lavarci i piatti.
- Non si scaldi, Fajean. Mi dica, che cosa sa lei del tango?
- Quanto basta per mettermi nei guai.
- Lo sa lei che l’anno scorso l’introito globale dell’impresa tango è stato di 400
milioni di dollari?
- Sì, lo so, nonostante il Clarín abbia fatto di tutto per tenermelo nascosto.
- E che l’85% è finito nelle tasche dei soliti padroni, soprannominati impresari?
- Pensavo di più. Chi ha osato derubarli di quel 15%?
Sucher prese la rincorsa per il pippone:
- Adesso il mercato sembra un dato naturale, e naturali ne sembrano i maneggi.
Questa è la vera vittoria dell’industria culturale che erge a giudici le sue vittime.
Ma il tango non è sempre stato così. Quando ho cominciato io, vent’anni fa, il
tango era appena un mercatino tribale, dove ogni cosa che compravi la
toglievano dalla vetrina. I cosiddetti soldi circolavano solo nelle cene tango
show, il cui core business era il turismo innocuo delle provincie interne e dei
paesi limitrofi, a moneta debole. Nella milonga invece niente, tranne i proventi di
ciò che alla Borsa di Chicago chiamano black market commodities, ossia merca
e telos, cocaina e alberghi a ore. Mi segue, signor Fajean?
- Come un cane all’autogrill, signor Sucher.
- Grazie. Il mercato globale ha cominciato ad accorgersi del tango col passaggio
al CD. Ai discografici non è parso vero di tornare a guadagnare da un repertorio
ritenuto morto da trenta anni. Poi è arrivata la TV via cavo, gli home video, la
valanga turistica a valuta pregiata, che abbiamo messo subito a suo agio. Sto
per arrivare al punto, signor Fajean.
- Siamo già nel terzo millennio, fatto ammesso anche dalla Chiesa - sottolineai.
- Appunto. Un hotelier che sognava Rapallo, quando è stato fatto ministro ha
dichiarato: “il tango deve diventare per Buenos Aires quello che il carnevale è
per Rio”. Ho tenuto il ritaglio, nel caso non ci creda. E’ lui lo stratega, l’Eminenza
Marrone della rapallizzazione del tango a cui stiamo assistendo. E’ lui a tirare i
fili, non Goberti. Goberti è pupazzo ripieno di paglia.
- Un pupazzo che ha fatto sparire i fondi pensione dei Titani - osservai.
- Li hanno cartolarizzati, Fajean, è legale. Ad ogni modo, la sua proposta ci
interessa. Non le prometto niente, devo prima sottoporla alla Commissione
Alleanze per la valutazione delle istanze cisplatine. Cosa c’è Jennifer?
Una ragazza di bellezza statuaria, in abito di lamé tagliato di sbieco come piace
alle sartine di Buenos Aires, era al nostro cospetto. Dalla pista giungevano degli
strilli: “ma questa è una presa in giro, es una falta de respeto!...”
- Scusa l’interruzione Manolo. Hanno beccato il Polpo un’altra volta - annunciò.
- Lei è Jennifer - disse Sucher - la nostra responsabile per Casting e Ingerenze
nelle produzioni estere. E’ stata selezionata da lei per ballare con il Polpo
Marianela. Nelle scene dei piedi che giravano stamattina, Marianela aveva
pinzato il suo biglietto da visita sul risvolto dei pantaloni. L’ha fatto un’altra
volta?
- Sì, stavolta l’ha pinzato sui polsini della camicia. Giravamo le scene platoniche,
della cintola in su. - sospirò Jennifer.
- Deve occuparsene lei, Sucher? - chiesi.
- No, c’è il Segretario in persona.
Gli americani si dovevano rassegnare a un’altra caterva di “sciocc biccouzzzeh”.
Mi alzai e strinsi volentieri la mano a Manolo Sucher. Le mie dita non lo
rimpiansero.
- Telefoni al numero che le ho scritto su questo bigliettino. E stia attento con
quelli, Fajean. E’ gente pericolosa.
- La lucha es cruel y es mucha - me ne uscii citando Discepolo. Non sono l’ultimo
arrivato, nel tango. Qualcuna ne so anch’io.
Intanto era partita la quarta vertenza della mattina. Stavolta il set aspettava a fari
spenti, tutta l’attenzione era calamitata dall’imminente show linguistico del
Segretario, nessuno voleva perderselo. Il Molino era tornato a rabbuiarsi come un
hotel di fantasmi, le ragnatele sembravano i merletti di una gigantessa. Feci per
mettermi il cappello, ma poi ricordai che l’avevo lasciato in balcone ad arieggiarsi.
Davanti a quello che fu uno dei più autorevoli guardaroba della città, qualcuno mi
spinse violentemente contro la parete. Poi mi afferrò la gola con una mano
tenendomela lì. La nuvola di polvere sollevata dall’impatto mi impedì di decifrare
l’autore dell’aggressione, pur essendone l’oggetto. Una voce di fiori marci mi
esortò a guardare il suo rasoio, con una citazione tratta da Hemingway. Nemmeno
lui era l’ultimo arrivato, in letteratura:
- Guarda qua, lince: non fila, non tesse, non miete...
Il rasoio sembrava affilato da un pignolo.
- Non dirmi che anche te ti manda Goberti. Sta diventando ripetitivo.
- Fatti gli affari tuoi e nessuno ti cartolarizzerà le palle.
Mi lasciò la gola e indietreggiò. Gli servivano tutt’e due le mani per chiudere il
rasoio senza affettarsi una falange. Lo intravidi segaligno e nervoso, sembrava uno
di quei buffi compadritos disegnati dal giovane Borges. Poi sorrisi come un
materassaio in tv. Alle sue spalle era in corso un fenomeno orogenetico che
proiettava la sua ombra colossale su di lui. Era una montagna che conoscevo bene
e di cui in tasca avevo una foto con l’autografo.
Foto in copertina di David Pugliese