Correva il 2001: tutti ricordiamo dove eravamo quell’11 settembre, il compleanno di Adorno. Ma a Buenos Aires c’è uno che ancora si ricorda dov’era la mattina del 5 aprile, un giovedì. Si chiama Jean Fajean, quasi come il forzato dei Miserabili: un piccolo investigatore specializzato nello show business, ossia nel dare la caccia a ballerini, cantanti, musicisti e persino a payadores scomparsi. Qualche volta li trova, qualche volta è lui che li perde. In quella specifica mattina d’aprile viene ingaggiato dai Titani nel Ring, lottatori leggendari sì, ma che al termine della loro tumefatta carriera si ritrovano derubati della pensione. Una lettera della Mummia accusa la vedova Karadagián di aver fatto sparire i loro fondi pensione negli inferni fiscali del tango show. Del gioco di prestigio finanziario si sospetta un tal Goberti, vecchio cantante di Varela e ora maneggione della calle Corrientes. Perché i Titani si sono rivolti a un investigatore e non a un magistrato? La loro deformazione professionale vuole che ogni torto venga prima elevato a conflitto tra il Bene e il Male e poi risolto a porte chiuse in un’osteria d’Amburgo. E Fajean sembra perfetto per il compito: è credulone, sentimentale, povero come i ragni. Nessuno lo noterà, nessuno lo vedrà arrivare, pensano. Invece non sono passate neanche due ore dall’incarico che Fajean già subisce due intimidazioni. I fratelli Macchione gli spaccano i quadri e gli gasano la lobbia, e un compadrito borgesiano lo minaccia con un rasoio. Ma ora Fajean ha degli angeli custodi da un quintale o più. Chi lo tocca muore: parola di Titani.
- Veda, signore, nel tango non abbiamo a disposizione premi, borse di studio,
sovvenzioni o emolumenti, il che ci pungola a un avventuroso rapporto con la
vita pratica. Senza contare l'indotto, ossia la somma delle attività accessorie
quali la docenza, lo spaccio e il lenocinio, noi artisti del tango non arretriamo di
fronte ad alcuna professione: ci sono cantanti che guidano il colectivo, ballerini
nel ramo pompe funebri, bandoneonisti periti chimici e maestri di tango
informatori della polizia.
Dacché era stato ridotto alla ragione, il mio aggressore parlava anche dai gomiti,
come uno che si è perso quando lo ritrovano. Dal suo lunfardo riccioluto si capiva
che aveva studiato. Le rastrelliere vuote del guardaroba ci guardavano con
curiosità. Il Mulino era chiuso da cinque anni e un po’ lo si notava. Mi ero seduto
su una sedia, o forse era un baule o un motorino, a recuperare il fiato. ll rasoio sarà
stato anche finto, come nelle poesie della Szymborska, ma lo spaghetto era stato
vero. L’Uomo Montagna teneva il mio nuovo amico sospeso per la collottola, come
un’ovovia. Il suo nome era Domingo Escarlatti, aveva dichiarato, lavoratore
somministrato in diversi show di Buenos Aires. Il suo cavallo di battaglia era il
compadrito borgesiano con il lengue. Faceva coppia con Felicia, Rosita o Jennifer,
secondo convenienza.
- E se il signor Montaña volesse essere così cortese da depositarmi al livello del
mare - continuò - avrei l’onore di chiedergli un autografo. Sono sempre stato un
suo ammiratore fin da quando lo vidi abbattersi sull’insolenza di Cipriano
Guzman, come dire gli Urali su una patatina. Da allora è diventato il Cratere
Guzman, lo visitano le scolaresche.
L’Uomo Montagna mi guardò, gli feci cenno di sì. Il suo sorriso rischiarò la caverna
come un Fresnel da 5000. Diede a Escarlatti una foto firmata e si congedò con la
solita pacca ortopedica sulla spalla. Là fuori Plaza Congreso aveva bisogno di lui,
per riempirsi.
- Quindi, Escarlatti, lei l’ha disegnata Borges - constatai.
- In un certo senso sì. A Borges piaceva l’accoltellatore che resta idealista, che
non si mette a studiare da geometra. Il poeta non sprecava i suoi ottonari per il
conseguimento di un diploma - si giustificò.
- E con lei questo rischio non c’era - insinuai.
- Signore, io sono laureato in Letteratura Anglo-Americana - disse con orgoglio.
- Ah ecco da dove viene la citazione di Hemingway.
- Sì, ci ho fatto la tesi sul “friggi il pesce e guarda il gatto”.
- E quella storia di cartolarizzarmi le palle? Hemingway le avrebbe tamponato il
difetto con due cartoni, odiava le smargiassate non sue...
