Il tango e il truco, scrive il solito Borges, sono le due grandi conversazioni di Buenos Aires. Ma in quell’aprile del 2001 Buenos Aires di conversazioni ne aveva almeno altre tre. Il Nortazo, innanzi tutto, il vento caldo che stava convincendo le jacaranda a rifiorire e il meteorologo di Canal Nueve a mettersi i fulmini calamitati dove potete immaginare. Poi Assassination Tango, la cui troupe veniva accolta in città con l’entusiasmo di un orfanotrofio senza fondi per un inatteso mecenate. Il film stava arricchendo la conversazione degli assessori di questa nuova e redditizia parola, location, e scritturando come giornalieri i milongueros antropomorfi di tutti i collegi elettorali. Ma i moltissimi di loro che avevano già ballato nel mucchio con Saura, la Potter e Madonna, vivevano la nuova comparsata come una rentrée personale. Hollywood li voleva. Così alla milonga facevano le star, parlavano e straparlavano di carriera, di tournée, e arrivavano tardi sul set, pieni di capricci e di pretese. Il regista Robert Duvall, esasperato, si era fatto fare una maglietta: “se il tango non è morto, vi ammazzo io”. E infine c’era la conversazione generata dalla lettera bomba scritta dalla Mummia e pubblicata dal supplemento Cash. Bomba nel senso non esplosivo del termine, beninteso. Nella lettera la Mummia puntava il suo ditone bendato contro la vedova di Martín Karadagián, la quale, a suo dire, aveva sottratto i fondi pensione ai “Titani nel ring", la leggendaria troupe di lottatori che l’armeno aveva fondato negli anni ’60, dopo aver vinto il titolo di campione segreto del mondo contro Giovanni XXIII. In realtà, chi bazzicava l’ambiente, sapeva che i fondi erano stati cartolarizzati, cioè trasformati in prodotti finanziari e poi affidati a Goberti, un cantante fattosi impresario. Quello che invece nessuno sapeva era che i Titani avevano ingaggiato un investigatore privato. Il loro piano era semplice come la drammaturgia dei loro match. Avrebbero inscenato l’epico scontro tra il Bene e il Male, si sarebbero presi a pacche truculente sotto i riflettori, mentre il loro infiltrato nella realtà si sarebbe mosso di soppiatto. Per questo avevano scelto lui, il più oscuro di tutti, uno che assomigliava a uno sconosciuto visto da dietro. Il dado ormai era tratto, i Titani potevano anche andare al tappeto e lì dormire sonni tranquilli. Alle sporche calcagna di Goberti ora c’era Jean Fajean.
Il sole se ne stava bello stagliato nel cielo come se davvero gli importasse qualcosa di noi rasoterra. Qui giù il Nortazo, quell’impiccione, continuava a ingarbugliare le chiome a chi ce le aveva e a rapire gli aplique a chi invece aveva rimediato col posticcio. Un aprile così caldo e insolito non lo vedevo dall’anno scorso. Le 10 e mezza: troppo presto per dar la caccia a Goberti, quella era l’ora in cui un imprenditore della notte, come lui amava definirsi, era appena andato a letto. Ripensai alla Mummia, alla sua lettera, alle mie dita stritolate. Ciò che veramente mi aveva strappato il fiato era l’aver sentito il prestigio delle ferite vere, quelle che non fai rimarginare in camerino. L’irreparabile surclassava la mia piccola manutenzione, l’agucchiare, i mezzi termini. I Titani erano la vita abnorme e pericolo e peripezia e spasimo, cicatrici, ecchimosi, croste. Erano i guai superiori che avevo sempre sognato, la Tebaide dove finalmente si faceva sul serio, e dove, grazie al cielo, c’era qualcuno che mi voleva seriamente ammazzare. Tutti sapevamo che la calda vita degli artisti, la vita cazzuta, mettiamo, di una Adriana Varela, non era che una voce di preventivo, come la pubblicità e le ospitate. Nient’altro che ordinaria amministrazione. Da qui l’orrore per l’ambientino artistico, gentaglia che oltre tutto mi teneva alla larga. Rilessi ancora la lettera sulla carta salmonata di Cash “questa lotta che ho fatto mia, contro l’ingiustizia, contro il potere del denaro che corrompe le coscienze”. Mummia, tu sei valida, mi complimentai. Il giornale l’avevo noleggiato, tanto valeva leggere anche il resto. Neanche a farlo apposta c’era un inserto sul tango. Da quando faceva rima con business, il tango era tenuto d’occhio come il fegato di un ubriacone, osservato