Jean Fajean non aveva poi sbagliato a dir che un somministrato non vale più di un Titano. Prendete ad esempio Domingo Escarlatti, che lavora da compadrito nel tango-show. E’ sfruttato, spremuto, malmenato esattamente come un lottatore del ring e non ha nemmeno la soddisfazione di potersi rifare ad Amburgo, dove invece i lottatori si riuniscono una volta all’anno per combattere sul serio e stabilire il punteggio veritiero di ciascuno di loro. Fajean sarà pure un investigatore da quattro soldi, ma la causa dei Titani l’ha presa a cuore e sogna la santa alleanza tra i lavoratori del tango e quelli del wrestling. Proletari dello spettacolo, uniamoci. Non abbiamo da perdere che le nostre paillettes, declama tra sé e sé. A dire il vero, di paillettes ne sono rimaste pochine a coprire la nuda vita di questi lavoratori, tanto precari e somministrati da far sembrare le scommesse sui cavalli un’attività sicura.
Il loro sindacalista Manolo Sucher racconta a Fajean la verità della milanesa. I padroni del gioco sono sempre gli stessi e i milioni del tango se li intascano sempre loro, gli impresari. C’è ad esempio questo Goberti, cantante di Varela e faccendiere, e poi c’è quel Lombardoni, segretario alla cultura e rapallizzatore.
Gente potente, pericolosa: a Fajean mandano i fratelli Macchione a distruggere il suo Francis Bacon, il suo Rothko, il suo Panizza. Ma per fortuna interviene la Mummia con due pappine delle sue. Mentre Escarlatti, per il solo fatto di aver parlato con l’investigatore, viene pugnalato a morte da tre sicari di Goberti. E muore a menadito, secondo il copione di Borges, senza neppure cambiare d’espressione, Ora giace sulla pista del Mulino con il petto squarciato. Fajean, pur impietrito dall’emozione, si accorge che dietro quel duello sleale c’è la regia del qui presente Goberti. L’investigatore è frastornato, un asino fra i suoni. Vede la scena sfocata e fuori sincrono come vuole un canone dell’underground. E in testa gli rimbombano i versi teatrali della Szymborska, appena attutiti dall’irrealtà dei fatti: per me l’atto più sublime della tragedia è il sipario quando cala e dalla bassa fessura vedi una mano che raccoglie il fiore caduto e un’altra che afferra la spada abbandonata…

E poi le parrucche e le vesti che s'aggiustano, il cappio che si leva dal collo, il coltello estratto dal petto, il miracoloso ritorno degli spariti. E i morti che si riallineano tra i vivi, con la faccia al pubblico. Ma quel che mi piace del teatro è il lampadario, diceva Baudelaire. In teatro tutto è finto, niente è falso e questo è vero. Ma cosa stava succedendo di vero o di falso là, in pista, nel reame pattuito del finto? La scena si era ghiacciata allo stop di Goberti, nessuno osava muoversi, nemmeno il morto. A Qui era ricresciuta la dotazione decimale delle dita, Escarlatti sanguinava nero, come un giacimento appena scoperto. Il team trucco e parrucco del Mister Tango aspettava professionalmente ai confini della realtà. Io stesso ero indeciso sul da farsi: entrare in scena o filarmela di nascosto? Recitare la mia parte o mescolarmi alle maestranze spingendo un baule? Goberti evidentemente era venuto a incutere deferenza tra i sottoposti. L’abbondanza di schiavi gli slegava le mani e se ne ricordava ad ogni gesto, metà tiranno e metà showman. La sua faccia color Julio Iglesias andò a complimentarsi con l’assassino di Escarlatti. Sotto portava la stessa casacca collo Mao che il grande timoniere madrileno indossava nella copertina di “Tango”. E l’imitazione non finiva lì. Braccialetto, catenina, tinture, aftershave, Paco Rabanne, l’intimo. Di suo ci metteva i baffi a bastoncino e il sorriso solfidrico di quando cantava “Dammi il cucù” con Varela.
- Bravo, bella coltellata - disse all’autore della medesima - Borgesiana, fine, benfatta, ottocentesca. Perfetta. Degna del Noy del Abasto. Io un po’ me ne intendo. Tu sei Isidoro, dico bene?
- Sì signor Goberti, Isidoro Cruz, agli ordini - rispose arrossendo l’interpellato. Il sicario era un timidone.
- Bravo, ben scelto. Isidoro Cruz, nome sonoro, autobiografico.
- Grazie signore. Il nome completo è Tadeo Isidoro Cruz come mio padre, e mio nonno prima di lui, e prima ancora il bisnonno e il bisavolo.Tutti i maschi della famiglia Cruz ci chiamiamo Isidoro.
- Isidoro, tu hai un fratello?
- Sissignore! È quello lì - indicando Qui, che salutò con la sua cinquina ricresciuta.
- E si chiama anche lui Isidoro?