- Quella è una cosetta mia, tengo un corso di minaccia creativa all’Unión y
Benevolencia. E insegno coreografia facciale al festival Cita, seminario
finalizzato alla corretta interpretazione dei tanghi cantati. Non penserà mica di
poter ballare “Golgota” e “Infamia” con la stessa postura delle sopracciglia,
vero?
- Ma neanche per sogno. Sono tanghi che ricompaiono ogni volta che imbraccio
una chitarra - ammisi - Però dalle mie parti si dice: quattro lavori cinque miserie.
- Per me le miserie allora sono sette. Ci fanno girare come gli stronzi nei tubi.
Ballo “Felicia” con Jennifer al Mister Tango, poi “El llorón” con Felicia al
Casablanca. Attraverso la strada e faccio gli emigranti con valigia al
Michelangelo. Corro alla Ventana per il quadro scamiciato di “No llores por mi
Argentina”. Mi infilo in un taxi e arrivo con la lingua penzoloni appena in tempo
per il “Libertango” contemporaneo con Goberti. Questo da martedì a sabato. La
domenica ci fanno fare le pomeridiane folk nelle estancias degli azionisti. E il
lunedì dobbiamo stare a disposizione per i volos aziendali.
- E Rosita? Todos los ladrones están enamorados de Rosita, están. Y yo también! - questa la dissi per la platea.
- Con Rosita faccio il Golden Boy in “Se dice de mí”. Le gironzolo intorno
toccandomi l’ala del cappello. C’è anche un video, se vuole vederlo.
- Preferirei ascoltare del minimalismo. Senta Escarlatti, perché mi ha aggredito?
- Pensavo fosse un tirapiedi di Goberti. Il nostro ambiente è sempre stato pieno di
spie, ma la sua mafia gaucha è peggio della mazorca di Rosas. Se sgarri ti
cantano subito il Kyrie Eleison, senza passare per l’introito. Jennifer mi ha detto
del nuovo sindacato, voglio aderire ma con circospezione. E già che ero qui, mi
dicevo, magari aggancio Robert Duvall. Mi ha visto ballare al teatro Astral con
Copes. E’ venuto anche in camerino.
- Prima ho sentito dire che qui Jennifer balla con Marianela - gli passai il dato. E il
dato non gli piacque.
- Quella guacha. Prima mi fa andare al casting sbagliato e ora balla con il Polpo
Marianela, che detto tra noi saltella più di due zoppi in una sparatoria. Non ti
puoi fidare neanche della tua compagna.
- Specie se ne hai tre...
- Non dipende da me. Io sono fedele come il pesce spada. Sono i caporali detti
direttori artistici che ci hanno in pugno. Sono loro a fare e disfare le coppie, a
gestire la girandola dei rimpiazzi. Ci somministrano dove, come e quando
vogliono. Otto dollari a entrata per coppia. Non ti piace? Mia la partita, mio il
campo, mie le regole. Se non ti va bene puoi anche tornartene all’università, a
insegnare i sintagmi di Elton John.
- E perché non ci torna, professore?
- Perché io non lascio lo show business! Come disse quel tale che spalava la
merda degli elefanti... - concluse amaramente.
Valeva la pena consolarlo, continuare a parlare dopo che il sudario della realtà era
caduto ancora una volta sulla nostra bella fiaba? Giudicai opportuno fargli sentire
la solidarietà di classe.
- Professor Escarlatti, mi sbaglierò, ma nei suoi passi alfabetizzati riecheggia la
gloria dei nostri trisavoli. Vedo lei, ma la mia immaginazione corre a quei duelli di
lame non retrattili, sullo sfondo di tramonti di porpora e di croco. E là nei
sobborghi che sono la nostra Colchide, vedo due semidei in scarpini col tacco
alto che ricamano l’epica giostra del tango e della morte. Danzano e
combattono, combattono e danzano. Alla fine solo uno di loro, non importa
quale, rimarrà vivo. Asciugherà il coltello nell’erba medica, s’infilerà un fiore
rosso tra i capelli e consacrerà la sua vecchiaia al racconto di quel colpo
fortunato.
- Mmm, forse dovrei farmi incorniciare. Signore, ma lei chi è?
- Il mio nome non le direbbe niente, diciamo che a me mi disegna Victor Hugo. Le
basti sapere che sto guidando la riscossa dei Titani. E questa volta persino
l’arbitro William Boo starà dalla parte dei buoni, cioè dalla nostra.
Poi tirai fuori il bigliettino che mi aveva dato Manolo Sucher.
- Una cosa ancora: conosce questo... El Moplo?