e conteggiato. Studi di settore, ricerche di mercato, rapporti, bilanci, stime in valuta, percentuali, era tutto lì, la nuova bazza, il mercatino tribale travestito da Disneyland. C’era anche la foto di una vecchia gloria, Gerardo Portalea, grande milonguero e operatore cimiteriale. Indossava un’abbagliante zoot suit bianca con un garofano all’occhiello di probabile provenienza tombale. Era abbracciato a Robert Duvall. “Ho risposto positivamente all’appello di Hollywood”, diceva nell’intervista, “solo quando ho saputo che il produttore era Francis Ford Coppola. Non me la sarei sentita di portare via dei soldi al mio amico Duvall”. Più sotto, un trafiletto con un titolo shakespeariano “C’è del marcio a Disneyland?” annunciava la nascita dell’AsMaCoBaTa, un’Associazione di Maestri, Coreografi e Ballerini di Tango che cercava di contrapporre un ente giuridicamente riconosciuto alle prepotenze degli impresari. Sebbene tutte le personalità del tango avessero contribuito alla fondazione, gli iscritti erano a malapena sufficienti a ricoprire le innumerevoli cariche dell’organigramma. Non c’erano soldati semplici, nel tango. La piattaforma rivendicativa era ben delineata, copertura medica, salario minimo garantito, contributi previdenziali, la pensione. E il riordino del comparto didattico tuttora soggetto a confusione tariffaria. Pensavano a tabelle merceologiche da appendere sui luoghi di lavoro, a diplomi, a patentini. Fu in quel momento che mi venne l’ispirazione, i lavoratori del wrestling e del tango-show avevano moltissimo in comune, a cominciare dai padroni che li sfruttavano. Perché non fare un unico fronte, perché non coinvolgerli nella vertenza dei Titani? Tango e wrestling uniti nella lotta! Era ora di alzare la voce, dovevano capire chi è che obbedisce qui. Telefonai subito ai nostri nuovi alleati. Dopo un lungo tira e molla di domande e spiegazioni, mi passarono il responsabile delle relazioni sindacali territoriali esterne. La voce aveva un accento tedesco, come quello che si fa nelle barzellette.
- Sono Manolo Sucher.
- Manolo Sucher? - presi tempo. Quella voce io l’avevo già sentita. - Sì, Manolo Sucher.
- Con l’acca o con la kappa?
- Con l’acca, perché?
- E’ per caso figlio di Manolo Sucher?
- Ma le sembra che un Manolo Sucher possa chiamare suo figlio Manolo Sucher? - E perché no? Da molte generazioni i maschi della famiglia Mosalini si chiamano
tutti Juan José e suonano il bandoneón.
- E come li distingui? - L’obiezione era sensata.
- Sono spaziati, come i paracarri, uno ogni trent’anni.
- Ma li devi prima radunare. Se ne vien uno solo?
- Lo fai suonare e capisci subito chi è.
- E se non si porta il bandoneón?
- Senta Sucher, non lo so, magari si mettono dei numeri sulla schiena. Lei mi sta
cavillando, Sucher. E’ vero che suo padre è morto durante una prolungata
scaramuccia d’amore, come ha scritto Julio Nudler?
- Le ripeto che non era mio padre. Mio padre è vivo e abita in Svizzera.
- Non le pare contraddittorio?
- Che cosa è contraddittorio?
- Sucher, lasciamo perdere.
- Sì, lasciamo perdere che ho poco tempo. Per che cosa voleva consultarmi? A questo punto mi giocai l’asso.
- Ha letto la lettera della Mummia?
- Scusi Fajean, non sono mica Indiana Jones. Di quale mummia sta parlando?
- I Titani nel ring. Le dice niente?
- Ah, quella mummia, Oscar Demelli. No, non è un nostro iscritto.
- Ancora no, Sucher. Senta, possiamo incontrarci di persona?
- Stavo per uscire, c’è un altro problema sul set di Assassination Tango. Quei figli
di puttana adesso vogliono che i miei artisti ballino Di Sarli senza musica. Senza
musica sembreranno sordi.
- Sucher, sembreranno sordi con la musica.
- Attento ai paroloni, Fajean. Il nostro studio legale pesa 120 chili e ha le mani di
pietra. Se vuole ci vediamo fra un’oretta alla Confetteria del Mulino.
- Ma non è chiusa?
- La confetteria è chiusa. La location è aperta. Il Mulino è di Goberti.
- C’è qualcosa in questa città che non sia di Goberti? Posso essere lì anche in
cinque minuti, mi basta attraversare Callao. Come la riconosco?
- Stempiato, capelli lisci neri, baffi neri leggermente circonflessi, naso greco,
labbra tumide, occhi di brace.
- Sucher, lei è il ritratto di suo padre.