Isidoro sorrise e annui:
- Sì, ma noi lo chiamiamo Pipi.
- Per distinguervi, giusto?
- Sì, per praticità.
- Tadeo Isidoro Pipi Cruz? - Goberti voleva essere sicuro al cento per cento.
- Esatto, signore.
- Aspetta un attimo, non c’era un Tadeo Isidoro Cruz nel Martín Fierro?
- Sì, signor Goberti, è il nostro capostipite. Il traditore. Siamo molto orgogliosi di lui, il tradimento è la nostra tradizione familiare. Pensi che non finiamo mai neanche una partita a truco dalla stessa parte in cui l’abbiamo cominciata.
- Buono a sapersi. Isidoro. Vedi, personalmente io starei qui tutto il pomeriggio ad ascoltare la tua genealogia, il groviglio araldico dei Cruz… - ora Goberti si rivolgeva al suo pubblico addomesticato e la sua voce si era fatta fredda e minacciosa come una stalagmite - … però temo che si sia fatto un po’ tardi. Dobbiamo girare Milonguita, che è bella lunga. Che ore sono, Isidoro?
Isidoro consultò il suo orologio da polso. Era diventato vermiglio come un gaucho col vestito nuovo.
- Le tre meno cinque - rispose con un filo di voce.
- Grazie. Ora ti chiederò un’altra cosa, Isidoro, rifletti bene prima di rispondere. Sei un compadrito del 1890, anno in cui è ambientata la sequenza che abbiamo testé finito di girare. Sei nel barrio del Retiro, circondato da bovari e da donne col sottanone. Lì fuori passano i tram a trazione animale. Secondo te Isidoro, un compadrito del 1890, può portare al polso un Bulova Accutron, l’orologio dell’era spaziale?
Inghiottimi terra, dovette pensare Isidoro, con gli occhi bassi della vergogna.
Qualcuno ridacchiò servilmente, ma Goberti non cercava l’applauso degli inferiori. Era un aristocratico, lui. Un magnanimo.
- Ma non fa niente, Isidoro. Vedi là il nostro regista, sulla tipica sedia col nome dietro? Quello è Carmelo Gozzano, è italiano, un maestro, un genio, ha vinto più premi lui di Varenne. Non che siano rivali. Se vai a casa sua, è uno che ha tre oscar sul comò. Sai cosa mi ha detto? Non so se riesco a riprodurre il suo accento cocoliche. Mi ha detto: “Señor Goberti, qua la gente si devono divertire, mò, mò! Qui ci stanno i soggetto, ci stanno pure i treatment: atteniamocelo! Il filme s’intende miniare un delicate e crude quadrette di costume che datosi che si svolge tutti in interna può essere dove vuoi, magari in studio, che è un grosse risparmia per la produzione. Lo facciamo a casa tua, al Mister Tango!” E allora io gli ho detto: ma Carmelo, perché a casa mia se abbiamo la location più bella di Buenos Aires: il Mulino. L’ho affittato agli americani per conto del Congresso a una cifra nettamente astronomica, a patto che ci lascino usare la loro attrezzatura, le cineprese, le luci, il lampadario. E Gozzano mi ha detto: “Basta che bisogni ridurri gli esterne.” Mi segui fin qui Isidoro?
Isidoro fece di sì col capo chino.
- Bene. Sai cosa mi ha detto quando abbiamo visto spuntare il tuo Bulova Accutron dal polso che affondava il coltello? Mi ha detto: “L’anacronismo non ci fotte. È como un flashback ma in avanti. L’inconscia è un grandi cisterno, c’è la monnezza dei secolo, scarpa vecchia, cartoccio di giornali, palle rotte, tope morte. Indica un presentimento aggiornato alla visione futura del ricordo attuale, ma all’indietro.” Questo mi ha detto il maestro, il genio dell’underground! Al che gli ho detto: fai posto sul tuo comò perché con questo film ci danno altri due o tre oscar.
- Come minimo! - commentò con entusiasmo Isidoro che intravedeva una via d’uscita.
Goberti gli appoggiò la mano paterna sulla spalla e scandì in modo che tutti potessero sentire:
- E pensa, forse sarà proprio per merito del tuo orologio di merda, patacca del cazzo che se non te lo togli te lo faccio mangiare sul posto dai miei maiali, col braccio e tutto.
Il silenzio del Mulino arrivò ai livelli della camera anecoica di John Cage. Il cuore dello sventurato Tadeo Isidoro Cruz girava come un sasso nella betoniera di D’Arienzo. Poi Goberti cambiò ancora di registro, da artista dell’intimidazione e della lusinga qual era.
- Ma sto scherzando, Isidoro, non siamo mica nel feudalesimo! Ora cambiati che giriamo Milonguita. Chi è di scena si prepari, fra cinque minuti vi voglio tutti intorno al regista!