- Nessuno lo conosce. E’ un vecchio milonguero che vive sotto copertura da
diversi anni. Ricorda lo scandalo Milongaleaks? Era lui che aveva spifferato al
mondo esterno i codici segreti della milonga. Se oggi gli inestimabili protocolli di
mirada e cabeceo possono venire applicati con un uso minimo della forza, è
grazie a lui. Dicono che fosse un archivista della polizia e che una volta avesse
una milonga chiamata Il Recidivo, come il giornale di Evaristo Carriego. So che
aveva rilevato dai no global del Yá Basta un centro sociale di charme, segnalato
anche dalla Guide Racaille, La Quinta del Ñato, e che gliel’avevano fatta
chiudere perché non pagava le mazzette.
- E come può essere utile alla nostra causa? - mi domandai a voce alta.
- Le indiscrezioni del Moplo non finiscono mai. Magari è pronto a spiattellare tutto
su queste nuove milonghe turbo-liberiste. O magari vuole solo farle uno dei suoi
imparabili pipponi. E’ un campione del genere declamatorio.
- A proposito di turbo-liberismo. Lei ha mai visto Lombardoni al Mister Tango?
Per la prima volta, Escarlatti sembrò soppesare quanto stava per dire. La sua voce
si attenuò.
- Ha un tavolo riservato nel privé. In estate facciamo la stagione nei suoi alberghi
a Mar del Plata. E anche gli show nella sua estancia a San Isidro quando ha
degli ospiti importanti. Faccia attenzione, monsieur Hugo, Lombardoni non è un
tipo da prendere sotto gamba.
Improvvisamente negli altoparlanti del Mulino si intrecciarono le chitarre di una
milonga entrerriana. Ci alzammo per andare a vedere cosa succedeva nel salone.
Le riprese del film erano terminate e sul set non c’era rimasto nessuno. Solo una
squadra di facchini, con molta calma, stava mettendo le attrezzature nei bauli. Il
Mulino così non l’avevo mai visto, sembrava una cattedrale abbandonata. Dalle
grandi vetrate in alto la luce del pomeriggio entrava di taglio, sagomando con il
pulviscolo delle imponenti quinte teatrali d’ocra e d’azzurro. Sulla pista deserta tre
figure stavano avanzando in controluce. Erano alti, neri, minacciosi. Un vento
freddo aveva spento le nostre parole come candele. Escarlatti mi sussurrò:
- Vada a cercare quel suo amico montuoso. Questi tre me li faccio io.
- Ma il suo pugnale è di stagnola - obiettai.
- Sì, ma loro non lo sanno.
Escarlatti si rivolse alle tre ombre:
- Ehi, Qui Quo Qua! Cercavate me?
I tre si aprirono come l’anilina nell’acqua. Tra le loro mani vidi i lampi dell’acciaio.
Escarlatti si fermò per annodarsi la seta bianca del lengue. Aveva molto lavorato su
quel gesto, era semplicemente perfetto. Strappò la tovaglia da un tavolo e se
l’avvolse sul braccio sinistro, per parare i colpi. Intanto io ero corso fuori, ma del
mio rilievo preferito non c’era traccia. Maledizione, dove sono le montagne quando
ti servono? Rientrai che il duello era appena iniziato. Escarlatti lo attaccavano a
turno da tre diversi punti cardinali, ma lui si difendeva bene e non si faceva mettere
nell’angolo. Il bordone comandava sul pas de quatre una coreografia di affondi e
schivate. Le chitarre ora intessevano la storia illusoria di noi argentini, il nostro
passato di coraggiosi: qualcuno ci aveva contato i giorni, qualcuno ci aveva
contato le ore, qualcuno che non conosceva la premura né la dilazione. I colpi
intanto si infittivano, ogni volta più cattivi, ogni volta più sleali, un balletto di
piroette e arabeschi mortali. Con un magistrale grand jeté Escarlatti decurtò Qui
delle dita che gli erano necessarie per contare fino a dieci. Ma l’impresa gli costò
cara. Uno lo afferrò da dietro bloccandogli le braccia e l’altro gli affondò con un
ghigno l’acciaio nel petto. La faccia di Escarlatti neanche si mosse, come se di
morire non gli importasse niente. Sul suo petto si allargò un osceno papavero nero.
Prima di afflosciarsi come un fantoccio di pezza, pronunciò distrattamente le sue
ultime parole:
- Ora si usano questi coltelli a lama larga...
Rimasi impietrito dall’emozione. Non feci nemmeno caso alla voce che diceva:
- Stop! Questa sì che è una coltellata!
Mi girai verso la brutta faccia che aveva parlato. Era quella di Goberti, la madre di
tutte le volgarità.
Disegno di Alberto Breccia