Anche il ricevitore lo appese con accento tedesco. Stavo per alzarmi e dirigermi verso l’attaccapanni, il mio unico elettrodomestico, quando da dietro la porta smerigliata vidi spuntare la sagoma dell’Aconcagua. Maledizione! L’ufficio legale di Sucher era già qui, dovevo scrivere subito una ritrattazione! E invece tirai un sospiro di sollievo, ma guarda un po’ chi si rivedeva: il vecchio Gemelli Siamesi Cohen, il titano che per copione veniva sempre accoppato dalla Mummia. Lo chiamavano Gemelli Siamesi perché una volta aveva un fratello identico a lui e quando uno dei due è morto, non si è mai saputo quale. Stavo per esprimergli le mie condoglianze retroattive, ma dalla sua mole si scontornò un altro Gemelli leggermente più piccolo, come le bambole russe. Erano vestiti uguale, doppiopetto antracite a righe grosse, camicia bianca, cravatta punzón, scarpe di vernice. Gli abiti avevano quell’aspetto irreale che hanno i costumi teatrali alla luce del giorno.
- Ciao Cohen, siete tornati a essere in due? - mi informai.
Quello diciamo più piccolo mi guardò con ribrezzo:
- Non si chiama Cohen, pelotudo! - sbandierò ai quattro venti. Aveva una voce da
cartone animato.
- Ah no? Chiedigli chi gli ha ridotto gli orecchi a un nodino. Luna Park, 1969: io
c’ero.
Cohen annuì sconsolato, come il cane dei lunotti. Sì, c’era anche lui. Intanto il suo socio girava per l’ufficio ostentando ribrezzo. Si vede che il ribrezzo gli veniva bene. Si fermò davanti al mio Francis Bacon.
- E’ autentico questo? - mi chiese
- Sicuro, non vedi che c’è l’expertise delle Lasagne Paf?
Lo staccò dal muro e lo sfondò con un cazzotto. Guardai Cohen che emise un altro sospiro con gli occhi al cielo. Fece un gesto a due mani aperte per invitarmi alla calma. L’iconoclasta si era fermato davanti al mio Rothko.
- Quello non toccarlo, è un regalo dell’imbianchino - gli gridai.
Troppo tardi, lo fracassò con una ginocchiata. Cohen atteggiò la bocca a ferro di cavallo e mi fece segno di aspettare. Non aveva ancora detto bao. Esaurita la mia pinacoteca, il teppista cercava qualche altra cosa da spaccare. Prese la mia lobbia italiana dall’attaccapanni, se la portò all’altezza del sedere e la riempì di gas solfidrico. Cohen stavolta parlò:
- Porta pazienza, è nuovo del mestiere, gli sto facendo fare un po’ di pratica.
- Quel che troppo è troppo! - dissi alzando i pugni - In guardia babbeo, vediamo
cosa sai fare oltre a scorreggiare nei miei cappelli.
Il pivellino avanzò ondeggiando le spalle come fanno i pugili di quart’ordine per far vedere che sanno le mosse. Stavo per stenderlo quando il suo destro sbucò dal nulla centrandomi lo zigomo. Poi arrivò anche il sinistro, quello però l’avevo visto. Mi colpì velocemente altre due volte con combinazioni a due mani. Il suo repertorio era tutto lì. L’unico cazzotto vero mi prese al mento mentre stavo caricando il mio gancio demolitore. Approfittò di quel momento per tirarmi un diretto bestiale allo sterno. Mi si bloccò il respiro, mandando a monte il mio piano basato essenzialmente sulla respirazione, come il tango milonguero della Miller. Rovinai al suolo, ma prima di perdere conoscenza feci in tempo a sentire Gemelli che mi diceva:
- Il signor Goberti ti invita stasera al Mister Tango. Ti vuole parlare, sia detto senza
offesa. Lo show comincia alle 22, il signor Goberti canta un tango all’inizio e uno alla fine, sia detto anche questo senz’offesa. Noi balliamo La Cicatriz di D’Arienzo. Il nostro nome è Fratelli Macchione: ricordatelo, stasera, se non vuoi svegliarti in un vicolo con i gatti che ti fissano..
Quello che accadde nei successivi minuti non so. Vivere è essere percepiti, sia detto senza offesa. So solo che quando mi svegliai trovai i neo-fratelli Macchione tramortiti, tumefatti e mummificati con una lunga benda bianca. Una firma inequivocabile. Sotto le loro suole c’era la pubblicità della Bulova Accutron, l’orologio dell’era spaziale, sponsor dei Titani. Il che mi ricordò che avevo un appuntamento con Manolo Sucher. E che stasera mi aspettava un tango composto da suo padre.