Il sollievo fu generale, la tempesta era passata senza svellere nessun ciottolo dal giardinetto. Io ormai mi ero affezionato al mio baule, lo spingevo avanti e indietro senza costrutto, come fanno i facchini di questo mondo infame. Aveva ragione la Szymborska: l’atto più importante della tragedia è quando finisce, e la rabbia porge il braccio alla mitezza, e la vittima guarda beata gli occhi del carnefice, e il ribelle cammina senza rancore a fianco del questurino. Ancor più delle tirate della tragedia è l’incorreggibile intento di ricominciare domani daccapo che ci commuove. Lì per lì progettai una rotabile che mi portasse a lambire Escarlatti.
Stava chiacchierando cordialmente con i suoi assassini al pit-stop della sartoria.
Gli avevano dato una camicia nuova e un lengue immacolato. Quando mi vide, si avvicinò:
- Allora, come è andata?
- Ragazzo mio, mi ha fatto prendere un bello spavento. Stavo quasi per sparare a Qui Quo Qua. Poteva dirmelo che era un film.
- Chiedo scusa, ma il mio Dio è Stanislavskij. Devi viverlo, il tuo ruolo. Devi sentirlo, devi saperlo nella carne, nella pancia! Come puoi essere accoltellato bene se sai che è per finta?
- Sì, può darsi, io invece sono per lo straniamento. Puñalada en panza ajena impresiona pero no duele! E adesso?
- Adesso facciamo Milonguita, una boiata che Goberti ha copiato pari pari da Tango Argentino, che a sua volta l’aveva copiata da un sainete di Vaccarezza. Nel tango non s’inventa niente, monsieur. Il Sexteto Mayor ci aveva incollato sotto quattro tanghi, Goberti con i suoi Martiri del Ritmo l’ha sgrossata in uno solo, così non intralcia il flusso delle portate. Al Mister Tango Milonguita la serviamo agli antipasti caldi.
Intanto il cast si stava radunando intorno alla regia. Tutta la milonganza del turno precedente era riaffiorata di colpo, alcuni in gran soirée, altri in abiti da brutto tempo. Felicita Narova, la vedette, riempiva di malavoglia un accappatoio dell’Hotel Alvear, regalo di Goberti. Fumava da un bocchino telescopico, star irraggiungibile del firmamento delle officine. Meglio stare alla larga, anche perché nel mucchio avevo intravisto le orecchie a nodino dei Fratelli Macchione e mi parve anche lo stricchetto ortogonale di William Boo. Maledetto traditore scorpionico, arbitro malvagio e venduto. La combutta ora mi era chiara. Era lui la spia! Ma il regista attaccò con le spiegazioni:
- A questo punto il filme si ricomincia da capo, perché si capisce che sono dieci anni che andate avanti questa storia tutti i giorni. Come tu sai, si tratta di Milonguita, un delicate quadrette di vita nazionale, una ragazza di un dramma somatiche che è povera di una scarsitudine di mezzi, una ristrettudine d’ambiente promiscuo, ma senza esagerazione di bidonville. Niente cafoneria d’immagine, usando il buio come assenza di paesagge. C’è poi il magnate nottambule, anche lui traumatizzati da una parte all’altra dalla roulette. Come tu sai, lui è snelle, piacente, auto-munito. Questa è buono che ci fa vedere l’impostazione della società, che conviene pure per aumentare il livello informativo del filme. La ragazza se lo mangia con l’occhio. Non tiene vent’anni per fare i giovane. Intanto su una dimensione paranoiche, sopprimendo il fidanzato oneste, emblema anch’esso di questa decadenza, lo eleviamo a guappo accoltellatore, di Zurigo, per la situazione internazionale del tango.
La parlantina di Gozzano mi stava dando alla testa. Basta, dovevo battermela al più presto. Avevo bisogno d’aria vera, di tango vero, di una milonga vera, di un mondo senza volontà e soprattutto senza rappresentazione. O Dei onnipotenti del tango e del wrestling, sindaci di Amburgo, datemi un grammo di vita autentica, un abbraccio sincero, un rissa amatoriale in un bar, un epilogo a smerdatutto! Dovevo telefonare subito al Moplo. La voce del regista intanto mi seguì fino alla porta:
- Sta propriamente inutile qui delineare di questi poveri disgraziate incosciente, nessuno gli dice in faccia, ma la colpa non è loro. Gli diamo un’invecchiatina al cabaret con le file di perle e lo splendore dell’abito. L’indecenza di questa gente parla chiara, vedi treatment. Immondiziare così l’amore. Troppo tardi. Il dramma solitarie di figlia coitata, popolare, male alimentata si sottosviluppa nella consumazione dell’attesa. Aspetta, che non si sa mai. Capisce tutt’una volta, la donna è solo, il letto è fatto per dormire. Attaccano i violino, baluginare di lama inox, trionfo della gelosia, sipario!

Disegno di Ricardo Carpani