Remota e nobile come quella di Garcilaso de la Vega, ufficiale dell’esercito di Carlo V, così è la figura dell’uomo d’arme e di lettera. Due facce della stessa moneta che all’epoca di Cervantes, l’altro archetipo di questa tradizione eroica, costituivano le virtù indispensabili di ogni perfetto caballero.
“Ho impugnato le armi perché cercavo la parola giusta” è la frase più famosa di Francisco Paco Urondo, poeta, giornalista, letterato e combattente che non distingueva bene la parola dall’azione o che, per meglio dire, considerava l’impegno politico, la militanza come arte del vivere, trasformazione di sé, effetto artistico. L’intreccio inghirlandato di poesia e vita, una certa sua posa da dandy militante, da bon-vivant rivoluzionario e, perché nasconderlo, da Don Giovanni guerrigliero, se da un lato lo aiutarono a mediare tra i rigori della clandestinità e il “rotolare via come bocce senza maniglie”, dall’altro non lo protessero dal raffinato leninismo dei suoi compagni montoneros. Accusato d’infedeltà verso la sua penultima fidanzata Lili Mazaferro e perciò inviato in missione a Mendoza, città dove la guerriglia era pressoché decimata, Urondo morì in uno scontro con un reparto speciale dell’esercito golpista. Con la sua compagna preferì inghiottire un’ironica e letteraria pastiglia di cianuro piuttosto che cadere vivo nelle mani dei torturatori. In Paco Urondo, qualcuno ha scritto, si avvertono le ultime armonie della dolce bohème porteña mentre si mescolano e si confondono con il rumore delle armi che si caricano. Dolce fino a un certo punto: sentite cosa scrive il professor Gustavo Varela:

Negli anni ’60 tutto era difficile per il tango. Difficile la morte di Julio Sosa, che fuggiva dagli anni ’40, difficile la speranza di ricominciare o di continuare come se niente fosse, i club di barrio, la madri sospettose, gli amori di strada al ritmo del Gordo Troilo. Era difficile per il tango perché nessuno amava quel che era stato, nulla del suo passato, nulla su cui fare affidamento. Negli anni ’60 bisognava andare. L’abbraccio non bastava, tutto era illusione e furia. Il tango non ce la faceva più, estenuato, la vita era altrove. Piazzolla era strano, Rovira anche peggio. Ma il Tata Cedrón, testardo come sempre, ci prova con Gelman e ne ricava del tango, un tango nuovo, sudore del 1964, nel laboratorio chiamato Gotán, in calle Talcahuano. Paco Urondo veniva da prima, dagli anni ’30 e dal nord. A quel tempo andavano tutti lì al Gotán, ad ascoltare il Tata che cantava Gelman, con il disco Madrugada che bolliva in pentola. Urondo ne scrive il prologo. Così, in mezzo a tanta avanguardia, nel tentativo di unire l’arte con la politica, i poeti colti, i sociologi e gli artisti, Urondo proclama ai quattro venti che il tango è qui tra noi.

E scrive questo:

Dicano pure ciò che vogliono, il tango è qui tra noi. Anche se in forma ornamentale e retorica. Anche se ha perduto la popolarità che aveva. Anche se poi tornerà di moda – come è capitato al folklore, nei circoli sofisticati. Anche se il suo destino rimane incerto.
Dicano pure ciò che vogliono, ci conoscono grazie al tango, ci ricordano grazie al tango, siamo tangueros, nel bene e nel male.
Dicano pure ciò che vogliono, ma, ci piaccia o no, sarebbe meglio che non ci facessimo troppe illusioni su noi stessi. Non montiamoci la testa. Non vergogniamoci del tango e di quel che è. Non esaltiamolo, a seconda dei casi. In una parola, più realtà e meno immaginazione. Impariamo a conoscerci per quel che siamo, non per quello che ci piacerebbe essere.
Dicano pure ciò che vogliono, la poesia continua a essere per noi la forma più completa di tutte: è la parola ricca di senso, in piena velocità. L’unico limite è sbagliarsi. Chi sbaglia perde. Dio non gli dà una mano. E’ rimasto senza poesia. Per questo non esiste una poesia normale, passabile. I bravi ragazzi non servono alla poesia, non ci arrivano.
Dicano pure ciò che vogliono, la poesia di Gelman è cresciuta insieme alla lucidità, che è anch’essa cresciuta nel nostro paese. Ha vissuto le stesse peripezie dei suoi compatrioti. Non è che li abbia interpretati, ha vissuto come loro. Non è caduto nel populismo, non ha idealizzato nessuno. Ha saputo vedere, per questo ci trascende; ha saputo essere autorevole. Il populismo serviva a Discepolo 30 anni fa, ma oggi, nel 1964, non esiste proprio.
Dicano pure ciò che vogliono, e sapendo che non ho la minima autorità in materia, i tanghi di Cedrón mi sembrano molto buoni. E in più, canta come un campione. Magaldi, Gardel, Fiorentino, non gli rendono il compito facile: saranno anche più bravi, hanno il loro prestigio, nel senso migliore del termine, sono la nostra cultura. Però Cedrón è tutti loro messi assieme, ha riunito le loro voci. Questo è importante perché così la sua voce è un risultato, viene da lontano, dal prima, e ci oltrepassa di un bel pò, ma poi torna, ci accompagna e ci aiuta.
Dicano pure ciò che vogliono, qualcosa di simile accade con Gelman, che è un pò Raúl Gonzalez-Tuñón e un pò Oliverio Girondo: li riunisce, è il risultato che continua il viaggio, è il qui presente. Humour ed emozione, cose molto difficili da fondere insieme nella nostra poesia. Idee e tenerezza. Temperatura e chiarezza. Materiale concreto, reale, percettibile, con tutte le implicazioni del caso, per una poesia che esprime una nuova mentalità degli uomini di questa parte dell’America. Dicano pure ciò che vogliono, io domando: che cosa faremmo senza questo disco, senza i suoi difetti, qualcuno di sicuro ne avrà. Come faremmo a continuare a cantare noi stessi, gli argentini, che non vogliamo commettere errori, che non vogliamo non vedere.

Nel 2006, in occasione del trentesimo anniversario della morte di Paco Urondo, l’editrice Adriana Hidalgo ha pubblicato la sua Opera Poetica, lettura che consiglio fortemente, anche solo per le sue stupende introduzioni ai tanghi che amava di più, tipo Yuyo Verde. Prima però vorrei congedarmi da voi con una sua poesia intitolata La Pura Verità. Spero che dai Campi Elisi degli uomini d’arme e di lettera saprà perdonare la traduzione che ne ho fatto. Dice così’:

Se permettete,
preferisco continuare a vivere. Dopo tutto, e avendolo pensato bene, non ho
motivi per lagnarmi o protestare:
ho sempre vissuto nella gloria, nulla
d’importante mi è mancato.
E’ vero, non ho mai voluto l’impossibile; innamorato
delle cose di questo mondo con incoscienza e dolore e paura e angoscia.
Da molto vicino ho conosciuto l’imperdonabile allegria; ho avuto
sogni spaventosi e buoni amori, leggeri e colpevoli.
Ho vergogna delle mie pretese; una gallina goffa,
malinconica, debole e poco interessante,
un ventaglio di piume che il vento disprezza,
caminito que el tiempo ha borrado.
Gli istinti hanno morso la mia giovinezza e ora, senza rendermene conto, sto iniziando
una maturità equilibrata, capace di spazientire chiunque o di annoiare di colpo.
Gli errori sono stati definitivamente dimenticati; la memoria è morta
e si lamenta con altri Dei inaugurati dal sonno e con i cattivi sentimenti.
Il deperibile, lo sporco, il futuro, hanno saputo intimidirmi
ma li ho sconfitti per sempre; so che futuro e memoria si vendicheranno un giorno o l’altro.
Passerò senza essere notato, con falsa modestia, come Cenerentola, anche se alcuni
mi ricordano con affetto o scoprono la mia scarpina; anche loro stanno morendo.
Non scarto la possibilità
della fama e del denaro; le basse passioni e l’inclemenza.
La crudeltà non mi spaventa e ho sempre vissuto
abbagliato dall’alcol puro, il libro ben scritto, la carne perfetta.
Confido nelle mie forze e nella mia salute
e nel destino e nella buona sorte:
so che arriverò a vedere la rivoluzione, il salto temuto
e accarezzato, che busserà alla porta della nostra lotta.
Sono sicuro che potrò vivere nel cuore di una parola;
condividere questo calore, questa fatalità che pacifica, non serve e si corrompe.
Posso parlare e ascoltare la luce
e il colore della pelle amata e nemica e vicina.
Toccare il sogno e il nitore,
nascere con ogni tremore sprecato, nella fuga.
Inciampi feriti di morte;
speranza e dolore e stanchezza e voglia.
Continuare a parlare, sostenere
questa vittoria, questo pugno; salutare, congedarmi.
Senza superbia posso dire
che la vita è il meglio che conosco.

Disegno in copertina Paco Urondo di Daniel Bonaco